01 gennaio 2018 10:01

L’unico giocattolo che ricordo della mia infanzia è una carrozza con i cavalli che funzionava a pile. Me la ricordo sicuramente molto più grande e più bella di quanto fosse. Curioso di capire in che modo funzionava, finii per romperla molto presto. L’avevo ricevuta per un compleanno dalla mia madrina di battesimo, una collega di mia madre.

Ricordo che ero dalla zia Geta e che per la prima volta mi avevano permesso di accendere il fuoco nella stufa della stanza dove dormivo. Il crepitio del legno che bruciava e il colore della brace mi sono rimasti impressi indelebilmente nella memoria, legati ai piacevoli ricordi di quegli inverni, con cibo in abbondanza e tanti bei sogni.

Ho tre foto, tutte divertenti, di quando ero all’asilo. Nella prima sono con una compagna di origine tedesca che era più alta di me di almeno una spanna e aveva un visibile deficit di pigmentazione della pelle, allegramente compensato dalla mia carnagione scura. La seconda è una foto di gruppo, piena di nanerottoli. Anche in questa sono il più scuro. L’ultima, infine, è l’immagine di una festa in cui avevo il ruolo del re ed ero abbigliato di conseguenza: avevo una corona di carta sulla testa e portavo un mantello ricavato alla bell’e meglio da una vecchia tenda.

Eravamo poveri in canna, ma la cosa non contava affatto quando misuravo la mia felicità

Una trentina d’anni dopo, durante un memorabile pranzo con Florin Cioabă, il vecchio re degli zingari, non sono riuscito a trattenermi e gli ho detto che anche io avevo i titoli per salire sul trono dei rom di Caransebeş. A dimostrarlo c’era perfino una foto. Lo scherzo non è stato affatto apprezzato. Del resto non ho mai avuto troppa affinità con i leader del mio gruppo etnico…

In quegli anni ero solo un bambino, ma mi innamorai perdutamente di Suzana, cosa che rese improvvisamente l’asilo un luogo molto interessante. La prova che ero davvero innamorato stava nel fatto che dividevo con lei i miei dolci. Quando qualcuno mi chiese perché fossi innamorato di Suzana, risposi che era perché aveva le labbra rosse come le mele. Mia madre ha sempre pensato che quelle parole abbiano segnato il mio futuro di “intellettuale che scrive sui giornali di Bucarest”.

Suzana è stata la prima ragazza che ho tenuto per mano. Aveva i capelli ricci e gli occhi azzurri. Le piaceva il fiocco rosso che portavo al collo. Aveva molti bei giocatoli, compresi dei mattoncini blu della Lego: li usammo per costruire una graziosa casetta, accanto alla quale sistemammo la carrozza con i cavalli. A quei tempi a Caransebeş nessuno sembrava dare importanza al fatto che ero zingaro. Poco dopo, il trasloco a Craiova avrebbe drammaticamente contribuito a eliminare certe ambiguità etniche tipiche della regione del Banato.

Ricordi insostituibili
Non ricordo di essere mai stato davvero triste in quel periodo, tranne forse il giorno in cui la mia anatra preferita fu tagliata a pezzi e servita nella zuppa, e come contorno c’era della verza al forno. Quel giorno odiai tutti gli adulti intorno a me. Ma il malumore mi passò relativamente presto, perché lo zio Karol mi costruì una canna e mi insegnò ad andare a pesca nel fiume Timiş.

A tre anni imparai anche a reggermi alla criniera dei cavalli. Non perché fossi io a desiderarlo: fu lo zio Nini a farmi salire su Reta, una cavalla molto bella, e a mandarmi in giro per il paese. Il gene del cavalcare e quello dell’alcolismo non mancavano a nessun uomo della mia famiglia.

Ricordo l’odore di Reta e ogni tanto mi capita di sognarla ancora. Anche se mancava la corrente elettrica e mia nonna viveva in una casa che era praticamente un tugurio, stare da lei a Budrea mi piaceva una sacco. Dormivo sulla piastra della stufa e mi comportavo come un piccolo principe. Certo, eravamo poveri in canna, ma la cosa non contava affatto quando misuravo la mia felicità.

Portare l’acqua con il secchio dalle fontane a valle, andare con le mucche a pascolare, fare una passeggiata con Reta o con il carro con i buoi di Nini. Giocare con le capre, con i cugini e i bambini delle case vicine, mangiare qualsiasi cosa si trovasse nell’orto e scendere dai pendii delle collinette sulle buste di plastica, fino a che il sedere mi faceva più male di quando cavalcavo Reta. Sono tutti ricordi che non cambierei con nulla al mondo.

In quei giorni mia cugina usciva per strada ad acchiappare i piccioni con una pentola, poi zia Geta li cucinava e ce li serviva, per la mia disperazione. D’estate, quando non eravamo a Budrea, passavo giornate intere lungo il Timiş sotto la protezione di Vili, un ragazzo rom piuttosto sovrappeso che si prendeva cura di me e aveva una gran paura di zia Geta. La quale, come ogni imprenditrice seria, rubava tutto quello che poteva dalla fabbrica di legname di Balta e portava a casa anche i resti del cibo servito nella mensa, con i quali allevava ogni anno un paio di maiali.

Secondo Geta, mia madre era una scema smorfiosa che non rubava nulla al lavoro né accettava quelle “piccole attenzioni” che tutte le altre infermiere dell’ospedale pretendevano con insolenza dai pazienti.

Il trasloco a Craiova, all’età di sei anni, fu traumatico, anche se non riuscì in nessun modo a intaccare il mio livello di felicità. Mi ci sarebbe voluto ancora qualche anno per smettere di considerarmi il ragazzo più felice della Terra.

(Traduzione di Mihaela Topala)

Questo articolo è uscito sul settimanale romeno Dilema Veche.

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