27 agosto 2018 10:05

Una scala in pietra scende verso un ambiente buio, passo dopo passo c’è sempre più rumore. C’è una piccola porta e Daniele Uggetti mi invita a entrare: “Benvenuto nella mia miniera”. Le pareti sono ricoperte da pannelli per l’isolamento acustico, e qua e là compaiono scatoloni di schede video. Ci facciamo strada tra spazi bassi e stretti, mentre la temperatura sale. “Ecco i miei gioielli”, dice Uggetti. Sul parquet ci sono due computer per l’estrazione delle criptovalute, mentre un terzo è su un ripiano. Le luci al neon dei computer creano fasci di luce colorati. Per camminare bisogna fare lo slalom tra cavi e fili elettrici. Fa molto caldo, sembra di stare davanti al bocchettone di un riscaldamento e le parole vengono coperte da un’orchestra di ventole in funzione.

Daniele Uggetti è un tecnico informatico di 36 anni. Nel 2016 ha scoperto il mondo delle criptovalute e, dopo averlo studiato per un po’, ha comprato delle schede video e ha cominciato a sperimentare. Quindi ha aperto una piccola azienda insieme a due soci. “La crisi economica, la mancanza di lavoro e l’interesse per un sistema finanziario alternativo a quello tradizionale ci hanno convinto a comprare i macchinari”, spiega. “Crediamo che il mining di criptovalute abbia un potenziale enorme”.

La sua attività si svolge in un sotterraneo nella zona sudest di Milano, dove i computer lavorano giorno e notte per estrarre bitcoin e altre criptovalute.

Bitcoin e le altre
Il bitcoin è una criptomoneta creata nel 2009 da Satoshi Nakamoto, pseudonimo usato da una persona o un gruppo di ingegneri elettronici e cypherpunk, cioè attivisti che promuovono l’uso intensivo della crittografia informatica. Negli anni le ipotesi sull’identità di Sakamoto sono state tante, alcune molto suggestive, ma al momento sono più le smentite che i fatti.

In ogni caso, è con la firma di Nakamoto che nel 2008 compare per la prima volta su internet il progetto che parla di bitcoin e blockchain, il registro online dove sono annotati e convalidati i passaggi di moneta virtuale tra gli utenti. Questa rete è tenuta in piedi da Uggetti e dagli altri miners (minatori), che con i loro macchinari approvano le transazioni (mining) e sono ricompensati in bitcoin. All’inizio del 2013 un bitcoin valeva 15 dollari. A dicembre del 2017, 20mila. Il numero totale di bitcoin da estrarre è stato fissato da Nakamoto in 21 milioni, finora ne sono stati estratti 17 milioni.

Daniele Uggetti nella sua “miniera” di bitcoin, a Milano. A destra: nell’azienda Criptomining a Milano, giugno 2018. (Claudio Cerasoli per Internazionale)

Il potenziale di questa moneta virtuale è nella sua struttura peer-to-peer: lo scambio avviene direttamente tra le parti, senza dover pagare commissioni a intermediari. Secondo alcuni – come il fondatore di Netscape Marc Andreessen, che ci ha investito cinquanta milioni di dollari – siamo davanti a una rivoluzione finanziaria prima ancora che tecnologica. Una forma di democratizzazione della finanza internazionale in un contesto ancora segnato dalla crisi economica del 2008, l’evento che ha spinto Nakamoto a pubblicare il suo progetto. Altri sottolineano i rischi del sistema: l’anonimato favorisce le operazioni illegali, il carattere decentrato rende difficile la vigilanza.

I bitcoin non sono le uniche monete digitali. Nel gennaio del 2018 c’erano più di 1.400 criptovalute, per un valore di circa 740 miliardi di dollari. Quasi ognuna ha una sua blockchain. Milioni di persone hanno deciso di investire nel settore, convinte di poterci guadagnare. C’è anche chi se ne tiene alla larga, considerandola una bolla destinata presto a esplodere.

