12 agosto 2017 10:10

L’ultima volta che papà era uscito dall’ospedale avevamopensato che lo stavamo portando a casa a morire. Era molto debole e confuso. Riusciva a malapena a sedersi sul bordo del letto per mangiare, con due di noi seduti ai lati per sorreggerlo. Gli davamo brodo di pollo e purè di patate, pastina con un po’ di burro, yogurt e miele. Non riusciva a tenere in mano il cucchiaio. Il terzo giorno, gli ho chiesto se voleva un aperitivo. Ha alzato gli occhi con un sorriso e ha detto chiaramente e con enfasi: “Un Campari!”.

Miracolosamente, da quella crisi si sarebbe ripreso. Essendo passato alle cure palliative, prendeva meno farmaci ed era più vivace e lucido di quanto non fosse da settimane. Due mesi dopo, per festeggiare i suoi 82 anni, gli è venuto in mente di invitare alcuni amici a una visita privata del suo museo preferito, la Wallace collection.

Dopo la visita abbiamo organizzato un pranzo a casa. La mamma ha fatto un’insalata di aragosta, io ho preparato un dolce all’arancia e Campari a tre strati. A un certo punto della preparazione, mentre strappava le chele una a una, la mamma era immersa fino ai gomiti nel liquido viscido dell’aragosta, ed era esausta.
“Perché lo stiamo facendo”, mi ha chiesto quasi retoricamente. “Sarebbe stato più facile andare al ristorante!”.

Un modo di mostrare amore
Ho smesso per un attimo di girare la crema all’arancia per tirare fuori dal forno il terzo strato di pan di Spagna. “È quello che facciamo io e te”, le ho risposto, “diamo da mangiare ai nostri cari meglio che possiamo, con cura e attenzione. È il nostro modo di dimostrare amore”.

Il pranzo è stato delizioso. Papà ha bevuto due bicchieri di champagne e mangiato una grossa fetta di torta. Aveva sempre amato i dolci. Era diabetico e non avrebbe dovuto mangiarli, ma poiché prendeva l’insulina glieli avevamo concessi. Io gli preparavo la torta al limone, il creme caramel all’arancio e la torta al cioccolato con le noci e il caffè.

C’è una leggenda apocrifa che narra di un duca del ventesimo secolo con le mani bucate al quale avevano chiesto di ridurre le spese. Con un po’ di trepidazione, i suoi contabili gli avevano suggerito di fare economia. Vostra Grazia ha veramente bisogno di tenere il personale al completo sia nella casa di Londra che in quella di campagna? Vostra Grazia non potrebbe, per esempio, accontentarsi di un pasticcere invece che due? Il duca era costernato: “Un pover’uomo non può avere neanche un biscotto?”. Era uno degli aneddoti preferiti di mio padre.

Un pasto al Pyramide di Vienne fece di mio padre un buongustaio per tutta la sua vita e per fortuna anche per quella di noi figli

Mio padre, David Henry Michael John Steavenson, era nato nel 1935. Era cresciuto nel Perthshire all’epoca dei razionamenti. Con mia grande frustrazione, non riusciva a ricordare nulla di quello che mangiava da bambino, tranne la sua prima banana a 11 anni. Questo fino al 1948. Quando suo padre lo portò in Francia e cenarono al Pyramide di Vienne ai tempi di Fernand Point, considerato il padre della cucina francese. Quel pasto colpì tanto mio padre tredicenne da farne un buongustaio per tutta la sua vita e, fortunatamente, anche per tutta quella dei suoi figli.

Ristoranti e campi di battaglia
I ricordi di famiglia degli Steavenson sono tutti legati al cibo. Mi torna in mente l’intera sala da pranzo di un ristorante a una stella Michelin sulla costa atlantica della Francia che applaudì mio fratello Michael quando aveva sette anni perché era riuscito a mangiare sei lumache, mezzo pollo arrosto e un enorme gelato.

Ricordo mio fratello più piccolo Xander che, a sei anni, si scolava il fondo dei bicchieri di Borgogna a una degustazione guadagnandosi il soprannome di Alexander the Grape. Ricordo quella volta che a 12 anni mangiai per la prima volta un piatto così straordinario (teneri straccetti di vitello alla salsa di funghi a Le Pré Catelan di Parigi) che non volevo inghiottire.

Mamma e papà progettavano le nostre vacanze in base ai campi di battaglia – l’altra passione di mio padre – e ai ristoranti. Centinaia, migliaia di ricordi meravigliosi: i Calvados sulla spiaggia di Omaha, le uova strapazzate di papà la mattina di Natale, i quintali di ostriche succhiati insieme, i dubbi su cosa ordinare in un bistrot parigino: cassoulet o rognons?

La torta a forma di carro armato per i suoi 75 anni e il busto di cioccolato di Napoleone, il suo eroe, per gli 80. Uno dei classici della nostra famiglia era che ogni volta che la mamma chiedeva a papà che cosa voleva per cena, lui rispondeva per scherzo, ma fino a un certo punto, “soufflé di rombo”.

Dopo due anni di ricoveri, il declino fisico di mio padre aveva modificato il suo mondo rendendolo più piccolo e intimo. Non poteva più leggere – era un lettore vorace che aveva sempre diversi libri sul comodino – e senza l’apparecchio acustico non sentiva più quasi nulla. Ma manteneva la sua curiosità intellettuale. “Sto cercando di capire i mobili di Boulle”, mi ha detto dopo essere rimasto affascinato dalle dorature rococò e dagli intagli dei mobili francesi del settecento della Wallace collection. E non aveva perso il piacere del cibo. “Posso avere una bomba?”. “Mi piace il fegato con il bacon”. “Che c’è per cena?”. Mi meravigliava che avesse conservato il senso del gusto e la sensibilità artistica nonostante la vista, l’udito, la consapevolezza dello spazio e perfino la sua memoria si stessero indebolendo.

Perdeva forza ogni giorno. La sera gli massaggiavo le spalle e gli preparavo un Campari soda. La mamma gli cucinava una buona cena e si preoccupava per la sua glicemia e la pressione del sangue. Io gli compravo il maiale in agrodolce del Royal China, uno dei suoi piatti preferiti, e lo mangiava tutto con piacere. Quando l’Arsenal ha vinto il campionato ha esultato. Mio fratello Xander l’ha portato a votare. E nel pomeriggio gli leggeva qualche pagina del mio romanzo.

“Com’è, papà? Che ne pensi?”, gli ho chiesto.
“È difficile dirlo fino alla fine”, mi ha risposto.
“Non posso aspettare la fine! Dimmelo adesso!”.
“È fantastico!”, ha detto.
“Lo dici solo perché sei mio padre e il tuo compito è incoraggiarmi?”.
“Solo in parte”, ha replicato con un sorrisetto.

È pacificamente morto nel sonno a casa. La mamma dice che per cena aveva mangiato un lecca lecca al cioccolato.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul mensile Prospect.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it