Questa inchiesta è stata realizzata nell’ambito del progetto The invisible border, sostenuto dal fondo Investigative journalism 4 the european union (IJ4EU). Con la collaborazione di Ludovica Jona per ricerca e dati.
A Banjul, capitale del Gambia, il più piccolo stato dell’Africa continentale, Baboucarr Ceesay controlla la disposizione delle sedie, ordinate in cerchio tra scrivanie e computer spenti, prima di far accomodare gli ospiti. Nella stanza entrano tre uomini dall’aria stanca, spaesata, con una storia comune da raccontare.
Nel quartiere Tabokoto, al terzo piano di un anonimo palazzo, si trova la sede di un nuovo giornale, aperto dopo la fuga dello spietato dittatore Yahya Jammeh, il 22 gennaio 2017, rimasto al potere per 22 anni. Ceesay, giornalista gambiano fondatore di The Monitor – il cui motto è In pursuit of truth for justice – prende posto e accende il registratore.
Il primo a parlare, come vuole la tradizione, è il più anziano del gruppo. “Siamo migranti tornati in Gambia dopo anni all’avventura. Siamo venuti qui oggi per ammettere il nostro fallimento e per chiedere aiuto”. Le parole di Aly, meccanico, 45 anni, disoccupato con moglie e quattro figli a carico, rimbombano nella stanza. “Nulla è peggio che tornare a casa con le tasche vuote dopo anni di assenza”, aggiunge.
Siamo sfuggiti dalle carceri politiche del Gambia per finire in quelle libiche
Gli fa eco Bakary, manovale, 35 anni: “Quattro volte ho cercato di raggiungere l’Italia, quattro volte sono stato ripreso dai libici in mare. Dopo ogni arresto, dal carcere ci facevano chiamare i parenti per pagare il riscatto. La mia famiglia ha venduto tutto quello che avevamo, la casa e il terreno”.
“Le nostre storie sono tutte uguali”. Finding ha vent’anni, è il più giovane dei tre ed è l’ultimo a parlare. Ha il volto segnato dalle violenze subite lungo il viaggio e nelle prigioni libiche. Dopo la morte del fratello maggiore, che si occupava dei genitori anziani, ha dovuto farsene carico. A casa servivano soldi per aiutarli. E così nel 2015 Finding ha preso la cosiddetta back way – così i gambiani chiamano il viaggio verso l’Europa – un’uscita d’emergenza che ha portato migliaia di persone ad abbandonare il Gambia durante gli ultimi, scellerati anni di Jammeh. “Siamo fuggiti dalle carceri politiche del Gambia per finire in quelle libiche. Non c’era modo di proseguire verso l’Italia. Quella strada ormai è chiusa. Per questo abbiamo deciso di tornare. Non avevamo altra scelta: rientrare a casa o morire in prigione”.
Le vicende personali dei cittadini africani che decidono di tornare a casa dopo il fallimento di un percorso migratorio, sono un groviglio di aspettative tradite e riscatto sociale, progetti per il futuro e frustrazione dei desideri di realizzazione. Come dice un proverbio bambara, una tra le lingue più diffuse nell’Africa occidentale: “Per partire ci vuole coraggio, per tornare ci vuole speranza”.
Spinta da venti di chiusura ed esternalizzazione delle frontiere, l’Unione europea si sta impegnando a riportare nei loro paesi i cosiddetti migranti economici irregolari, arrivati a destinazione o rimasti bloccati lungo il viaggio. Per farlo, usa due strumenti: le espulsioni e i ritorni volontari assistiti (Avr). Le prime sono sempre meno praticabili, mentre i secondi sono sempre più usati. Anche l’Italia – da Marco Minniti, che li ha fortemente voluti e inaugurati, a Matteo Salvini, che nella scorsa campagna elettorale ha promesso mezzo milione di rimpatri forzati – ha deciso d’investire su questa via come possibile valvola di sfogo della pressione migratoria.
