03 febbraio 2016 19:09

Il mio proposito per l’anno nuovo è di bere più champagne. Mi rendo conto che suona un po’ come cominciare a fumare in Quaresima, e se ora ve lo dico è solo perché recentemente Nicholas Lezard ha scritto che il prosecco è cattivo. Ho pensato la stessa cosa mentre ne bevevo un bicchiere a Natale, e ho giurato che in futuro, nelle occasioni in cui si richiede qualcosa di frizzante, avrei cercato di bere vero champagne.

Ho preso questa decisione alla Maria Antonietta nel bel mezzo del bombardamento di notizie che annunciavano le nuove linee guida sul consumo di alcolici, e questo mi ha fatto sentire decisamente in colpa. Ma mi sono consolata al grido di “Qualità, non quantità!”, e ricordandomi che se non altro obbedisco alle indicazioni sull’esercizio fisico, sempre che camminare per Londra ascoltando in cuffia audiolibri di Anthony Trollope conti come esercizio fisico. Spero proprio di sì, perché camminare è l’unica forma di esercizio fisico in cui sia mai riuscita a eccellere.

Ho imparato a camminare grazie a un moonwalk. Lo so, ora mi immaginate mentre scivolo all’indietro su un pavimento lucido, ma no, non intendevo il moonwalk di Michael Jackson. Mi riferivo a un’iniziativa di beneficenza intitolata MoonWalk: una marcia notturna di una quarantina di chilometri attraverso Londra, a cui partecipano donne in reggiseno per raccogliere fondi per la ricerca sul cancro.

Ho preso parte alla marcia qualche anno fa, insieme a una squadra di giornaliste strepitosamente glamour che si era allenata per settimane. Ci incontravamo tutte le domeniche e camminavamo lungo il Tamigi, aumentando gradualmente distanze e durata, finché non siamo arrivate a percorrere tranquillamente una trentina di chilometri. E quando dico “tranquillamente” intendo dire ansimando e sbuffando, coperte di vesciche. Però ce l’abbiamo fatta.

Eravamo un bel gruppo. Alice Arnold, all’epoca voce di Radio 4, si fermava ogni due o tre chilometri per fumarsi una cicca. Clare Balding ci aiutava ad attraversare gli incroci piazzandosi in mezzo alla strada per fermare il traffico. Grace Dent aveva una camminata così fluida e disinvolta che sembrava avesse le rotelle sotto ai piedi, mentre Kath Viner, oggi direttrice del Guardian, continua a sostenere che la notte della MoonWalk è stata la più infelice della sua vita. All’epoca pensavo che scherzasse, e mi chiedevo perché mi guardasse in quel modo mentre attraversavamo Battersea Park cantando arie di musical.

Tutti dicono che quando corri una maratona c’è un momento in cui raggiungi il tuo limite. Vale lo stesso se la maratona la fai camminando, soprattutto in piena notte, e mi ricordo di aver toccato il fondo a Clink Street e di avere quasi gettato la spugna quando abbiamo superato il Golden Hind. Ma per il resto è stato magico. Attraversare il Tower Bridge alle tre di mattina, con le strade deserte, in mezzo a un’armata di migliaia di maratonete; e poi arrivare a King’s Road al sorgere del sole, accolte dalla standing ovation dei pompieri allineati fuori dalla loro caserma.

La cosa che mi è rimasta di quella esperienza è la capacità di camminare senza accorgermi della distanza. Ora quando parto non mi fermo più. Se ho qualcuno con cui chiacchierare tanto meglio. Attualmente cammino con un gruppo di amici una volta alla settimana: tutte persone che soffrono di ansia e hanno provato un po’ di psicoterapia cognitivo-comportamentale e un po’ di meditazione. Ci raccontiamo le principali preoccupazioni della settimana, e parlare camminando è un po’ come parlare guidando: non c’è bisogno di guardarsi negli occhi ed è meno imbarazzante. Diamo libero sfogo ai pensieri più mortificanti continuando a guardare dritto davanti a noi, rassicurati dal rumore dei nostri passi.

Quando sono sola, invece, cammino ascoltando i miei audiolibri o musica, e spesso la colonna sonora si rivela comicamente appropriata. La settimana scorsa camminavo con il musical di Stephen Sondheim Company. Sul crescendo di “Marry me a little” – quello in cui generalmente il corpo di ballo allarga le braccia e fa ondeggiare le mani con le dita aperte, per capirci – mentre camminavo impettita lungo il marciapiede cantando tra me e me “I’m ready! I’m ready now!”, un’auto in corsa mi ha superato. Era mio marito, che ha suonato il clacson e mi ha fatto ciao. Mi ha davvero sorpreso che non abbia fatto finta di non conoscermi.

(Traduzione di Diana Corsini)

Questo articolo è stato pubblicato sul New Statesman.

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