24 settembre 2021 15:47

Questo articolo è stato pubblicato il 13 febbraio 2015 nel numero 1089 di Internazionale.

All’inizio di ottobre il campo da pallacanestro della scuola normale rurale di Ayotzinapa, nello stato messicano di Guerrero, è diventato una sala d’attesa all’aperto piena di disperazione. Sotto il tetto di lamiera del campo, le famiglie di 43 studenti scomparsi si sono ritrovate per seguire le ricerche, le manifestazioni di protesta e le riunioni con i funzionari del governo, i difensori dei diritti umani e gli antropologi forensi. Riuniti in gruppi ai bordi del campo, seduti sul pavimento o su sedie pieghevoli disposte a semicerchio, i genitori parlavano tra loro a voce bassa. Molti erano arrivati da piccole comunità indigene delle montagne e non avevano vestiti di ricambio. Cercavano tutti i loro figli.

La notte del 26 settembre 2014 a Iguala, a pochi chilometri da Ayotzinapa, alcuni poliziotti hanno teso un’imboscata a cinque autobus di studenti della scuola rurale e a un altro su cui viaggiava una squadra di calcio. Insieme a tre sicari non identificati, hanno ucciso sei persone, ne hanno ferite altre venti e hanno fatto “sparire” 43 studenti. Il cadavere di una delle vittime è stato trovato in un campo la mattina dopo. Gli assassini hanno reso irriconoscibile il suo volto. I soldati del ventisettesimo battaglione di fanteria, incaricati di combattere il crimine organizzato, non sono intervenuti. La loro caserma è a meno di tre chilometri di distanza.

In un primo momento la notizia dell’agguato è stata accolta da una muta indignazione, soprattutto perché le informazioni che arrivavano erano confuse. Per giorni sono circolate cifre contraddittorie sugli studenti scomparsi. I mezzi d’informazione nazionali e internazionali hanno cominciato a interessarsi della questione dal 4 ottobre, dopo che la procura ha annunciato di aver scoperto la prima di una serie di fosse comuni alla periferia di Iguala. Quando gli antropologi forensi hanno confermato che il primo dei trenta corpi trovati carbonizzati non era di uno studente di Ayotzinapa, la rabbia ha preso il sopravvento. A ottobre ci sono state manifestazioni e presidiin tutto il paese. A Chilpancingo, la capitale dello stato di Guerrero, gli studenti della scuola rurale hanno rotto le finestre e incendiato gli edifici del governo statale. A Iguala i manifestanti hanno saccheggiato il comune.

Sequestro a tempo
Anche se non è stato un evento isolato né il peggior massacro degli ultimi anni, quello che è successo il 26 settembre ha colpito profondamente la società messicana. Forse per la ferocia e la brutalità dei fatti, perché le vittime sono studenti, perché gli autori materiali sono soprattutto poliziotti, perché è probabile che dietro l’imboscata ci siano il sindaco di Iguala, sua moglie e il capo della polizia, per il modo in cui il governo ha gestito le indagini o per l’insensibilità mostrata verso le famiglie degli studenti. Qualunque sia la causa (forse è una combinazione di tutte queste ragioni) l’effetto che questa vicenda ha avuto sul paese è enorme. Iguala è diventata sinonimo di trauma collettivo. Il Messico è in lutto, e al centro del dolore ci sono le 43 famiglie sul campo da pallacanestro di Ayotzinapa e la loro straziante richiesta: se li sono presi vivi, li rivogliamo vivi.

Ogni anno 140 nuovi studenti entrano nella scuola maschile rurale per maestri di Ayotzinapa. Gli studenti provengono da alcuni dei villaggi più poveri del mondo, dove di solito la scuola elementare è una stanza di paglia e fango senza elettricità né acqua corrente. Ma non c’è futuro neanche per i ragazzi più volenterosi: molti sono destinati a entrare nel narcotraffico o ad attraversare il deserto dell’Arizona per lavorare come braccianti in California o come lavapiatti a Chicago. La scuola di Ayotzinapa offre la possibilità di una professione. La retta, il vitto e l’alloggio sono gratuiti, e il governo statale paga 50 pesos (3 euro) al giorno per studente per garantire una dieta a base di uova, riso e fagioli. Gli studenti si occupano delle pulizie e della mensa. Le camere dei ragazzi che frequentano il primo anno sono scatole di cemento senza finestre né mobili. In ogni stanza vivono al massimo otto studenti, che di notte dormono su cartoni e coperte. Alcuni attaccano una cassetta al muro e la usano come comodino.

