28 ottobre 2019 09:56

“Io me voglio augura’ che almeno me danno er lato der tramonto”, diceva Rossella Marino. Una frangetta sulla fronte, il viso rotondo, una camicia a quadri, teneva alte entrambe le braccia, sgranava gli occhi e guardava di là dalla finestra. “Qui er tramonto è qualcosa de spettacolare. Se proprio dobbiamo anna’ laggiù, che sia almeno nel lato cor tramonto”. Marino da più di vent’anni abita a Corviale, il grande edificio nella periferia sudovest di Roma: una stecca lunga 950 metri per nove piani di altezza, 1.200 appartamenti, 8.500 stanze in grado di ospitare seimila persone (ora sono meno di cinquemila) e un volume di 780mila metri cubi.

Dall’inizio degli anni ottanta rappresenta il bene e il male, le illusioni e la disperazione, il progetto e il caos dell’edilizia popolare italiana. A Roma lo chiamano “il serpentone”, ma qualcuno non è d’accordo: i serpenti hanno forma sinuosa, si dice, Corviale è invece rigido, come una mazza di ferro inflessibile. Quando fu costruito, tra i tanti aspetti simbolici che si voleva incorporasse c’era che fosse lungo un chilometro. Non ci si riuscì per evitare di spostare un elettrodotto.

A Corviale ora fervono i lavori. Rossella Marino è stata coinvolta. Lo scorso luglio ha lasciato i locali al quarto piano che occupò abusivamente nel 1995 e si è trasferita in un appartamento, sempre al quarto piano, all’estremità opposta dell’edificio. Voleva il tramonto e il tramonto gliel’hanno assicurato. Insieme al panorama su uno squarcio di campagna romana e al vento, che soffia forte da ponente, un po’ troppo, insiste Rossella. La donna vive con la figlia e come lei sono altre sei le famiglie che si sono già spostate da un capo all’altro di Corviale. L’edificio è lo stesso, il piano pure, ma per Rossella è come aver cambiato pianeta.

Il quarto piano, entro tre anni, forse di più, ospiterà 103 nuovi appartamenti che prenderanno il posto di più di 130 abitazioni realizzate e occupate abusivamente negli anni. Il progetto è stato redatto da Guendalina Salimei. Insieme all’intervento architettonico ne è stato avviato anche uno di ascolto e di mediazione che sembra ereditato dalle pratiche degli assistenti sociali che negli anni cinquanta aiutavano chi entrava in una casa popolare non avendo mai abitato in un condominio, non avendo mai visto una vasca da bagno e provenendo da una campagna meridionale o da una baracca. E invece quello di Corviale è un esperimento, una specie di prototipo. Si cercano le forme migliori per evitare conflitti in una periferia tra le più roventi, dove si fronteggiano la drammatica emergenza abitativa, il disagio e il senso acuto di essere esclusi da tutto. E si cercano soluzioni prima che a pensarci siano i blindati della polizia, come è avvenuto in altri quartieri di edilizia popolare romana, a Tor Sapienza o a Torre Maura, dove le proteste degli abitanti contro migranti o famiglie rom sono state fomentate da gruppi di estrema destra.

Di questo esperimento sono protagoniste due giovani ricercatrici, entrambe laureate in urbanistica e con un dottorato di ricerca in studi urbani, Sara Braschi e Sofia Sebastianelli. Il progetto, frutto di una convenzione tra il dipartimento di architettura dell’università di Roma Tre e l’ufficio delle politiche sociali della regione Lazio, è coordinato da Francesco Careri e Giovanni Caudo, docenti a Roma Tre (Caudo è stato anche assessore nella giunta guidata da Ignazio Marino e ora è presidente del terzo municipio). Braschi e Sebastianelli quasi tutti i giorni, verso le 9.30, tirano su la saracinesca di un locale al piano terra di Corviale, in un cortile desolato, popolato di murales, e lì restano la mattina e parte del pomeriggio. È qui, sul tavolone che arreda quello che hanno chiamato Laboratorio di città, che si riversano le tante, piccole e grandi questioni che scuotono tutto l’edificio, non solo il quarto piano.

