30 giugno 2023 12:17

Questo articolo è stato pubblicato il 30 luglio 2021 nel numero 1420-1421-1422 di Internazionale. Il 23 giugno 2023 ha vinto il True story award, un premio internazionale dedicato al giornalismo d’inchiesta e di reportage.

Tutti a parlare delle uova di Aleksej. Grande avvenimento in paese le uova di Aleksej Aleksandrovič Koriapov. E lui infatti si muove tra le gabbie come un galletto, il ciuffo biondo è diventato una cresta. In un attimo si è trasformato rispetto all’uomo schivo che avevo conosciuto nell’atrio del capannone, un fabbricato ricavato dal rudere di un compound della guardia costiera sovietica. Si coccola le sue 1.500 galline, assesta dei colpetti affettuosi qua e là sui becchi che sporgono: “Guarda come litigano per il cibo le signorine. E smettila tu!”. Racconta che sono arrivate nel settembre del 2019 che erano pulcini, trasportati in nave da Vladivostok passando dallo stretto di Bering.

Prima – prima della geniale startup di Aleksej – qui a Pevek, dove lo stipendio medio è l’equivalente di circa 165 euro al mese, le uova costavano 600 rubli la dozzina, quasi sette euro; più care del caviale, che è ricavato da pesci locali, soprattutto del fiume Kolyma, nell’omonimo distretto dei gulag staliniani. Le uova arrivavano dalla Russia interna, dalla regione dell’Amur con i voli cargo una volta al mese, o via mar glaciale Artico. Ora costano meno della metà. Aleksej, 37 anni, mostra commozione: “Le mamme mi abbracciano, dicono che finalmente possono preparare ai figli una colazione come si deve. Alla scuola, all’ospedale e alla casa di riposo le vendiamo a un prezzo simbolico. Le mie uova sono un segnale di speranza, le cose si stanno muovendo alla grande”, dice.

Nell’allevamento ci sono 21 gradi, l’odore acre di pollina e mangime è asfissiante, i cavi elettrici penzolano come festoni, imbrattati di ragnatele e piume bianche. Fuori la temperatura è di 35 gradi sottozero, il chiarore perlaceo del mezzogiorno invernale sta già svanendo nella piatta tundra ghiacciata, inghiottito dalla notte polare. Aleksej racconta che lui e suo cugino Viktor erano disoccupati, erano tra quelli che non potevano permettersi le uova, per capirci. Ma anche senza un conto in banca hanno potuto accedere a fondi a tasso zero, grazie al nuovo programma federale di sviluppo dell’estremo oriente approvato dal governo russo due anni fa, dice, e indica, per chiarezza e devozione, la foto del presidente Vladimir Putin appesa con un chiodo in una crepa del cemento armato. “Ci allargheremo, puntiamo ad avere cinquemila galline in tre anni. Qui arriverà molta gente”, annuncia con una certa solennità.

Il 14 settembre 2019 a Pevek sarà ricordato per due eventi straordinari, entrambi simbolici della trasformazione in atto in questa cittadina portuale fondata nel 1967, il comune più a nord della Russia: l’arrivo dei pulcini di Aleksej e quello dell’Akademik Lomonosov, la prima centrale atomica galleggiante al mondo. È stata trainata da Murmansk per seimila chilometri e ancorata a Pevek per alimentare l’ossessione artica di Putin e la corsa all’oro nella Čukotka, estremo lembo del nordest siberiano che affaccia sullo stretto di Bering ed è quindi sottoposto al regime speciale di area di confine. A separarla dall’Alaska, infatti, ci sono solo tre miglia marine, quelle che intercorrono tra l’isola Piccola Diomede, statunitense, abitata da un centinaio di inuit, e la Grande Diomede, occupata da un’installazione militare russa.