Nella marea dei progetti Avr nati negli ultimi anni e gestiti da ong locali e straniere, agenzie di cooperazione dei paesi dell’Unione e organizzazioni internazionali, spicca per dimensioni l’iniziativa congiunta Unione europea-Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) volta alla protezione e al reinserimento dei migranti. Il più ambizioso progetto finanziato dal fondo fiduciario d’emergenza dell’Unione europea per l’Africa – l’Eutf, istituito al vertice di Malta nel novembre 2015 – è orientato verso il ritorno volontario assistito e il reinserimento economico e sociale delle persone che hanno scelto di ritornare nei loro paesi.
Il programma è triennale, può contare su 346,9 milioni di euro e riguarda tre regioni del continente: Nordafrica, Corno d’Africa e Sahel-lago Ciad. Quest’ultima zona, che raggruppa tredici stati dell’Africa occidentale, beneficia della fetta di fondi più consistente: 145 milioni di euro, a cui presto l’Eutf ne aggiungerà altri 125. Un tesoretto che dal gennaio del 2017 al settembre del 2018 ha permesso all’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) di aiutare 31.446 migranti a ritornare in questa regione. Più di 17mila si trovavano in Libia.
Il criterio di volontarietà del ritorno, che sulla carta dipende da una scelta informata e libera, assume sfumature particolari nel caso delle persone detenute in Libia. Per loro – che rappresentano la metà dei ritorni assistiti nella regione del Sahel e nell’area del lago Ciad – l’Oim parla di “rientro volontario umanitario”, spostando l’accento sul carattere umanitario.
Tuttavia, come raccontano i tre gambiani, “Siamo tornati a Banjul con un aereo dell’Oim lo scorso 15 febbraio (un charter con a bordo oltre 150 migranti gambiani, ndr). Da allora stiamo ancora aspettando l’aiuto che ci è stato promesso”.
Aly, Bakary e Finding sono figli reietti della back way. Nei loro racconti come nei loro sguardi, al fallimento del progetto migratorio e ai traumi legati al viaggio si somma il disonore di tornare al punto di partenza a mani vuote, sommersi dai debiti. Lo stigma sociale grava su padri e madri di famiglia e su primogeniti che non ce l’hanno fatta. Ragazze e ragazzi, rientrati in Gambia, si trovano poi a combattere contro una disoccupazione giovanile salita oltre il 40 per cento. Il governo democraticamente eletto di Adama Barrow, a un anno e nove mesi dall’insediamento, continua a soffrire gli effetti del protezionismo commerciale e della chiusura politica voluti dalla dittatura, che ha lasciato in ginocchio l’economia.
Nell’ultimo anno, il paese – che ha due milioni di abitanti – si è trovato a fronteggiare il rientro di migliaia di cittadini, spinti dalle speranze suscitate dal “nuovo Gambia”. Tuttavia, la gioia di esseri salvi e di poter riabbracciare i propri cari è stata presto sostituita dalla preoccupazione di non riuscire a vedere prospettive all’orizzonte. I 65 euro versati una tantum dall’Oim-Gambia a ogni migrante rientrato – unica forma di aiuto in contanti previsto dal programma di assistenza alla reintegrazione – finiscono presto. “Sappiamo che a certi gambiani l’Oim ha finanziato delle microimprese fino a 60mila dalasi (circa mille euro, la cifra che in media è assegnata per progetti di questo tipo, ndr)”, dice Finding. “A noi e a molti altri, invece, non hanno ancora dato nulla”.
E Bakary aggiunge: “Non sappiamo come mai, hanno preso i nostri numeri di telefono ma non ci contattano. Quando andiamo all’ufficio dell’Oim o chiamiamo per chiedere spiegazioni ci ripetono di aspettare, che non è ancora arrivato il nostro momento. Più passa il tempo e più diventa difficile”.