Le scuole rurali per maestri furono create dopo la rivoluzione messicana per promuovere l’alfabetizzazione nelle campagne. A metà del novecento ce n’erano trentasei. Nel 1969 il governo federale chiuse vari istituti e oggi ne restano solo quattordici. Quella di Ayotzinapa fu fondata nel 1926, e come tutte le scuole rurali per maestri ha una lunga tradizione di movimenti studenteschi di sinistra. I murales della scuola non ritraggono solo rivoluzionari di fama internazionale come Che Guevara o il subcomandante Marcos, ma anche leader guerriglieri degli anni settanta come Lucio Cabañas Barrientos e Genaro Vázquez Rojas, entrambi ex studenti di Ayotzinapa. Alcuni commemorano due studenti uccisi dalla polizia nel 2011 durante una protesta per ottenere più risorse per la scuola.

Una delle “attività” più comuni tra gli studenti è il sequestro degli autobus. Il tirocinio è fondamentale per il percorso di studi, ma la scuola non ha molti mezzi di trasporto per accompagnare gli studenti nei vari istituti. All’inizio di settembre aveva due autobus, due furgoncini e una camionetta. Così quando c’è bisogno di un mezzo di trasporto, gli studenti vanno al terminal più vicino o bloccano una strada, fermano un autobus e informano l’autista e i passeggeri che il veicolo sarà usato “a fini didattici dalla scuola di Ayotzinapa”. Ormai è diventata un’abitudine.

I funzionari del governo condannano le azioni degli studenti e li accusano di essere dei ladri. Gli studenti sostengono che non si tratta di furti perché arrivano sempre a “un accordo” che prevede un pagamento. Gli autisti infatti non abbandonano i loro mezzi: a volte dopo aver raggiunto una scuola si accampano lì e ricevono da mangiare per settimane e a volte anche mesi. I blocchi delle autostrade, invece, di solito avvengono ai caselli: gli autisti, circondati, tendono a “devolvere” l’equivalente del pedaggio al fondo trasporti della scuola rurale. Nessuna di queste tattiche è esclusiva di Ayotzinapa, ma qui sono parte integrante del funzionamento della scuola.

“Non sapevamo dove fossimo diretti e perché”, mi spiega uno studente del primo anno. “Ci hanno detto solo: andiamo”

Nel maggio del 2013 una giornalista di Televisa, Adela Micha, ha intervistato il governatore dello stato di Guerrero, Ángel Heladio Aguirre Rivero (si è dimesso il 23 ottobre 2014). Micha gli ha chiesto come mai i furti di autobus da parte degli studenti fossero così comuni. “Ayotzinapa è diventata una specie di bunker”, ha risposto Aguirre. “Le autorità statali e federali non riescono a entrare. Alcuni gruppi la usano come base per indottrinare i ragazzi e alimentare il malcontento sociale”. Micha ha chiesto: “Chi li sta indottrinando?”. “Qualche guerriglia insonne”, ha affermato il governatore.

L’azione del 26 settembre non doveva svolgersi a Iguala. “Volevamo andare a Chilpancingo”, mi spiega Iván Cisneros, uno degli studenti del secondo anno che quel pomeriggio coordinava le attività. “Le nostre azioni si svolgono sempre lì. Ma la situazione era molto tesa e non volevamo mettere a repentaglio nessuno, così siamo andati a Iguala”.

La seguente cronaca di quello che è successo la notte del 26 settembre si basa sulle interviste a quattordici studenti sopravvissuti e a una decina di abitanti della zona, compresi quattro giornalisti presenti durante i fatti. I nomi degli studenti sopravvissuti sono stati cambiati.

Come un feudo
A metà settembre un gruppo di studenti del secondo anno ha requisito due autobus al terminal di Chilpancingo. Ne avevano bisogno per andare a fare tre giorni di tirocinio. Al ritorno gli studenti si sono tenuti gli autobus e gli autisti perché molti volevano andare a Città del Messico per la manifestazione in ricordo del massacro di Tlatelolco del 2 ottobre 1968, in cui l’esercito uccise centinaia di studenti. Il problema era che Ayotzinapa non aveva abbastanza autobus per trasportare tutti. Così, per trovare altri mezzi di trasporto, alcuni studenti, quasi tutti del secondo anno, hanno fatto un piano per il pomeriggio del 26 settembre. Non sarebbero andati a Chilpancingo perché i granaderos, i poliziotti antisommossa, erano appostati al terminal degli autobus. L’azione si sarebbe svolta vicino a Huitzuco, una cittadina a un centinaio di chilometri dalla scuola.