Il loro compito è mediare. Ascoltare e mediare. Da una parte ecco gli abitanti dell’edificio, in particolare quelli del quarto piano coinvolti nel trasferimento, sia chi ha diritto a una nuova abitazione sia chi il diritto non ce l’ha e deve andar via. Dall’altra c’è l’Ater, l’agenzia regionale per l’edilizia pubblica, il proprietario di Corviale. E poi c’è l’impresa che esegue i lavori, il direttore, l’architetta progettista, e quindi la regione, che finanzia sia gli interventi d’architettura sia l’esperimento di “accompagnamento sociale”. Infine c’è il Campidoglio, responsabile delle graduatorie per assegnare le case popolari.

Ognuno di questi attori parla una lingua che gli altri giudicano incomprensibile. Braschi e Sebastianelli sono lì a tradurre. La fiducia reciproca è scarsa. Anni di incomunicabilità, conflitti latenti e palesi. Gli abitanti accusano l’Ater di fare una manutenzione scadente, di non riparare gli ascensori, di lasciare in malora i ponti, i viali, le scale, i ballatoi, gli androni. Di essere un padrone di casa arcigno e menefreghista. Di tenere il grande edificio abbandonato al suo destino di marginalità. L’Ater ribatte enumerando i morosi, gli abusivi, chi ruba la corrente elettrica. Denuncia l’assenza di legalità, dice di avere pochi strumenti per ripristinarla. Gli inquilini lamentano promesse mai mantenute. L’Ater insiste, prima pagate il dovuto. Le due ricercatrici ascoltano gli uni e gli altri e agli uni e agli altri chiedono lo sforzo di dialogare. “Questa occasione non può essere persa”, aggiungono.

Windows, giorno


Il loro lavoro è cominciato nell’estate 2018. È stato attivato prima che il cantiere aprisse, affrontando passaggi che avrebbero potuto accendere micce incendiarie o attirare quelli di CasaPound: hanno incontrato le associazioni, i comitati e altri gruppi che operano a Corviale, hanno raccontato il progetto alle famiglie, a tutte è stata mostrata una pianta della nuova casa, hanno raccolto suggerimenti e li hanno trasmessi all’impresa. Si è provato a convincere le persone che stavolta non erano chiacchiere, ci si è sforzati di chiarire le regole per cui a una parte degli occupanti abusivi spettava una casa, si è spiegato che nessuno sarebbe rimasto per strada, e che però sarebbe andato via chi risultava proprietario di un altro alloggio o percepiva un reddito superiore a quello che dà diritto a un alloggio popolare.

Dei 135 nuclei familiari che hanno occupato, in 73 hanno risposto a un bando emesso dal comune nel 2016 – 47 sono risultati idonei ad avere la casa popolare, 26 sono stati esclusi – e 62 non hanno partecipato. Braschi e Sebastianelli hanno discusso e concordato con l’Ater da quale parte del quarto piano cominciare il cantiere, come attivare un sistema di trasferimenti temporanei a Corviale stesso o in altre case dell’ente. Una volta cominciati i lavori, nel gennaio 2019, le due ricercatrici li hanno seguiti passo passo, hanno aiutato le famiglie a trasferire i mobili e ora sono lì ad appuntare su un quadernetto le segnalazioni, che girano al direttore dei lavori, di una porta che non apre bene, di un infisso incassato male, di un bidet troppo vicino al muro.

Un microcosmo
“La fiducia corre sul filo di un rasoio”, dice Braschi, “basta poco e un mugugno può fare il giro dei social network e diventare esplosivo”. Sotto la brace covano tante tensioni. Qui come altrove a Roma si convive senza scosse con tunisini e nordafricani, ma su una famiglia rom che si aggira nei dintorni, che piazza una roulotte o riesce a farsi assegnare un appartamento, può scaricarsi una rabbia feroce. Ogni giorno Braschi e Sebastianelli percorrono gli sterminati ballatoi sui quali si affacciano le case di Corviale, salgono le scale strette e sporchissime, si perdono tra corridoi e rampe d’accesso. Non si fidano degli ascensori, i pochi che funzionano emettono stridori sinistri. Conoscono per nome e cognome tutti quelli che abitano al quarto piano. A tutti hanno lasciato un numero di telefono. Sono rintracciabili sempre. Quando sono arrivate, racconta Sebastianelli, “l’esordio allarmato di ogni incontro con gli abitanti era: ma voi chi siete? Siete dell’Ater?”.