Prima di congedarli, Ceesay chiede al più anziano del gruppo una sintesi. “Ringraziamo l’Europa e l’Oim per averci liberato dalla Libia e riportato a casa, ma chiediamo che il sostegno che ci è stato promesso sia rispettato”. Alcuni dei loro “compagni di ritorno”, persi nel limbo dell’attesa, hanno già ripreso la back way. “An empty bag cannot stand”, un sacco vuoto non sta in piedi, dice caustico Aly, prima di tornare in strada a cercarsi un futuro insieme agli altri.
I ritardi
Il 14 novembre 2017 la frustrazione esasperata dalle aspettative tradite ha spinto un gruppo di gambiani ad attaccare e a lanciare pietre contro la vecchia sede dell’Oim a Banjul, una villetta di un piano nel quartiere Senegambia. Dopo l’incidente – che ha richiesto l’intervento della polizia – l’organizzazione si è trasferita in una stradina laterale a poche centinaia di metri, in uno stabile più grande, con mura più alte e filo spinato.
“La manifestazione è stata alquanto preoccupante, ma è qualcosa che possiamo capire: i migranti di ritorno si aspettano di essere assistiti al meglio e alcuni di loro hanno la sensazione di non essere seguiti come speravano”. Euan McDougall, direttore ad interim del programma Eutf all’Oim-Gambia, ci accoglie nella nuova sala riunioni. Ci riceve gentilmente, rispondendo a tutte le domande e le preoccupazioni dei cittadini gambiani che gli sottoponiamo. “La missione in Gambia è abbastanza nuova e sta crescendo velocemente. Siamo stati travolti da un gran numero di ritorni concentrati in un breve lasso di tempo”.
Una storia dal Mali
Il target iniziale del programma – finanziato con 3,9 milioni di euro – era di 1.500 ritorni in tre anni, 500 all’anno. Ma dal 2017 a oggi in Gambia sono tornate in media trecento persone al mese. Secondo i dati dell’Oim, degli oltre 3.600 gambiani rientrati, un migliaio di loro ha ricevuto l’assistenza al reinserimento sociale ed economico previsto dal progetto dell’Unione insieme all’Oim. “Attraverso il numero di telefono che ci hanno dato all’arrivo”, continua McDougall, “stiamo cercando di raggiungere ogni singola persona delle oltre 2.600 che non abbiamo ancora aiutato. Ma finora siamo riusciti a contattare solo circa settecento di quei numeri, gli altri non sono più validi o appartengono a qualcun altro”.
Alla difficoltà di contattare i migranti si aggiunge lo scarto di mesi che c’è tra il ritorno e l’inizio degli aiuti. “Stiamo cercando di ridurlo il più velocemente possibile”, dice McDougall. “Il nostro obiettivo è trattare 350 nuovi casi al mese. Ma quando hai più di 2.500 arretrati ci vuole tempo per venirne a capo”. Anche per questo l’Oim sta cominciando ad attivare nell’intera regione progetti di aiuto collettivo. “Sappiamo di avere molto lavoro, ma abbiamo ancora due anni davanti”, conclude McDougall.
A Dakar
“Il primo anno è stato un po’ come costruire un aereo mentre ci si vola dentro” dice Marise Habib, direttrice del programma Eutf all’Oim-Senegal. Altra sala riunioni, altra sede dell’Organizzazione internazionale per i migranti, questa volta a Dakar. “Però siamo riusciti a creare procedure standard di accoglienza e reinserimento dei migranti di ritorno in tutti i paesi della regione”, dice Habib. Un punto fondamentale per lei è il coinvolgimento nel progetto degli stati africani. Alcuni governi della zona collaborano ancora poco, ma altri stanno gradualmente cambiando approccio. Fino a poco tempo fa i ritorni erano considerati un “problema europeo” o una minaccia alla stabilità nazionale. Oggi, invece, sempre più paesi africani, convinti dalla mole di fondi stanziati, cominciano a considerare i rimpatri come una nuova possibilità di sviluppo.