Per Uggetti non è solo una scommessa. “Il mio è un lavoro a tutti gli effetti”, dice. “Senza i miners, la blockchain non servirebbe a nulla. Sostituiamo il ruolo della banca, siamo l’organo fiduciario”, aggiunge. I suoi computer valgono migliaia di euro. Per ottenere nuove monete virtuali, devono risolvere complicati algoritmi, che richiedono una potenza di calcolo enorme. “Una volta, in dieci giorni, abbiamo estratto criptovalute per un valore di cinquemila euro. Erano BitTube, una moneta che è andata molto bene”, dice. “Grazie a risultati come questi, possiamo dire di essere già rientrati dall’investimento fatto in macchinari e di essere diventati più bravi nella scelta delle monete e dei tempi in cui estrarle”.

Uggetti è solo uno dei tanti miners italiani. “Nei gruppi su internet che frequento saremo diecimila”, dice, “e tra loro, almeno un 30 per cento estrae criptovalute”. Pagine come Hardcore miners Italia o Cryptalia, creata da Uggetti e dai suoi soci, raccolgono i messaggi di queste persone. C’è chi chiede spiegazioni su un crollo del valore di bitcoin e chi posta foto delle sue nuove ventole per i computer. C’è anche una persona che vuole avere informazioni su come estrarre bitcoin con lo smartphone.

Per molti, è un passatempo. Per altri, invece, l’estrazione di criptovalute è la risposta a problemi più urgenti.

La crisi
Uggetti lavorava per alcune aziende di moda. Guadagnava bene, ma era insoddisfatto. “Superati i trent’anni, mi sono reso conto di non voler passare il resto della vita chiuso in ufficio, senza alcuna prospettiva di crescita professionale”, spiega. “Dopo che ti senti dire dai tuoi superiori che non devi pensare, ma eseguire in silenzio, capisci che quel mondo non fa per te”. Oggi sta lasciando il suo lavoro e si dedica a tempo pieno alla nuova attività.

Il mondo delle criptovalute, in certi casi, sta diventando una via di fuga dal precariato. In Corea del Sud il tasso di disoccupazione giovanile ha raggiunto il 10 per cento e la metà dei giovani nati negli anni ottanta non crede di poter stare meglio dei propri genitori. Le monete virtuali sono diventate l’ancora di salvataggio, o almeno un miraggio. Il won, la valuta coreana, è la terza moneta più scambiata con bitcoin. Anche in Uganda si registra un trend simile. Il tasso di povertà nazionale ha superato il 20 per cento, e i giovani di Kampala fanno sempre più fatica a trovare lavoro. Investire i pochi risparmi in criptovalute diventa una forma di resistenza economica.

All’interno di Criptomining a Milano, giugno 2018. (Claudio Cerasoli per Internazionale)

Negli Stati Uniti, invece, un crescente numero di studenti ha cominciato a estrarre nei campus universitari, approfittando del fatto di non dover pagare l’elettricità consumata. L’obiettivo è mettere qualche soldo da parte. In Venezuela, centinaia di ragazzi estraggono monete digitali nei loro scantinati.

In Italia la situazione è diversa. Il tasso di disoccupazione giovanile supera il 30 per cento, ma fare mining è complicato. L’Italia è il paese con la bolletta dell’elettricità più cara in Europa. E questo fa abbassare i profitti realizzati con l’estrazione. I macchinari, accesi ventiquattr’ore su ventiquattro, consumano moltissima energia, scoraggiando chi vorrebbe lanciarsi nell’attività. Qualcosa, però, sta cambiando. “Fino a qualche mese fa in pochi sapevano cosa fossero i bitcoin”, spiega Uggetti, “oggi invece si comincia a parlare di mining industriale e l’attenzione delle istituzioni sta crescendo”.

Le prime aziende
Nel marzo scorso, Gabriele Stampa e i suoi colleghi sono stati invitati alla camera dei deputati a Roma per la prima audizione tenuta al parlamento sul “mining farm come esempio di sviluppo industriale”. Stampa ha 42 anni ed è il fondatore della Bitminer Factory. L’azienda si trova a Calenzano, in Toscana, dove produce macchine per il mining ed estrae criptovalute.