Verso le cinque e mezzo del pomeriggio i coordinatori hanno fatto salire a bordo dei due autobus un’ottantina di studenti del primo anno e sono partiti. Secondo tutte le versioni, negli autobus c’era un’atmosfera gioiosa. I nuovi studenti frequentavano i corsi da un mese: quella mattina molti erano andati alla loro prima lezione e ora stavano per partecipare a uno dei riti d’iniziazione della scuola. “Non sapevamo dove fossimo diretti e perché”, mi spiega uno studente del primo anno. “Ci hanno detto solo: andiamo”. Gli studenti si sono fermati vicino a Huitzuco e hanno chiesto donazioni in attesa di qualche autobus. Stava facendo buio, gli automobilisti erano ostili e gli autobus non passavano. Cisneros ha chiamato uno dei coordinatori: “Dobbiamo rinunciare, non riusciamo a prenderne neanche uno”. Proprio quando i coordinatori stavano per annunciare la decisione di tornare ad Ayotzinapa, è passata una corriera. I coordinatori si sono messi d’accordo con l’autista, che li ha fatti salire e ha chiesto di poter passare prima a Iguala, a venti minuti di distanza, per lasciare gli altri passeggeri. La corriera è arrivata nella città alle otto di sera. Sono scesi tutti, tranne i nove studenti che l’avevano sequestrata. L’autista gli ha spiegato che, prima di ripartire serviva un’autorizzazione. “Aspettatemi un momento”, ha detto.

A pochi isolati da lì i vertici politici di Iguala e quattromila acarreados (persone fatte arrivare per riempire la piazza) erano riuniti nella Plaza cívica de las tres garantías per ascoltare il secondo rapporto annuale della sede locale del Sistema nazionale per lo sviluppo integrale della famiglia. È difficile che un’agenzia di sviluppo regionale abbia soldi da sperperare in fiori, luci, musica, cose da mangiare e gruppi musicali per presentare un rapporto annuale. Secondo i giornalisti presenti, il ritrovo era in realtà una festa elettorale per la moglie del sindaco, María de Los Ángeles Pineda, che voleva candidarsi per succedere al marito. In piazza c’era anche un colonnello del ventisettesimo battaglione di fanteria.

Un altare nella palestra della scuola di Ayotzinapa, il 24 ottobre 2014. (Timothy Fadek, Redux/Contrasto)

José Luis Abarca è stato eletto sindaco nel 2012, ma da tempo lui e la moglie trattavano Iguala come un feudo. Negli ultimi anni avevano comprato 31 appartamenti, nove negozi e tredici gioiellerie. L’esercito messicano aveva donato alla città un terreno di periferia e la coppia ci ha costruito un centro commerciale da 23 milioni di dollari. In diverse occasioni la procura statale e quella federale hanno accusato i genitori di Pineda e i suoi tre fratelli (due sono stati uccisi) di essere a capo del gruppo criminale Guerreros unidos. A Iguala polizia e Guerreros unidos sono sinonimi. Una volta Pineda ha minacciato un giornalista pubblicamente: “Se continui a scrivere di certi argomenti ti taglio le orecchie”.

Abarca è stato accusato dell’omicidio dell’attivista Arturo Hernández Cardona, nel 2013. Un testimone ha dichiarato davanti alla procura federale che Abarca ha sparato a Hernández Cardona colpendolo in faccia e al petto. L’attivista era scomparso da quattro giorni quando il suo cadavere è stato trovato sul ciglio di una strada con evidenti segni di tortura. I nove studenti che aspettavano il ritorno dell’autista erano all’oscuro delle accuse contro il sindaco di Iguala e la moglie, e non sapevano che si trovavano lì vicino.

I ragazzi vedevano l’autista discutere con le guardie del terminal e le guardie parlare per telefono e alla radio. Temendo che l’autista si rifiutasse di risalire sull’autobus, hanno chiamato i loro compagni ancora sull’autostrada. La loro risposta è stata immediata: hanno preso dei sassi, sono saliti sui due pullman e sono partiti verso Iguala. Quando sono arrivati, hanno parcheggiato lungo la strada e si sono lanciati verso il terminal, con i volti coperti dalle magliette. I nove studenti rimasti ad aspettare l’autista hanno abbandonato l’autobus e, insieme ai compagni, ne hanno sequestrati altri tre.

A quel punto gli studenti avevano cinque autobus e in giro non si vedevano poliziotti. Hanno chiesto agli autisti di farli uscire dalla città il prima possibile: due autobus sono andati verso est, in direzione del Periférico sur, un viale che costeggia il centro e porta all’autostrada, gli altri tre si sono diretti a nord su calle Galeana, verso Plaza cívica. Senza dar retta agli studenti, che chiedevano di accelerare, l’autista in testa avanzava a passo d’uomo. Erano le nove e mezzo. In piazza i discorsi erano finiti e stava suonando la banda.

Quando i tre autobus sono passati per Plaza cívica sono arrivate le camionette della polizia a sirene spiegate. Una si è piazzata davanti al primo autobus, bloccando il passaggio. Gli studenti sono scesi per cercare di liberare la strada. Sono arrivati altri poliziotti e hanno cominciato a sparare in aria. Gli studenti di Ayotzinapa davano per scontato che combattere contro la polizia fosse come giocare al gatto e al topo: se ti prendevano ti picchiavano e ti arrestavano, ma le pallottole non facevano parte del gioco. Si sono lanciati contro la camionetta prendendola a sassate e obbligando l’autista a fare marcia indietro. “Ero sul terzo autobus. Siamo scesi appena abbiamo sentito gli spari”, racconta Ernesto Guerrero, uno studente del primo anno. “Un compagno del secondo anno ci ha detto: ‘Non vi preoccupate, sparano in aria’. Ma avvicinandoci abbiamo capito che sparavano contro la corriera e contro di noi. Allora abbiamo deciso di difenderci: ho trovato quattro sassi e glieli ho lanciati addosso”.