C’è voluto del tempo perché si capisse che le due donne non erano emissarie del nemico. E tanto altro ancora ce n’è voluto perché si potesse apprezzare che stavolta l’Ater e la regione facevano sul serio, mettevano finalmente mano a una parte di Corviale, primo passo, sperano un po’ tutti, di una serie d’interventi che investano tutto l’edificio, che in molte parti casca a pezzi. Il progetto Salimei (raccontato nel film Scusate se esisto di Riccardo Milani, in cui Paola Cortellesi interpretava vagamente l’architetta Guendalina Salimei) risale a più di dieci anni fa, ha subìto traversie infinite, è stato promosso e triturato a seconda di chi governava la regione, poi rilanciato da Nicola Zingaretti che ha stanziato 25 milioni. A esso si affianca il progetto curato da un’altra architetta, Laura Peretti, che interessa l’area intorno a Corviale e i suoi accessi, ma che resta in attesa di essere realizzato.

Corviale, ottobre 2019. (Francesco Zizola per Internazionale, Noor Images)

Se Corviale è modello di una periferia in ebollizione, il quarto piano è il microcosmo nel quale meglio si leggono le sue tensioni. Fu immaginato da Mario Fiorentino – l’architetto che dai primi anni settanta fu il capofila dei progettisti – per ospitare i servizi necessari alla vita del gigantesco edificio: asili nido, centro anziani, biblioteche, negozi. Doveva essere un luogo d’incontro, di stimolo comunitario, di spazio condiviso, e rappresentare il nucleo urbano del palazzo. Ma già dal 1982, mentre si avviavano le assegnazioni degli appartamenti, i locali furono occupati e le occupazioni sono proseguite negli anni. Chiunque arrivasse attrezzava la propria casa, tirava su pareti, costruiva impianti, si allacciava ai contatori elettrici. Diversa la tipologia di chi ha occupato: un po’ frutto di spontaneismo o di una specie di passaparola che rimbalzava da un piano all’altro in una trama di parentele, un po’ esito di procedure organizzate, di compravendite illegali, a volte controllate da gruppi criminali. Corviale, di nuovo, esempio di quel che accadeva e accade in tante case popolari a Roma, da Ostia a San Basilio.

A differenza del Laurentino 38, di Torrevecchia o di Tor Bella Monaca – altri esperimenti di un’edilizia pubblica imponente e, spesso a torto, famigerata, che si distinguono tra i quasi ottantamila alloggi popolari a Roma –, l’edificio di Corviale è anche un oggetto d’architettura raccontato e studiato in Italia e all’estero. È una specie di razzo partito dall’evo moderno e piombato in quello postmoderno. Si erge su un’altura che sovrasta il paesaggio un tempo popolato da vigne sistemate in grandi tenute o anche in più piccole proprietà. Alcuni casali sono sopravvissuti, di altri si sono perse le tracce.

Una storia complicata
Una fotografia aerea ritrae Corviale come una lama che taglia una prateria. Il verde lo avvolge come in pochi altri luoghi a Roma e il tramonto che incanta Rossella s’impasta con i colori che arrivano dal mare attraversando un tratto di campagna tra via della Pisana e via Portuense e scavalcando il Grande raccordo anulare. Chi viene dal centro e segue l’andamento, questo sì, a serpentone di via Portuense se lo trova davanti all’improvviso, dopo una curva, prima uno spicchio, poi l’intera mole.