È una delle realtà più strutturate, ma ce ne sono altre in Italia. Nel febbraio scorso è nata la Criptomining, nel cuore di Milano. Lo spazio è a poche centinaia di metri dal Duomo, in una traversa di via Torino. Un palazzo di dieci piani svetta tra case colorate, ma non è in alto che bisogna guardare. L’azienda si trova al terzo piano sottoterra, così riesce a sfruttare le temperature basse per non far surriscaldare troppo le macchine. Uscendo dall’ascensore si sente già il rumore dei rig, i macchinari per il mining. File di schede video occupano alti scaffali, un gioco di luci al neon contribuisce a creare un’atmosfera surreale.

Il mining richiede più energia di quella consumata in un anno da paesi come Austria e Croazia

Elio Viola, 31 anni, avvocato e fondatore dell’azienda, comincia a raccontare la sua storia: “Fino a qualche anno fa vivevo a Perugia, dove facevo il praticantato in procura, ma mi sono stancato presto. La gavetta richiesta è sempre più lunga, gli anni per ottenere una certa stabilità professionale aumentano. Per questo mi sono detto che non ne valeva la pena, che volevo cominciare a fare qualcosa per me”.

Viola si è trasferito a Milano e nel 2017 ha deciso di scommettere sulle criptovalute, insieme a Matteo Moretti, 38 anni, broker.

“Abbiamo cominciato facendo trading, ma l’alta volatilità del mercato ci ha convinti a lasciar perdere e a concentrarci sull’estrazione”, spiega Moretti. Insieme a Viola ha investito 60mila euro per comprare i primi macchinari e poi, la scorsa primavera, ha raccolto altri centomila euro con un equity crowdfunding, una raccolta di fondi online che permette agli investitori di diventare azionisti. Con questi soldi, i due hanno comprato altri computer e assunto una persona.

“Estraiamo più o meno un bitcoin al mese (circa 5mila euro, al valore di agosto 2018, ndr). In dieci giorni riusciamo a coprire le spese per l’energia elettrica e l’affitto”. Mentre parliamo, un enorme condizionatore diffonde aria fredda, e decine di ventilatori rinfrescano gli scaffali su cui poggiano i rig. La temperatura supera comunque i trenta gradi. “Solo per il raffreddamento delle macchine abbiamo speso 12mila euro”, dice Moretti. Una telefonata lo interrompe, è un’azienda energetica che vuole saperne di più sulla Criptomining. “Ci cercano di continuo”, spiega Viola, “consumiamo molta elettricità, siamo i clienti ideali per chi la fornisce”.

Elio Viola, uno dei fondatori di Criptomining, Milano, giugno 2018. (Claudio Cerasoli per Internazionale)

La Criptomining è riuscita a strappare un contratto vantaggioso, che le permette di estrarre a costi simili a quelli dell’Europa dell’est, dove le bollette elettriche sono meno care e il costo del lavoro è più basso. La spesa maggiore è l’affitto. “Una struttura come questa, in pieno centro, costa molto”, dice Viola. “Milano è il centro della finanza, la forma qui conta molto. Lavorare a due passi dal Duomo è anche una scelta di marketing”. A breve la Criptomining aprirà una seconda miniera, sempre a Milano. Gli affari vanno bene, l’interesse degli investitori è alto.

Tuttavia, per abbattere le spese per affitto e bollette – oltre che per evitare i costi e i ritardi della burocrazia – molti scelgono un’altra strada.

Italiani all’estero
Da gennaio scorso a Chiasso, cittadina svizzera al confine con l’Italia, è possibile pagare parte delle tasse comunali in bitcoin. Mentre negli ultimi mesi sono stati organizzati più di venti crowdfunding per raccogliere soldi e investirli in progetti che hanno al centro le criptovalute. A sostenere queste iniziative è l’associazione Cryptopolis. La presidente, Ramona Gallo, è italiana, come italiane sono gran parte delle startup che stanno nascendo oltreconfine. Ecco perchè qualcuno ha già ribattezzato il Canton Ticino “l’eldorado delle startup italiane di blockchain”.