Dopo aver liberato la strada, i tre autobus hanno proseguito su calle Juan N. Álvarez, una strada che porta al Periférico norte. Le camionette della polizia li hanno inseguiti, arrivando dai lati e da dietro, e sparando. Gli autobus si trovavano a pochi metri dall’incrocio con il Periférico norte quando una camionetta gli ha tagliato la strada. L’autista del primo autobus ha abbandonato il mezzo e, quando gli studenti sono scesi per spingere la camionetta della polizia e liberare il passaggio, i poliziotti hanno aperto il fuoco. Una pallottola ha colpito alla testa Aldo Gutiérrez Solano. Nella confusione gli studenti l’hanno quasi investito. “Alla fine l’hanno visto a terra che sanguinava”, racconta Edgar Yair, del primo anno. “Lo volevamo portare via, ma i poliziotti si sono messi a sparare ancora
di più”.

A quel punto tutte le regole erano saltate. Gli studenti si sono messi a correre, qualcuno è salito di nuovo sul primo autobus, altri si sono nascosti tra il primo e il secondo. Sono arrivati altri poliziotti, che hanno sparato ma da lontano. Gli studenti chiedevano un’ambulanza, ma quando alla fine è arrivata, la polizia le ha impedito di avvicinarsi. Il veicolo ha fatto il giro da dietro e i paramedici hanno portato Gutiérrez Solano all’ospedale, dov’è stata dichiarata la sua morte cerebrale.

Molti poliziotti si sono piazzati dietro il terzo pullman, intrappolando gli studenti all’interno. “Dopo un po’ abbiamo sentito delle grida”, racconta Jorge Vázquez, un ragazzo del primo anno che si era nascosto in fondo al primo autobus. “Dal finestrino ho visto i poliziotti che facevano salire vari compagni sulle camionette per portarli via”. Nei novanta minuti successivi gli agenti hanno obbligato gli studenti del terzo autobus a stendersi per terra a faccia in giù e con le mani sulla nuca, poi li hanno fatti salire sulle camionette e se ne sono andati. Erano tra i 25 e i 30 ragazzi. Da quel momento sono tutti scomparsi”.

Mentre succedeva tutto questo, i due autobus che stavano uscendo da Iguala si sono divisi. Uno aveva a bordo quattordici studenti e seguiva il pullman della squadra di calcio di serie C della città, los Avispones, di rientro a casa dopo aver vinto contro la squadra di Iguala. “Eravamo sull’ultimo cavalcavia”, mi spiega Alex Rojas, uno dei quattordici ragazzi. “All’improvviso sotto di noi abbiamo visto un autobus, moltissime camionette e i fucili spianati”. Era il quinto autobus. Gli studenti a bordo sono tra quelli scomparsi.

Spari e grida
L’autista dell’autobus su cui viaggiava Rojas si è accorto del posto di blocco e ha cercato di tornare indietro, ma la polizia l’ha costretto a fermarsi. Gli studenti si sono incamminati in direzione opposta. Alle loro spalle hanno sentito i poliziotti gridare: “Toglietevi dai coglioni o siete morti”. Inseguiti dalla polizia, i quattordici ragazzi sono scappati in un campo vicino. Nelle tre ore successive hanno provato a raggiungere gli autobus in calle Álvarez ma la polizia ha aperto il fuoco e li ha inseguiti su una collina, dove sono rimasti fino alla mattina. Alcuni sicari hanno attaccato l’autobus della squadra di calcio e hanno ucciso l’autista, un giocatore di 14 anni e una donna che passava in taxi. Almeno altre nove persone sono rimaste ferite.

Alle undici e mezzo di sera, dopo aver raccolto i bossoli e aver ripulito le strade dal sangue, la polizia ha lasciato la scena del primo attacco. Poco a poco gli studenti sono usciti dai loro nascondigli e, per preservare la scena del crimine, hanno montato la guardia, ammassando pietre e rifiuti intorno ai bossoli e alle macchie di sangue rimaste. L’interno del terzo autobus, da cui la polizia aveva prelevato tutti gli studenti, era cosparso di sangue. Poco dopo sono arrivati due furgoncini di studenti da Ayotzinapa, qualche giornalista e alcuni abitanti della zona.

