“When everything is fluid, and when nothing can be known with any certainty / Hold your own (Quando tutto è fluido e niente può essere saputo con certezza, resta te stessa)”, le parole in inglese della poeta, performer e rapper londinese Kate Tempest vibrano nell’aria umida di una notte di mezza estate in un teatro all’aperto sotto a pioppi e larici, mentre un pubblico emozionato esplode in un lungo applauso. Il teatro è ancora possibile, gli applausi sembrano interminabili.
La scena finale dello spettacolo Tiresias di Giorgina Pi e dei Bluemotion lascia che sia la voce registrata, rotta e fragile, della giovane rapper britannica a chiudere lo spettacolo ispirato al poema Hold your own / Resta te stessa in uno degli spazi all’aperto allestiti per il festival dei teatri di Santarcangelo di Romagna, che si è svolto quest’anno, nonostante la pandemia di covid-19.
Per molti la rappresentazione è la prima a cui assistono dal vivo dopo mesi d’isolamento e di distanziamento fisico, e questa tensione si avverte nella relazione che si crea tra spettatori e attori durante la messa in scena. Un centinaio di persone sono sedute sui cuscini appoggiati sul prato, a un metro di distanza l’uno dall’altro. Il palco è una pedana di legno, tra gli alberi. Anche per la compagnia è la prima occasione di tornare in contatto con il pubblico, un debutto pieno di incognite, ma non per questo meno desiderato.
L’idea dello spettacolo è nata prima che scoppiasse la crisi sanitaria e la preparazione si è svolta proprio durante il confinamento. “Abbiamo studiato la figura di Tiresia, quella del mito classico e quella della trasposizione che ne fa Kate Tempest nel suo poema. Abbiamo intervistato su Zoom alcuni studiosi come Maria Vittoria Tessitore e musicisti, ma anche persone normali, in particolare gli adolescenti che frequentavano le terrazze dei condomini di Roma per prendere un’ora d’aria durante l’isolamento”, spiega la regista, che racconta di aver progettato lo spettacolo proprio perché fosse realizzato all’aperto, in un momento in cui tutti erano costretti a stare chiusi nelle proprie case.
Il Tiresia interpretato da Gabriele Portoghese è la figura centrale dello spettacolo e incarna la relazione conflittuale, spesso di negazione, che gli esseri umani hanno con la verità, con la sua ambivalenza e con le premonizioni di futuri nefasti. Tiresia parla una lingua più che comprensibile a chi è appena uscito da una crisi sanitaria, largamente prevista, eppure da molti ignorata e ancora negata.
“Tiresia vienici a parlare”, chiede Kate Tempest. Tiresia è il veggente cieco e anziano della tragedia di Sofocle, ma lo spettacolo si concentra sul Tiresia giovane, quello che viene trasformato in donna dopo aver incontrato una serpe e poi di nuovo in uomo. È un adolescente che scopre il suo corpo, è in contatto con gli dei e dagli dei è punito per la sua sincerità, è una moltitudine incarnata, è molti se stesso. “Prevedere il futuro, arrivare prima degli altri diventa un pericolo per chi ne è capace. Essere profetici è molto pericoloso”, spiega Giorgina Pi. “Questo mi ha sempre colpito della figura di Tiresia”.
Per la regista l’attualità del personaggio della tragedia greca è nel suo rapporto con la memoria, ma anche nella fragilità della sua capacità d’intuire il futuro: “Gli indovini sapevano prevedere gli avvenimenti, perché in realtà avevano memoria del passato. Tiresia non è il simbolo della predestinazione, anzi. È la possibilità di scelta, la responsabilità personale. È l’opportunità a un certo punto di prendere coscienza e di rompere l’ordine delle cose, inaspettatamente, per cambiarle. È il richiamo alla responsabilità di collaborare alla costruzione di un nuovo ordine”.