In Senegal, come nel resto della zona, il flusso di migranti tornati è stato particolarmente alto nell’ultimo anno. “Fortunatamente qui non abbiamo sforato le cifre in maniera eccessiva come è successo in Gambia, in Mali o in Nigeria”, commenta Habib. Tuttavia, su 3.258 persone che hanno ricevuto il primo aiuto dopo il ritorno, solo 120 hanno avuto accesso ai programmi di reinserimento economico e sociale dell’Oim. “Finora abbiamo fatto un grande sforzo per l’accoglienza, mentre ora cerchiamo di concentrarci sul reinserimento”, chiarisce la direttrice del progetto in Senegal.
Ascoltando i migranti tornati in Africa occidentale sembra chiaro che, per diventare più sostenibile ed efficace, il loro rientro dovrebbe essere supportato dall’effettivo impegno dei governi subsahariani a migliorare le condizioni di vita di tutti i cittadini. Questo obiettivo – centrale per evitare che le persone ripartano nel giro di pochi mesi – non può essere raggiunto solo attraverso l’azione dell’Oim. Né tantomeno attraverso l’attuale chiusura dell’Unione europea, che finanzia progetti di rientro imponendo controversi accordi di riammissione e controllo delle frontiere ai paesi di origine e a quelli di transito.
I senegalesi tornati dall’Italia
Come gli altri migranti della regione, i senegalesi tornano soprattutto da Libia, Niger e Marocco, ma anche da altri paesi maghrebini e subsahariani. Sono sensibilmente meno, invece, quelli che decidono di rientrare dall’Europa. Secondo i dati dell’Oim, l’Italia è il primo paese dell’Unione per numero di senegalesi volontariamente ritornati in patria: 39 dal 2017, di cui 22 beneficiari di progetti di microimpresa previsti dal programma di reinserimento.
Come spiega Marise Habib: “In questo caso è il nostro ufficio a Roma che valuta i migranti che si trovano in situazioni di vulnerabilità da prendere in carico. Il criterio di vulnerabilità è piuttosto ampio. Vi rientrano anche i cosiddetti stranded migrants, cioè tutti quelli che si sentono in qualche modo bloccati, compreso chi desidera tornare ma non può permettersi il biglietto aereo”.
È il caso di Ibrahima Seck – “Abramo, per gli amici italiani” – un senegalese di 46 anni emigrato in Italia nel 1997 e ritornato a Dakar il 23 gennaio 2018. “Non dimenticherò mai questa data”. Ci incontriamo alla stazione degli autobus di Pikine, nella periferia est della città. Da qui prendiamo uno dei coloratissimi furgoni del trasporto collettivo, per raggiungere Thiaroye. “La vera banlieue di Dakar”, scherza Seck, mentre sfila nelle stradine in cui è nato e cresciuto. Dopo alcuni minuti di zig-zag tra costruzioni di mattoni e lamiera, campetti di calcio, cantieri a cielo aperto e moschee, ecco comparire in lontananza l’orgoglio di Seck: “La vedi quella casa nuova nuova? È la mia!”. I vicini lo trattengono in una fitta rete di saluti e benedizioni. “Lo rispettiamo. È un uomo onesto che si è battuto, è partito per la propria famiglia ed è tornato dall’Europa da vincitore”, commenta un’anziana. La prova è lì, sotto gli occhi di tutti: quell’abitazione a un piano che spicca tra le altre per l’intonaco fresco, gli scintillanti tubi di scolo delle grondaie e l’antenna parabolica sul tetto.