Verso mezzanotte i giornalisti hanno chiesto un’intervista al presidente del comitato studentesco della scuola. Le telecamere e i registratori erano in funzione da quattro minuti quando si sono sentite delle raffiche di spari: “Erano colpi di mitragliatrice. Sentivamo il fischio delle pallottole e il rumore dei vetri delle finestre che scoppiavano. Ci siamo messi a correre verso gli autobus”, racconta uno dei reporter. Due studenti, Daniel Solís Gallardo e Julio César Ramírez Nava, sono morti. Coyuco Barrientos, un ragazzo del primo anno, è tra i pochi ad aver visto i sicari. Dice che erano tre, erano vestiti di nero, avevano il volto coperto e sparavano con i fucili d’assalto a mezz’aria. “Il primo ha cominciato a sparare in aria, poi ha puntato l’arma verso di noi. Mi sono voltato e ho visto chiaramente le scintille dei proiettili che toccavano terra: sembravano petardi di capodanno. Ci siamo messi a correre. Sono scesi altri due uomini e ci hanno sparato con delle armi automatiche”. Molti studenti si sono rifugiati nelle case vicine: i proprietari li hanno accompagnati nelle stanze più isolate e hanno spento le luci.

Juan Pérez, uno studente del primo anno colpito al ginocchio da una pallottola, stava correndo quando un suo compagno è caduto. Gli avevano sparato in bocca. Alcuni ragazzi hanno aiutato Pérez a portare via l’amico ferito. Da una finestra del primo piano una donna gli ha offerto riparo, ma loro hanno rifiutato e le hanno chiesto indicazioni per raggiungere l’ospedale. In quella stessa strada c’era una piccola clinica privata: i ragazzi hanno bussato e due donne li hanno fatti entrare. Altre venticinque persone, tra studenti e abitanti della zona, hanno provato a entrare, ma le donne hanno detto che era un laboratorio radiologico, non una clinica. Gli studenti hanno chiesto di poter chiamare un’ambulanza.

Dopo venti minuti qualcuno ha bussato alla porta: erano i soldati del ventisettesimo battaglione di fanteria in tenuta da combattimento. Quando gli studenti hanno aperto, i soldati gli hanno puntato il fucile contro e hanno ordinato a tutti di gettarsi a terra. “Ci hanno preso i cellulari e hanno scattato delle foto”, racconta Yair. “Il comandante ci ha spiegato che non avevamo motivo di essere lì e che stavamo cercando di farci ammazzare. Gli abbiamo detto che eravamo studenti della scuola di Ayotzinapa, ma per lui eravamo solo delinquenti”. A un certo punto, tra mezzanotte e mezza e l’una, è arrivato il direttore della clinica che non ha voluto visitare gli studenti feriti. Aiutato dai soldati, ha sbattuto tutti fuori. A pochi isolati dalla clinica una famiglia ha accolto alcuni studenti, mentre un altro gruppetto ha preso un taxi per portare il compagno ferito in ospedale.

All’una e mezzo di notte il primo gruppo di giornalisti di Chilpancingo è arrivato all’incrocio tra il Periférico norte e Juan N. Álvarez. I reporter hanno trovato i cadaveri dei due studenti riversi a terra, gli autobus, le macchine crivellate dai proiettili e i soldati a volto coperto fermi vicino alla scena del crimine. La mattina dopo gli studenti si sono presentati alla procura di Iguala. Hanno identificato ventidue poliziotti, hanno parlato con alcuni difensori dei diritti umani e hanno steso una lista delle persone scomparse. A quel punto hanno saputo che gli studenti costretti dalla polizia a scendere dall’autobus non erano mai arrivati in carcere. Ai loro telefoni non rispondeva nessuno. All’inizio gli studenti scomparsi sembravano cinquantasette, poi si è saputo che quattordici erano fuggiti verso la periferia.

Verso le sette di mattina sui social network ha cominciato a circolare una foto. Julio César Mondragón Fontes, uno studente del primo anno di Città del Messico, era stato visto per l’ultima volta verso mezzanotte in calle Álvarez. Aveva parlato con Juan Ramírez, un altro alunno del primo anno, ed era spaventato. “Mi aveva detto che il giorno dopo sarebbe tornato a casa perché non voleva rischiare la vita. Pensava alla famiglia, alla moglie e alla figlia”. Poco dopo i tre sicari a volto coperto avevano aperto il fuoco. Nella foto, la camicia rossa di Mondragón Fontes è alzata fino al petto e si vedono i lividi sul corpo. Gli hanno tagliato via il volto e le orecchie, e gli hanno strappato gli occhi. Gli amici l’hanno identificato dalla sciarpa grigia intorno al collo.