Per gli artisti, ma anche per il pubblico, la relazione che si ricostruisce durante la messa in scena è profondamente segnata dalla consapevolezza dell’epidemia: tutti indossano le mascherine e cercano di mantenere il distanziamento fisico, ma è tangibile anche il desiderio di riconquistare uno spazio condiviso, una forma di vicinanza. Il teatro non si può fare senza i corpi e da sempre ha anche una funzione di cura. “È esattamente il contrario della rimozione e potrebbe essere un mezzo molto efficace per elaborare il trauma collettivo della malattia”, conclude la regista.
Un pianeta infetto
Immaginare il futuro attraverso il teatro e l’intreccio di diversi linguaggi, dalla letteratura al cinema, uscire dall’ossessione per il presente, “dall’ambra del momento” come avrebbe detto Kurt Vonnegut, è già catartico. Lo pensano i curatori della manifestazione, Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande e forse per questo ad aprile, nel pieno del lockdown, la direzione artistica di uno dei festival di teatro sperimentale più importante d’Italia ha pensato di portare avanti il suo programma, nonostante tutto.
“Non abbiamo mai pensato di annullare il festival né di tenerlo completamente online: era un anno che lavoravamo al programma del cinquantennale. Lo abbiamo trasformato, lo abbiamo ridotto, abbiamo modificato alcuni spettacoli. Abbiamo dovuto rinunciare agli ospiti stranieri per esempio; era previsto un focus sul Brasile a cui abbiamo dovuto rinunciare. Abbiamo ridotto i giorni del festival dal vivo a luglio e ne abbiamo allungato la durata fino al 2021, estendendo di un anno la nostra curatela, ma per noi era importante continuare a pensare al festival come possibile”, afferma Nicolò.
Molti spettacoli del programma erano pensati per gli spazi pubblici e questo ha facilitato il passaggio: “Nel festival di Santarcangelo il teatro si fa in piazza e per l’edizione dei cinquant’anni avevamo pensato di riportare alla luce questa sua caratteristica”. Molti spettacoli infine ragionavano sul corpo, sugli stereotipi da decostruire, sull’attraversamento delle frontiere: come Black dick di Alessandro Berti o L’abisso di Davide Enia o ancora La mappa del cuore di Lea Melandri degli Ateliersi e l’unico spettacolo internazionale, Sorry, but I feel slightly disidentified di Benjamin Kahn.
“Ancor prima della pandemia avevamo definito questa edizione ‘far out’ con un’espressione dello slang americano, anche un po’ desueto, che significa eccentrico, strano, bizzarro, fuori misura”, continua Nicolò, descrivendo gli appunti che aveva preso prima che l’arrivo dell’epidemia mettesse in discussione tutto.
In maniera profetica, stimolati dalla data 2020 e dalle numerose predizioni connesse a questo anno nella letteratura e nel cinema, la coppia aveva pensato di farsi ispirare dalla fantascienza e dal cyberpunk. “Nonostante la percezione della fine sempre più imminente, ci sembrava importante rilanciare l’attitudine a costruire altri mondi, attrezzarsi per sopravvivere in un ‘pianeta infetto’ come scrive la filosofa americana Donna Haraway nel suo libro Chthulucene che si apre proprio con la citazione ‘Pensare, pensare, dobbiamo’”. Poi l’arrivo della pandemia ha reso sarcastico e paradossale il titolo stesso del festival di quest’anno, Futuro fantastico, preso da un racconto di Isaac Asimov del 1989.
La nostra immaginazione è stata infettata dal virus
Un’idea che è condivisa anche dall’attrice della compagnia Motus di Casagrande e Nicolò, Silvia Calderoni, che al festival ha portato in scena uno degli spettacoli più riusciti del gruppo, Mdlsx, a cinque anni dal debutto dell’opera proprio in un piccolo teatro di Santarcangelo di Romagna nel 2015. Nella pièce, che si ispira al romanzo Middlesex del premio Pulitzer Jeffrey Eugenides, l’attrice è sola sul palco per costruire quello che gli stessi Motus hanno definito un “ordigno sonoro”, un lungo monologo che racconta la storia di Calliope, un ermafrodito. Per la prima volta lo spettacolo si è tenuto all’aperto, per la prima volta l’attrice ha avvertito che l’epidemia era presente nel suo lavoro: “La mia immaginazione è influenzata dall’esperienza traumatica vissuta. Dobbiamo accettarlo: la nostra immaginazione è stata infettata dal virus, di questo non parliamo mai, è un tabù”, spiega Calderoni.