Tiago Lopes Antunes, trent’anni, ha comprato i primi bitcoin nel 2013. Poi, nel 2016, ha cominciato a estrarli. “Da subito mi è sembrata un’opportunità rivoluzionaria e mi ci sono buttato”, spiega. “Estrarre vuol dire appropriarsi del più grande potere che esista, creare moneta. Se fino a poco tempo fa era una prerogativa dei governi, delle banche e dei falsari, oggi è anche nelle nostre mani”.

Dopo i primi tempi passati a lavorare in uno scantinato, insieme a un amico fonda la Insert Coin. Il basso costo dell’elettricità li ha portati a Faido, nel nord del Ticino. Oggi l’azienda estrae perlopiù zcash, ethereum classic e bitcoin. Inoltre, permette a chi lo vuole di fare cloud mining, cioè investire sui suoi computer per guadagnare parte dei bitcoin estratti. Gli affari vanno bene.

Lopes Antunes non ha ancora abbandonato del tutto la sua professione di infermiere psichiatrico, ma dice che presto le cose potrebbero cambiare: “Lavoro in ospedale con un orario ridotto e l’obiettivo è di dedicarmi al mining a tempo pieno. La fase in cui lo facevo come passatempo è finita, ed è stata relativamente breve. Ora le cose vanno bene e ci auguriamo di poter crescere ancora”.

Gianluca Mazza, 29 anni, ha invece scelto la Bulgaria per la sua attività. Nel 2016 ha comprato il suo primo rig, lavorando nella cantina di casa. Estraeva bitcoin, con cui riusciva a pagarsi le vacanze. “Ho cominciato a dormire sempre meno, pensavo continuamente a come far crescere l’attività“. La risposta, ancora una volta, stava nell’elettricità. “Mi sono reso conto che se avessi ottenuto energia a bassissimo costo, avrei moltiplicato i guadagni”. In Italia non era possibile, e perciò va a Sofia, dove nel 2017 fonda la 0301 insieme a Stefano Reboldi, 28 anni, e Alekos Filini, 19. Oggi l’azienda ha un migliaio di schede video, operative ventiquattr’ore su ventiquattro. Entro questo autunno Mazza e i suoi soci dicono che dovrebbero rientrare dell’investimento iniziale. A quel punto comincerà il profitto vero e proprio, lo stesso che decine di altri minatori italiani stanno facendo in Moldavia o in Romania, dove sono andati ad aprire aziende perché i costi sono più bassi.

Le speranze e i problemi
Nonostante il richiamo sia forte, Daniele Uggetti non ha mai pensato di trasferirsi. Spera che in Italia nasca un mercato trasparente e regolamentato, che permetta ai miners di lavorare e guadagnare. Ha scelto di restare a Milano per dare un contributo. “Tanto di cappello a chi ha il coraggio di andarsene, ma io voglio che sia possibile lavorare in questo settore anche in Italia”, spiega. “Quella delle criptovalute può essere una rivoluzione, anche per l’occupazione”.

Parlando con i miners, si sente ripetere spesso quest’ultima frase. Tutti pensano che se le istituzioni, invece di trattare questo settore con diffidenza, ci credessero – prevedendo incentivi e un quadro normativo semplice e trasparente – si creerebbero migliaia di posti di lavoro. In Italia ci sono molte incertezze al livello legislativo. Uno dei pochi punti di riferimento è la risoluzione 72 del 2016, che assimila le criptovalute alle valute estere e le tassa allo stesso modo. “Questo vuoto normativo ci danneggia, non è chiaro nemmeno ai professionisti come pagare le tasse sulle nostre attività e siamo costretti a vivere in un limbo”, dice Uggetti. “Riconoscere pienamente il nostro lavoro, significa puntare su un settore che può creare anche occupazione”.