Quando sono arrivati i primi rapporti su Iguala, in teoria il Messico stava vivendo il suo grande momento. A due anni dall’inizio del suo mandato, il presidente Enrique Peña Nieto aveva promosso la riforma dell’istruzione e dell’energia, e aveva fatto arrestare Joaquín “el Chapo” Guzmán, il narcotrafficante più ricercato del paese. Gli episodi di violenza che avevano segnato la precedente amministrazione di Felipe Calderón non occupavano più le prime pagine dei giornali. A febbraio 2014 la rivista statunitense Time ha dedicato la copertina a Peña Nieto con il titolo “Saving Mexico” (Salvare il Messico). Le notizie di un massacro commesso dall’esercito a giugno a Tlatlaya, nello stato di México, avevano portato all’arresto dei soldati coinvolti, un epilogo impensabile sotto il governo Calderón.

Una lunga lista
Da lontano sembrava che il Messico stesse uscendo da uno dei suoi periodi più bui. Negli ultimi otto anni, a causa della guerra al narcotraffico, centomila messicani sono stati uccisi e almeno ventimila persone sono scomparse (per le organizzazioni dei diritti umani la cifra è più alta). E il numero non tiene conto delle decine di migliaia di migranti centroamericani e sudamericani uccisi e scomparsi in Messico nello stesso periodo. La lista dei massacri è talmente lunga che non fa più effetto. Nel settembre del 2008 sono stati trovati 24 cadaveri in un parco fuori Città del Messico: dieci erano stati decapitati. Nel gennaio del 2010 alcuni sicari hanno fatto irruzione in una casa dove si stava svolgendo una festa, uccidendo quindici studenti di Ciudad Juárez. Nell’agosto del 2010 i cadaveri di 72 migranti sono stati rinvenuti in un granaio a San Fernando, nello stato di Tamaulipas. Nessuno di questi massacri ha scatenato una protesta nazionale. A marzo del 2011 le manifestazioni seguite all’omicidio di sette persone (tra cui il figlio del poeta Javier Sicilia) nello stato di Morelos hanno dato voce al dolore del paese, ma hanno perso forza quando i tentativi di negoziare con il governo si sono arenati.

L’idea che le autorità siano ufficialmente impegnate in una guerra contro la droga ha spinto molte persone a considerare normali gli omicidi, le stragi, le sparizioni, la tortura e un sistema politico che non si limita a garantire l’impunità di questi crimini, ma spesso li approva. Nel rapporto del 2014 Amnesty international ha documentato un uso diffuso della tortura da parte dell’esercito e della polizia messicana. Il concetto stesso di corruzione è diventato antiquato: nella maggior parte del paese le autorità e i narcos sono pienamente integrati, e nessuno dei grandi partiti politici si salva. Iguala è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso: ha spazzato via l’insistenza con cui il governo continua a dire che nella guerra contro la droga c’è una distinzione netta tra buoni e cattivi, tra legge e illegalità.

Il 27 settembre 2014 la polizia locale ha arrestato i ventidue agenti di Iguala identificati dagli studenti. Il 30 settembre il sindaco Abarca, la moglie e il capo della polizia sono fuggiti. Il presidente Peña Nieto ha cancellato un viaggio in programma nello stato di Guerrero parlando di condizioni meteorologiche sfavorevoli, ma dando l’impressione che gli omicidi e le scomparse non lo riguardassero. Ha detto a un giornalista: “Le autorità dello stato devono assumersi le loro responsabilità”. La ricerca della prima settimana si è svolta così: i poliziotti portavano i genitori in giro per Iguala, ogni tanto si fermavano davanti a una casa e suggerivano ai familiari degli studenti di bussare alla porta e chiedere se i loro figli fossero nascosti lì. Il 4 ottobre il procuratore statale ha annunciato che erano state scoperte quattro fosse comuni sulle montagne vicino a Iguala. Gli scavi iniziali hanno portato alla luce un numero indeterminato di resti umani carbonizzati. La polizia avrebbe scoperto il luogo delle fosse clandestine grazie a testimonianze ottenute con la tortura. “Hanno messo sotto torchio un poliziotto locale”, racconta un ufficiale, “e lui ha cantato”.

Il giorno dopo il procuratore ha dichiarato che uno degli agenti arrestati aveva confessato di aver ucciso, bruciato e sepolto gli studenti in quelle fosse. Aveva agito insieme a un gruppo criminale. A quel punto il governo federale ha preso in mano l’inchiesta, esercitando la facoltà di assumere la giurisdizione sui casi che coinvolgono la criminalità organizzata: un tacito riconoscimento del fatto che non era più possibile ignorare le conseguenze politiche di Iguala. Dopo il ritrovamento delle fosse comuni, il comitato di genitori ha tenuto una conferenza stampa ad Ayotzinapa e ha lanciato un appello al governo per cambiare i metodi della ricerca. Decine di uomini e donne in preda all’angoscia erano seduti in fila dietro ai tre familiari scelti per parlare a nome di tutti: “Sappiamo che i nostri figli sono stati portati via dal governo e dai suoi poliziotti. Loro sanno dove si trovano”, ha detto Manuel Martínez. “Continueremo a protestare finché non rivedremo i nostri figli a casa, vivi”. Una squadra indipendente di antropologi forensi argentini avrebbe rappresentato i genitori nell’inchiesta del governo.