Ma per l’attrice e performer romagnola è giusto far vivere sulla scena questa debolezza: “Sul palco non posso ignorare che ci sono stati 600mila morti nel mondo per l’epidemia. Questo fatto dà un significato diverso a tutto quello che faccio in scena. Sono meno brillante, ho bisogno di prendere più pause, di rallentare, di togliere testo dalla sceneggiatura. È come se non riuscissi a fare uscire il virus dal mio immaginario. Dobbiamo fare i conti con questa cosa, prenderci il tempo di cura necessario. Se non lo facciamo, ci porteremo dietro a lungo questi inciampi, che ci stiamo vivendo in maniera solitaria”.
I lavoratori dello spettacolo
Calderoni racconta di avere molti dubbi anche sull’opportunità di salire sul palco, in un momento come quello che stiamo vivendo: “Spesso mentre recito penso che potrei smettere di farlo e scendere dal palco, lo spettatore non dovrebbe mai dare per scontato che l’attore continui a recitare in qualsiasi condizione”. Ma ci sono anche aspetti positivi dell’essere stati costretti a ripensare gli spettacoli in una formula fruibile da spettatori distanziati: per esempio Calderoni non aveva mai messo in scena Mdlsx all’aperto e si è emozionata a vedere per la prima volta il cielo sopra al graticcio del palcoscenico: “Ho sempre pensato di aver visto più graticci che cieli e questa volta durante le prove mi sono emozionata a vedere che finalmente sulla mia testa c’erano le nuvole”.
Per l’attrice chi ha riflettuto molto sul corpo dopo la pandemia è il danzatore e coreografo Virgilio Sieni che ogni sera ha portato nella piazza della città romagnola quattro Lezioni sul corpo politico e la cura della distanza, mettendo a tema i gesti a partire dallo studio di alcuni quadri fondamentali del rinascimento italiano come il Battesimo di Cristo di Piero della Francesca. Ma c’è una preoccupazione che attraversa tutte le produzioni teatrali, l’incertezza sul futuro e il timore di nuovi tagli alla cultura e al teatro, come fu per la crisi economica del 2008, prospettiva che potrebbe ulteriormente indebolire un settore già fragile.
Uno dei primi giorni del festival, i lavoratori dello spettacolo si sono riuniti in uno dei cortili di Santarcangelo per discutere del futuro della loro professione di fronte alla crisi sanitaria ed economica. “Abbiamo promosso una sorta di autoinchiesta insieme agli Art workers”, spiega Ilenia Caleo, attrice, performer e ricercatrice allo Iuav di Venezia.
“Ci siamo chiesti come andare in scena in sicurezza sia per i lavoratori dello spettacolo sia per il pubblico, poi ci siamo interrogate sulle condizioni materiali ed economiche del nostro lavoro. Possiamo tornare in scena a qualsiasi condizione?”, chiede Caleo, che ha promosso la piattaforma Campo innocente per discutere collettivamente di queste questioni. Per la ricercatrice nei prossimi mesi c’è da aspettarsi sia una diminuzione del pubblico, sia tagli alle produzioni e poi delle scelte artistiche che preferiranno gli spettacoli e le produzioni con monologhi o pochi attori in scena per ragioni di realizzabilità. Un reddito di base universale è una delle proposte emerse dall’assemblea a cui hanno partecipato un centinaio di persone.
La crisi dei festival
“Abbiamo già visto una situazione simile con la crisi del 2008. Quando c’è una crisi economica si svaluta anche il ruolo sociale dell’arte e della cultura. Ci muoviamo già in un settore fortemente compromesso e danneggiato, in cui non è prevista nessuna forma di garanzia e di tutela”, spiega Caleo, che è firmataria insieme ad altri artisti e lavoratori dello spettacolo di una lettera indirizzata al governo in cui si chiede di introdurre delle misure per tutelare interi settori. Secondo i dati del Consiglio d’Europa, in Europa le imprese culturali sono 1,1 milioni, ma gli investimenti a favore di questo settore stanno diminuendo un po’ dappertutto. In Italia [a causa dell’epidemia gli investimenti](https://read.oecd-ilibrary.org/view/?ref=126_126496-evgsi2gmqj&title=Evaluating_the_initial_impact_of_COVID19_containment_measures_on_economic_activity#page=5, () sono calati del cinque per cento.