Corviale non ha lasciato indifferenti. Lo si è difeso e denigrato, esaltato e demonizzato. Architetti famosi e politici di destra lo hanno accusato di essere criminogeno e ne hanno invocato la demolizione, o quantomeno lo spezzettamento e la riduzione al formato di palazzi tradizionali. Fiorentino lo immaginò come un bastione terminale della città, la risposta monumentale al frantumarsi della capitale in borgate informi, senza né qualità né dimensione urbana. I suoi modelli erano gli acquedotti d’epoca romana che si alzavano solitari e sontuosi su un colle. E poi le imponenti realizzazioni novecentesche del movimento moderno in Germania e in Francia, le unità d’abitazione per le classi più povere e per quelle impiegatizie ancora animate da spirito comunitario.

Corviale e le altre strutture di edilizia popolare rispondevano a un bisogno primario: dare case ai romani che non potevano permettersele, compreso quel milione di persone che, tra il 1961 e il 1971, avevano fatto crescere la popolazione cittadina. Nel 1962 fu varata la legge 167, che avviava un programma di edilizia popolare, e si cominciarono a redigere i cosiddetti piani di zona. Uno di questi riguardava Corviale, la cui progettazione iniziò nel 1972. I lavori cominciarono nel 1975 e finirono nel 1982. Il costo complessivo fu di 95 miliardi di lire. Intanto, però, lo scenario politico e sociale del paese, non solo di Roma, mostrava segni vistosi di cambiamento.

Windows, notte


Gli anni ottanta polverizzarono i valori comunitari a cui si erano ispirati Fiorentino e altri artefici dell’edilizia pubblica. Fiorentino morì d’infarto a 64 anni il giorno di Natale del 1982, mentre a Corviale si alternavano assegnazioni legittime e occupazioni abusive, e qualcuno mise in giro la voce, del tutto falsa, che si fosse suicidato. Corviale e le altre strutture di edilizia popolare diventarono, poco dopo la conclusione dei lavori, ricovero di tutti i disagi, piazza di spaccio e paradiso per altri traffici illegali. Si moltiplicarono le occupazioni, le assegnazioni clientelari e la gestione di quei complicati complessi edilizi finì nelle mani di amministrazioni incompetenti e lottizzate.

La storia di Corviale è intessuta di sfiducia. Venuto meno l’impianto comunitario, sconcertati dai lunghi ballatoi che avrebbero dovuto interpretarlo, molti abitanti – legittimi o meno – hanno riadattato l’edificio, hanno spezzettato quel corridoio, costruito grate agli ingressi, hanno chiuso ballatoi e piazzato cancellate. Ha vinto una pulsione privatistica. Molti si sono tassati per pulire le scale, per riparare ascensori e citofoni. Sono nate diverse associazioni, sono spuntati dei comitati.

Da un lato si sono organizzate forme di partecipazione alle sorti dell’edificio, spesso vivaci e vitali, anche quando si è discusso dei progetti Salimei e Peretti. Di fronte all’edificio è molto attiva una biblioteca comunale intitolata a Renato Nicolini, l’architetto-assessore alla cultura nelle giunte Giulio Carlo Argan e Luigi Petroselli. Dal 2009 funziona il Calciosociale, con palestre e campi da gioco che coinvolgono molti ragazzi di Corviale e non solo. Dall’altro lato si sono formati piccoli e pericolosi potentati, che hanno gestito la compravendita di alloggi e un controllo serrato degli spazi.

Al quarto piano, oltre agli appartamenti occupati, ecco uno spazio un tempo monopolizzato da Alleanza nazionale (la destra romana si è sempre assicurata qui un discreto bacino elettorale). Da nove anni è chiusa la scuola di fronte, dall’altro lato della strada, e l’edificio, sebbene ristrutturato, è lì in abbandono. Come in abbandono, da quattro anni, è il grande mercato rionale. E ora si sono spente le luci anche del bar tavola-calda, un luogo di ritrovo per molti a Corviale, accanto alla biblioteca.