Nelle settimane successive i genitori hanno organizzato molte manifestazioni. Insieme agli studenti hanno bloccato le strade dello stato, hanno marciato nelle città, hanno rotto vetri e incendiato il parlamento di Guerrero e il palazzo del governo. Quando l’analisi del dna ha confermato che i resti trovati nelle fosse comuni non erano degli studenti, le proteste si sono estese a tutto il paese. Il 23 ottobre il governatore Aguirre si è dimesso e sei giorni dopo i genitori hanno incontrato il presidente Peña Nieto: gli hanno detto che, se non avesse trovato gli studenti vivi, avrebbe dovuto fare come Aguirre.

L’effetto opposto
A novembre la vicenda di Iguala si è trasformata nella crisi peggiore dell’amministrazione Peña Nieto. Fin dal primo momento il governo ha sottovalutato la rabbia scatenata dalla sparizione degli studenti e ha cercato di controllare gli eventi, spesso in modo confuso. Il 4 novembre le autorità federali hanno arrestato a Città del Messico il sindaco Abarca e sua moglie. Il 7 novembre il procuratore generale della repubblica, Jesús Murillo Karam, ha annunciato in una conferenza stampa che il governo aveva il video delle confessioni di tre uomini dei Guerreros unidos.

Secondo Murillo Karam, la notte del 26 settembre la polizia ha consegnato gli studenti a tre narcotrafficanti che li hanno portati in una discarica alla periferia di Cocula, a qualche chilometro da Iguala. Quando sono arrivati alla discarica a cielo aperto i tre uomini hanno scoperto che quindici studenti erano già morti o incoscienti. Hanno chiesto agli altri che ci facevano a Iguala. “Dicevano che erano venuti per la moglie di Abarca”, ha dichiarato uno degli uomini. I ragazzi sono stati uccisi, i cadaveri gettati nella discarica e bruciati usando legno, pneumatici, benzina e gasolio. Quindici ore dopo restavano solo frammenti di ossa e cenere. I criminali hanno messo i resti in sacchi della spazzatura e, a eccezione di due, li hanno svuotati tutti nel vicino fiume San Juan. Quei due sacchi, sostengono, li hanno gettati senza aprirli. Murillo Karam ha spiegato che gli agenti federali avevano ritrovato i sacchi con dentro minuscoli frammenti ossei. I resti sono stati inviati a un laboratorio dell’università di Innsbruck, in Austria, per essere sottoposi all’esame del dna. A 58 minuti dall’inizio della conferenza stampa, dopo aver parlato delle confessioni dei narcos, Murillo Karam ha interrotto la domanda di un giornalista dicendo: “Mi sono stancato”. E poco dopo se n’è andato.

La polizia è solo una facciata: gli agenti sono narcotrafficanti in uniforme

Se lo scopo della conferenza stampa era chiudere il caso e mettere a tacere le proteste, l’effetto è stato opposto. Le parole del procuratore generale sono state subito riprese dai social network: dopo qualche ora su Twitter infuriava l’hashtag #YaMeCanse. Tra i commenti più diffusi: “Se ti sei stancato, vattene”, “Mi sono stancato della paura” e “Mi sono stancato dei politici”. La versione di Murillo Karam ha sollevato più domande di quelle a cui ha risposto. Come hanno fatto tre uomini a tenere a bada 43 giovani attivisti? Come hanno potuto bruciare 43 cadaveri sotto la pioggia? Perché nella discarica non sono state trovate tracce di fibra di acciaio dei pneumatici usati per il fuoco? Perché i criminali avrebbero dovuto svuotare sei sacchi di cenere e resti umani nel fiume e gettarne due chiusi? Perché gli studenti avrebbero dichiarato di essere a Iguala per protestare contro la moglie del sindaco se non avevano mai avuto in programma di farlo? Inoltre, è rimasta in sospeso una domanda ancora più preoccupante: perché il governo non ha presentato i video con le confessioni dei ventidue poliziotti identificati dagli studenti come loro assalitori? Perché non ha reso pubblici i tabulati dei cellulari della polizia di quella sera né quelli di Abarca e Pineda?

Per molti osservatori, la versione del governo è troppo facile: Murillo Karam si è concentrato così tanto sui tre presunti sicari da lasciare Abarca, Pineda e la polizia sullo sfondo. Le contraddizioni e le anomalie della versione ufficiale hanno alimentato il sospetto che il governo fosse più interessato a coprire la verità che a condurre un’inchiesta rigorosa. L’indagine avrebbe dovuto tenere conto dei numerosi documenti sulla natura criminale della polizia di Iguala. Secondo un giornalista locale, “la polizia è solo una facciata: gli agenti sono narcotrafficanti in uniforme, che usano le armi e i mezzi delle forze dell’ordine. Si chiamano los bélicos. Sono polizia nella polizia”. Secondo un funzionario della città, “ibélicos sono comandati dal fratello di Pineda. Hanno camionette e uniformi, ma si muovono di notte a volto coperto, sequestrando le persone per strada e chiedendo un riscatto di diecimila pesos entro un’ora”. Un’inchiesta servirebbe a capire perché Iguala si è trasformata in una “narcocittà” e solleverebbe questa domanda: come può esistere una città di narcotrafficanti vicino a una base militare?