“Nel teatro la precarietà è strutturale, non c’è continuità di lavoro, ma non si sta lavorando affatto da parte del governo per garantire un reddito minimo. C’è un doppio problema quindi: mancanza di finanziamenti e mancanza di tutele individuali per i lavoratori”. Per Caleo tuttavia si dovrebbe trattare l’arte come “un bene primario”. Mentre sempre di più il teatro sopravvive grazie ad altre forme di produzione non dirette, come per esempio i festival.
In questo momento però anche i festival sono in crisi. “La pandemia ha bloccato tutti i progetti in corso. Nell’ambito culturale i festival sono in questo momento tra le realtà più fragili”, spiegano Chiara Velardito e Riccardo Uras, consulenti e organizzatori con la società This is water. “Al momento stiamo vedendo delle sperimentazioni come questa di Santarcangelo di Romagna. Ci sembra che si stia andando nella direzione di mettere in rete i festival, con un uso più massiccio dello streaming. Si va verso festival più piccoli, più ibridi e in generale più faticosi. In questo momento quasi tutti stanno pensando di rimodulare gli eventi culturali in autunno”, continua Uras.
Anche Piersandra Di Matteo, studiosa, drammaturga e curatrice del festival Atlas of Transitions di Bologna conferma che si sta cercando di spostare verso l’inverno tutto quello che non si è riusciti a realizzare nella primavera e nell’estate: in particolare ci si concentrerà sugli spazi urbani all’aperto e sulla voce, sulla presa di parola nello spazio pubblico e sulla vocalità. Per Di Matteo alla fine il teatro e gli spettacoli dal vivo sopravviveranno alla pandemia perché “sono luoghi speciali in cui ci si può riallenare alla collettività”. Ma molto dipenderà dalla capacità di mettere in rete le piccole realtà con le grandi realtà e con le istituzioni.
Nella maggior parte dei casi la possibilità di sperimentare dipende e dipenderà molto dal coraggio degli amministratori locali: “Riscontriamo una difficoltà dei comuni a volersi assumere responsabilità, a voler rischiare. I festival musicali e quelli con gli spettacoli dal vivo saranno i più penalizzati”. Per Uras e Velardito tutto dipenderà da quanto le istituzioni locali vorranno continuare a sperimentare, ma c’è da aspettarsi che “scompariranno molti festival”.
Per la giovane sindaca di Santarcangelo di Romagna, Alice Parma, 32 anni, al suo secondo mandato, non c’è dubbio che valga la pena continuare a rischiare. In Romagna il teatro ha conosciuto una stagione particolarmente florida dalla metà degli novanta, creando una specie di ecosistema che ha sostenuto e alimentato la produzione di molti gruppi locali, dai Motus al Teatro Valdoca, dal Teatro delle Albe al Teatrino clandestino di Bologna. Per il cinquantennale del festival dei teatri che corrisponde anche al centenario della nascita di un concittadino famoso, lo scrittore e sceneggiatore Tonino Guerra, il comune ha stanziato 700mila euro. “Continuiamo a mettere gli stessi soldi del bilancio per la cultura e per i servizi sociali. Siamo sicuri che proprio ora non sia il caso di disinvestire in questo settore. È il lascito di Tonino Guerra che scriveva ai sindaci dicendo ‘prima di governare una città la dovete sognare’”.
Nel suo Sette avvisi ai sindaci lo sceneggiatore di Blow-up e di Zabriskie point scriveva: “Caro sindaco, è ora che tu cominci ad ascoltare le voci che sembrano inutili, bisogna che nel tuo cervello occupato dalle lunghe tubature delle fogne e dai muri delle scuole, bisogna che nel tuo cervello pratico e attento soprattutto ai bisogni materiali, bisogna che entri il ronzio degli insetti”.
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