Una parte dei locali del quarto piano ha però conservato la sua vocazione comunitaria: dal settembre 1992 ci vive don Gabriele, un prete fiorentino dell’associazione Fraternità dell’incarnazione. Abita insieme a don Giuseppe e conosce tutti. Sara Braschi e Sofia Sebastianelli l’hanno consultato fin da subito. E lui è stato un fondamentale tramite per esplorare bisogni e aspirazioni di chi vive nell’edificio e le ha aiutate a orientarsi per capire come far partire il cantiere senza scatenare rivolte.

Corviale, ottobre 2019. (Francesco Zizola per Internazionale, Noor Images)

“Prima che arrivassimo noi 27 anni fa”, racconta don Gabriele, “questi spazi erano vuoti, ma dato che erano riscaldati e illuminati, qui molti ragazzi venivano a drogarsi. Poi qualcuno pensò di trasformarli in appartamenti e di venderli, un po’ come altrove al quarto piano. A quel punto, d’accordo con le diocesi di Roma e di Pescia, abbiamo proposto di trasformarli in luoghi d’incontro e di preghiera in collaborazione con la parrocchia di San Paolo della Croce e l’autorizzazione dell’Ater”. Don Gabriele ha arredato questi spazi, ha foderato le pareti, ha sistemato le panche. Ci si viene per raccontare, per sfogarsi, ma anche solo per un po’ di compagnia. O per pregare in una sala diventata una cappella.

L’esperimento di Corviale ha un precedente. “Nel 2012”, racconta Giovanni Caudo, “con il dipartimento di architettura di Roma Tre provammo a coinvolgere un gruppo di abitanti di Torre Spaccata, periferia est di Roma, nel riuso di uno spazio abbandonato. Discutevamo sia come ristrutturarlo sia cosa farne, come gestirlo. Capimmo che era essenziale essere fisicamente presenti, avere lì una sede. E così aprimmo un locale che chiamammo Laboratorio di città. Da tempo siamo in contatto con il politecnico di Milano che adotta pratiche analoghe nel quartiere popolare di San Siro. E quando con la regione Lazio si è cominciato a ragionare di Corviale, abbiamo proposto di aprire un altro laboratorio”.

Sara Braschi e Sofia Sebastianelli hanno capito che tra i bisogni di chi abita a Corviale spunta il tenere desta la memoria di sé e del luogo, il non disperdere una storia insieme ai calcinacci di un appartamento che non c’è più. E così, coordinate da Francesco Careri, hanno cominciato a raccogliere immagini degli alloggi come erano stati attrezzati da chi, abusivamente, li aveva adattati alle proprie esigenze. Un repertorio utile anche per la ricerca universitaria.

La convenzione tra l’università e la regione Lazio dovrebbe durare tre anni, il tempo del cantiere al quarto piano. Ma Corviale è una macchina complessa, il libretto d’istruzioni s’è perso per strada e le energie vitali che popolano l’edificio tentano di recuperarlo. Tra i progetti che le due ricercatrici seguono uno riguarda proprio il cortile dove ha sede il laboratorio. L’hanno battezzato “La piazzetta degli artigiani”. Alcuni locali sono occupati, in uno c’è una stamperia d’arte, in un altro si restaurano mobili, in un altro ancora una sartoria. C’è chi dipinge o fa l’incisore. Alcuni ragazzi di Corviale sono coinvolti in queste attività, in altre operano ex detenuti.

Se queste saracinesche restassero sbarrate, il cortile sarebbe ancora più popolato di buchi neri. E i buchi neri generano insicurezza. L’aspirazione di tutti è di diventare regolari. E anche l’Ater, proprietario di questi locali, potrebbe avere interesse a far sparire i buchi neri. Inoltre il progetto di Laura Peretti prevede proprio il moltiplicarsi di queste iniziative. Un dialogo è stato avviato, poi si è interrotto. Braschi e Sebastianelli sono a Corviale, quasi tutti i giorni, dalla mattina al primo pomeriggio, e provano a riannodarlo.

I video “Windows, giorno” e “Windows, notte” sono stati realizzati da Francesco Zizola. Una produzione 10b photography. Project manager, Serena Scarfi, assistente alla fotografia, Maria Teresa Pirastu, montaggio e postproduzione di Giulia Testa.

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