Nell’azienda Criptomining a Milano, giugno 2018. (Claudio Cerasoli per Internazionale )

Allo stesso tempo, però, bisogna tenere conto dei problemi. Nel 2018 l’energia utilizzata per l’estrazione dei bitcoin sarà pari allo 0,6 per cento del consumo mondiale. Il mining richiede un’energia superiore a quella che in un anno è consumata da paesi come Austria e Croazia, e per estrarre un solo bitcoin c’è bisogno di più corrente di quella utilizzata da una famiglia media statunitense in due anni. La crescita delle attività dei miners potrebbe essere rischiosa per l’ambiente, per quanto si stiano moltiplicando le esperienze di ecomining, vale a dire l’estrazione di criptovalute usando fonti di energia rinnovabili.

Inoltre, il mercato delle criptomonete è ancora troppo instabile e facile da manipolare. John Griffin, docente della University of Texas, ha scritto che a far aumentare il valore dei bitcoin nella seconda metà del 2017 è stata una manipolazione. Nel 2013, il valore della moneta digitale è passato da 150 dollari a mille, ma potrebbe essere stato determinato da finte transazioni fatte da software.

Le oscillazioni della moneta virtuale si portano dietro conseguenze reali. Una pensionata di Las Vegas ha comprato bitcoin prima del picco di dicembre 2017, realizzando un guadagno del 45 per cento. Uno studente norvegese nel 2009 ha speso 24 dollari per l’acquisto di bitcoin e l’inverno scorso si è ritrovato con 700mila dollari. In mezzo a queste storie positive, ce ne sono altre meno incoraggianti. In Corea del Sud gli psicologi hanno registrato un aumento di pazienti che avevano perso tutto a causa di investimenti sbagliati nel settore e il primo ministro ha detto che le criptomonete rischiano di provocare “gravi distorsioni o fenomeni sociali patologici tra la popolazione giovane”. La Korea Biomedical Review ha coniato un termine per descrivere un nuovo tipo di depressione: bitcoin blues.

La rivoluzione deve ancora cominciare
Sullo schermo a cui sono collegati i computer di Daniele Uggetti, scorrono file di algoritmi in lavorazione. Su un’altra finestra compaiono diversi grafici sulle prestazioni e il valore delle criptomonete. Le linee salgono e scendono, i dati cambiano in continuazione. Bitcoin sta vivendo un momento buio. Qualcuno dice che il miracolo è già finito, altri che il bello deve ancora venire.

Questa volatilità Uggetti la conosce bene. Una notte ha investito 90 dollari in una criptovaluta che sembrava promettere bene. In poche ore avrebbe potuto guadagnarne 1.300, ma poi il valore è crollato e Uggetti ha perso 50 dollari. Ogni moneta virtuale ha però una sua storia: “È questo il bello, per una che scende ce ne sono altre che salgono”. È per questo che quando lo incontro continua a estrarre, soprattutto ethereum classic e qualche altra moneta che preferisce non rivelare.

“Se le cose dovessero andare male con i bitcoin, troveremo sempre delle nuove criptomonete da estrarre”, dice. “L’unica certezza, è che non spegneremo mai le macchine. La rivoluzione delle criptovalute deve ancora cominciare”.

Da sapere

  • Bitcoin è una criptovaluta creata nel 2009 da una persona (o da un gruppo di persone) nota con lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto.
  • I bitcoin sono generati da computer collegati in rete che eseguono complesse operazioni matematiche. La procedura è nota con il nome di mining.
  • Il numero totale di bitcoin che possono essere generati è limitato a circa 21 milioni. I bitcoin (o loro frazioni) possono essere comprati o venduti in cambio di monete tradizionali e possono essere trasferiti attraverso internet da un utente a un altro.
  • Tutte le transazioni sono registrate in un libro mastro digitale amministrato collettivamente, con un sistema chiamato blockchain. The Economist

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Abbonati per ricevere Internazionale
ogni settimana a casa tua.

Abbonati