Chiudere il caso
Il giorno successivo alla conferenza stampa i genitori dei ragazzi scomparsi guardavano gli studenti di Ayotzinapa prendere a sassate le finestre del congresso di Guerrero e incendiare le camionette della polizia. Poco dopo, familiari e studenti sono partiti con tre pullman per percorrere il paese in cerca di sostegno. Il 20 novembre, nel 104° anniversario della rivoluzione messicana, sono arrivati nella piazza dello Zócalo, a Città del Messico. Con loro c’erano decine di migliaia di persone.

Prima e dopo la manifestazione, Ayotzinapa era ovunque: sulle prime pagine dei giornali, nei programmi radiofonici, nelle conversazioni ascoltate di sfuggita e nei graffiti. Nel quartiere Roma, una zona elegante della capitale, c’era un altare pieno di candele e cartelli che chiedevano giustizia per i 43 studenti. Su un muro di Obrera, una zona popolare, c’era scritto a lettere rosse: “Ayotzinapa: la colpa è dello stato”. Il quotidiano sportivo Récord è uscito con la prima pagina nera e il titolo: “#indignazione. Il Messico è stufo. Il Messico è in lutto”. Le voci più diverse, come quella di papa Francesco, del calciatore Javier Hernández Balcázar, noto come Chicharito, e del gruppo Calle 13 hanno espresso il loro sostegno alle famiglie degli studenti. Una domenica mattina centinaia di persone hanno organizzato una corsa spontanea di solidarietà lungo avenida Reforma: portavano tutti il pettorale con il numero 043.

Il 6 dicembre il laboratorio austriaco ha confermato che l’identità di uno dei frammenti ossei corrisponde ad Alexander Mora Venancio, 19 anni, uno degli studenti scomparsi. In una conferenza stampa Murillo Karam ha riassunto l’inchiesta del governo dicendo che erano stati arrestati ottanta sospetti tra cui Abarca, Pineda e più di quaranta poliziotti. “Questa prova scientifica conferma che i resti rinvenuti su una delle scene coincidono con le prove dell’inchiesta e con le dichiarazioni degli arrestati, nel senso che in tale luogo e secondo tali modalità il gruppo di persone è stato privato della vita”. Le parole del procuratore hanno confermato le peggiori paure di molti osservatori: il governo stava facendo il possibile per chiudere il caso. Gli antropologi forensi argentini che avevano lavorato con il governo hanno preso subito le distanze da Murillo Karam. In un comunicato stampa del 7 dicembre hanno scritto: “Per ora non ci sono sufficienti certezze scientifiche o prove materiali del fatto che i resti recuperati nel fiume San Juan corrispondano a quelli trovati nella discarica di Cocula, come indicato dalle persone che la procura generale ritiene responsabili”.

A più di quattro mesi dalla sparizione degli studenti, i genitori non hanno molte informazioni in più sui loro figli rispetto ai primi giorni dopo la scomparsa. Questo è quello che sappiamo: con l’aiuto di alcuni sicari la polizia ha ucciso tre persone, ne ha ferite più di venti e ne ha fatte sparire altre 43. Tre sicari, a volto coperto e in abiti civili, sono tornati sulla scena di uno degli attacchi, hanno ucciso due studenti e ne hanno feriti altri. Qualcuno ha ucciso e mutilato Julio César Mondragón Fontes. Qualcuno ha ucciso e bruciato Alexander Mora Venancio. L’esercito ha prelevato con la forza alcuni studenti feriti da una clinica privata, ma non ha fatto altro. Tutto quello che potrebbe essere successo agli studenti dopo che la polizia li ha prelevati si basa su voci e speculazioni o su confessioni poco affidabili. In risposta alla dichiarazione di Murillo Karam, i genitori hanno annunciato altre proteste. Durante una manifestazione a Città del Messico, Felipe de la Cruz, uno dei genitori, ha gridato alla folla: “Non ci siederemo a piangere, continueremo a lottare per ritrovare vivi gli altri quarantadue”. Ormai quella lotta non riguarda solo i figli scomparsi di Ayotzinapa, ma dà voce al desiderio profondo di strappare il Messico da quest’orrore.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

Questo articolo è stato pubblicato il 13 febbraio 2015 nel numero 1089 di Internazionale. Era apparso sul California Sunday Magazine.

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