29 giugno 2020 15:20

Le manifestazioni contro il razzismo pongono una questione cruciale: quella delle riparazioni legate a un passato coloniale e schiavista che non passa. La questione non si può evitare in eterno, né negli Stati Uniti né in Europa. Nel 1865, alla fine della guerra civile, il repubblicano Lincoln promise agli schiavi emancipati che dopo la vittoria avrebbero ottenuto “quaranta acri e un mulo”. L’idea era di risarcirli per i decenni d’ingiustizie e di lavoro non pagato e al tempo stesso di permettergli di guardare al futuro come lavoratori liberi. Se fosse stato adottato, quel programma avrebbe portato a una grande ridistribuzione agraria, di cui avrebbero fatto le spese soprattutto i proprietari schiavisti. Ma, appena deposte le armi, la promessa fu dimenticata: nessun testo sulla compensazione fu mai adottato, e i quaranta acri (circa 16 ettari) e il mulo diventarono il simbolo dell’ipocrisia dei nordisti, al punto che il regista Spike Lee l’ha usato ironicamente per il nome della sua società di produzione (40 Acres and a Mule). I democratici ripresero il controllo del sud, imponendo la segregazione razziale per altri cent’anni.

Curiosamente, altri episodi storici hanno avuto conseguenze diverse. Nel 1988 il congresso degli Stati Uniti adottò una legge che concedeva 20mila dollari agli statunitensi di origine giapponese internati durante la seconda guerra mondiale. Il risarcimento fu concesso alle persone ancora in vita nel 1988, per un costo totale di 1,6 miliardi di dollari. Un indennizzo dello stesso tipo, versato agli afroamericani vittime della segregazione, avrebbe un grande valore simbolico.

Nel Regno Unito come in Francia, l’abolizione della schiavitù fu accompagnata da risarcimenti del tesoro pubblico a favore dei proprietari. Per gli intellettuali “liberali” come Tocqueville o Schoelcher era una cosa normale: se gli schiavisti venivano privati della loro proprietà (acquistata in un contesto legale) senza un indennizzo, fino a dove avrebbe potuto spingersi quella pericolosa tendenza? Quanto agli ex schiavi, dovevano dimostrare di meritarsi la libertà lavorando, e ottennero come unico diritto l’obbligo di possedere un contratto di lavoro di lunga durata con un proprietario, senza il quale venivano arrestati per vagabondaggio.

Nel 1825 la Francia impose ad Haiti un debito considerevole per compensare i proprietari francesi della perdita degli schiavi

Altre forme di lavoro forzato furono applicate nelle colonie francesi fino al 1950. Nel 1833, in occasione dell’abolizione della schiavitù nel Regno Unito, l’equivalente attuale di 120 miliardi di euro fu versato a quattromila proprietari, con dei risarcimenti medi di trenta milioni di euro che sono all’origine di molte fortune di oggi. Nel 1848 fu applicato un indennizzo a favore dei proprietari anche nella Réunion, in Guadalupa, in Martinica e in Guyana. Nel 2001, durante il dibattito al parlamento francese sul riconoscimento della schiavitù come crimine contro l’umanità, l’allora deputata Christiane Taubira cercò senza fortuna di convincere i suoi colleghi a creare una commissione incaricata di riflettere sui risarcimenti per i discendenti degli schiavi.

L’ingiustizia più estrema è sicuramente il caso di Saint-Domingue, ex gioiello delle isole francesi nel settecento, che proclamò l’indipendenza nel 1804 con il nome di Haiti. Nel 1825 la Francia impose ad Haiti un debito considerevole (il 300 per cento del pil haitiano dell’epoca) per compensare i proprietari francesi della perdita degli schiavi. Minacciata d’invasione, l’isola non ebbe altra scelta che quella di rimborsare il debito. Il paese se lo trascinò come una palla al piede fino al 1950, dopo vari rifinanziamenti e interessi versati ai banchieri francesi e statunitensi. Haiti oggi chiede alla Francia di rimborsare quell’ingiusto tributo (trenta miliardi di euro, senza contare gli interessi), ed è difficile darle torto. Rifiutandosi di aprire qualsiasi discussione sul tema del debito, nonostante i pagamenti fatti tra il 1825 e il 1950 siano ben documentati e non siano contestati da nessuno, e continuando a versare ancora oggi compensazioni per spoliazioni fatte tra le due guerre mondiali, si rischia di creare un senso d’ingiustizia.

Lo stesso vale per la questione dei nomi delle strade e delle statue, come quella del mercante di schiavi abbattuta a Bristol. Non sarà facile fissare il confine che divide le statue buone da quelle cattive. Ma come per la ridistribuzione delle proprietà, l’unica scelta che abbiamo è di affidarci al dibattito democratico per cercare di fissare delle regole giuste. Rifiutare la discussione è un’ingiustizia.

Al di là di questo dibattito, bisogna anche guardare al futuro. Per riparare i danni fatti alla società dal razzismo e dal colonialismo, occorre cambiare il sistema economico, partendo dalla riduzione delle disuguaglianze e dall’accesso ugualitario di tutte e di tutti all’istruzione, all’impiego e alla proprietà indipendentemente dalle origini, per i neri come per i bianchi. La mobilitazione che oggi mette insieme cittadini di ogni provenienza può essere d’aiuto.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul numero 1363 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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