Dopo neanche tre mesi dal suo ritorno in Senegal, l’Oim ha finanziato la ristrutturazione della casa costruita dal padre con un milione e trecentomila franchi cfa (circa duemila euro). “Ho fatto lavorare mezzo quartiere”, commenta Seck, fiero di sé. Un folto gruppo di donne e bambini affolla il cortile, tra pentoloni fumanti, sedie e stuoie di plastica intrecciata. “Mio padre ha avuto nove figli dalla prima moglie e sette dalla seconda. Siamo una grande famiglia”. Nelle stanze dove vive con la moglie Khadidja ci sono piastrelle per terra, tende alle finestre e odore di pittura fresca. Seduti sui divani di fronte all’immagine del padre alla Mecca, Seck mostra emozionato “lo zaino dell’Italia”. Dentro, alla rinfusa, pezzi del passato: album colmi di foto di amici, una manciata di euro in moneta, biglietti della metropolitana, il permesso di soggiorno scaduto e i sacri fogli dell’Oim.
I ricordi lo rendono malinconico. “L’Italia è cambiata dagli anni novanta. C’era tanto lavoro, con la lira si guadagnava bene. A quei tempi riuscivo a mandare anche sei-settecentomila lire al mese alla famiglia”. In vent’anni ha lavorato come venditore ambulante in spiaggia, muratore, piastrellista, imbianchino, raccoglitore a cottimo di pomodori, arance, uva, olive e tanto altro. “Non mi spaventa il lavoro duro. L’unica cosa che non ho mai fatto è spacciare”.
Dopo un primo periodo senza documenti, nel 2003 gli era stato proposto un contratto a tempo indeterminato in una ditta di costruzioni a Pescara, con cui aveva ottenuto il tanto agognato permesso di soggiorno. “Gino, il padrone, era davvero una brava persona. Non era uno sfruttatore, mi pagava 1.300 euro al mese più gli straordinari”. Abramo rientrava una volta all’anno in Senegal, per le ferie. “Portavo intere valigie di scarpe e vestiti da regalare a parenti e amici. Quando vivi in Europa non puoi dimenticarti di nessuno”.
Da quando sono tornato sto cercando lavoro, ma ho trovato solo sfruttamento
Poi, nel 2013, l’azienda è fallita. Rimasto all’improvviso senza contratto, Seck non poteva rinnovare il permesso di soggiorno. Era ricominciata così, per lui, la clandestinità. “Pensavo sempre al ritorno. Mia moglie mi chiamava ogni sera implorandomi di tornare a casa. ‘Vedrai che qui in Senegal troverai lavoro’, mi ripeteva piangendo. Poi un giorno un amico della Caritas mi ha parlato del programma dell’Oim”. Dopo meno di tre mesi dalla domanda, Seck era all’aeroporto di Fiumicino con in mano un biglietto per il Senegal. “Pensavo mi pagassero solo l’aereo, sarei già stato felice così. Invece mi hanno dato anche 400 euro, che sommati ai 200 che avevo in tasca facevano un bel gruzzolo, e mi hanno chiesto come volessi essere aiutato, una volta rientrato a Dakar”.
La sua, come quella di altri che sono tornati grazie al programma dell’Oim e dell’Unione europea, sembra una storia a lieto fine. “Ora finalmente posso camminare a testa alta nel mio quartiere, perché tutti sanno che sono stato molto tempo in Italia e che, anche se non sono tornato ricco, ho aiutato la famiglia a migliorare la nostra vita”. A minacciare in parte il suo riscatto, però, c’è la preoccupazione su come guadagnarsi da vivere d’ora in poi. “Da quando sono tornato sto cercando lavoro, ma ho trovato solo sfruttamento. Qui per avere un contratto o un impiego serio devi essere raccomandato”. Nel quartiere, molti sono convinti che Seck prima o poi tornerà in Italia. Lui non è d’accordo. “Il mio tempo per l’avventura è finito. Sono stanco, ormai. Adesso vorrei solo trovare un lavoro per poter restare nel mio paese”.
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Questa inchiesta è stata realizzata nell’ambito del progetto The invisible border, sostenuto dal fondo Investigative journalism 4 the european union (IJ4EU). Con la collaborazione di Ludovica Jona per ricerca e dati.
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