Arrivare in questa regione-bunker è molto difficile per chi non vi risiede, è un’impresa per i giornalisti russi ed è quasi impossibile per quelli stranieri. Dopo un anno di scartoffie digitali, rimbalzati dal ministero degli esteri al governo locale di Anadyr, dall’Fsb (il servizio federale russo per la sicurezza) alle autorità per la sicurezza della “frontiera”, abbiamo probabilmente beneficiato di una rara smagliatura nel blindato sistema di controllo russo e ci siamo trovati – sgraditi ospiti – in questo luogo tra i più disabitati, freddi, misteriosi e protetti del mondo. E siamo arrivati nel momento più sbagliato: testimoni oculari della presenza di quella che Greenpeace ha definito la “Černobyl dei ghiacci”. Ma Aleksej è certo che le due “imprese” sono strettamente legate: “Come l’uovo e la gallina, la centrale porta progresso, nuovo lavoro, nuove famiglie. E chi non vorrà un bell’uovo fresco la mattina?”.

Puškin in sidecar
Quando visitiamo la scuola di Pevek è l’ora della ricreazione. Arriviamo da 40 gradi sottozero perché soffia un vento ghiacciato da nord, ma dentro è caldo e profuma di pino. Nell’ingresso una montagna di tute termiche. Ci sono le medie e le superiori, 512 studenti. L’atmosfera è spensierata ma composta, non una voce che stoni nel brusio dei corridoi; poche sneaker, zero cellulari. Passano a uno a uno in fila dalle signore già indaffarate nella grande cucina moderna, che odora di cose buone in pentola per il pranzo (minestra di halibut e rape): prelevano la merenda e poi si muovono a gruppetti, i ragazzi per lo più separati dalle ragazze, come succede tra adolescenti.

La preside, Elena Stepanova, insegna letteratura russa, ha circa cinquant’anni, grandi occhi verdi e un volto ovale incorniciato in un caschetto castano. Il suo ufficio è abbellito da fiori di seta e dalle sculture e dai quadri degli studenti. Lei non appare in nessuna foto, è discreta, non parla mai di sé, eppure si percepisce il suo potere: dicono che sia la persona più autorevole e rispettata in città. Non tanto perché gestisce l’edificio più bello – ci vuole poco nella desolazione generale – ma perché rappresenta l’istituzione che tutti considerano “l’anima e il cuore di Pevek”, il luogo dove i ragazzi vivono, praticamente tutto l’anno, lontani dall’alcol e dal degrado familiare: un rifugio e un’oasi. C’è la foto di Putin, ma anche quella del magnate del petrolio Roman Abramovič, il quale, oltre a essere il proprietario della squadra di calcio inglese del Chelsea, è stato governatore della Čukotka: fu il suo amico del Cremlino ad assegnargli questa provincia dell’impero. Ed è lui – “di tasca sua”, come dice Stepanova – che ha pagato per la nuova scuola nel 2005.

Ogni aula ha colori diversi, che ricordano l’esplosione della tundra estiva

I corridoi dei tre piani sono affrescati nei toni pastello e rappresentano i grandi uomini della cultura russa in situazioni tutt’altro che oleografiche, ma piuttosto surreali: Puškin, per esempio, si diverte come un matto alla guida di un sidecar. Anche la Čukotka è raccontata fuori dagli stereotipi, le immagini sono ispirate dalle parole di poeti e scrittori, come il grande Jurij Rytcheu, figlio di uno sciamano, cresciuto in una tribù ciukcia e diventato una delle voci più potenti della letteratura sovietica, salvo poi essere cestinato dal nuovo corso putiniano: Stepanova ne parla con passione, ma quasi sottovoce, come fosse un amore segreto. Racconta che è stato Abramovič a rompere il tabù, finanziando la ripubblicazione del suo romanzo preferito, Skitanija Anny Odintsovoj (I vagabondaggi di Anna Odintsova), ma solo per le scuole della Čukotka.

Ogni aula ha colori diversi, che ricordano l’esplosione della tundra estiva, ed è assegnata a una sola materia: sono i ragazzi a muoversi al cambio dell’ora. Le lavagne sono luminose e multifunzione, i laboratori di tecnica industriale e informatica, già attrezzatissimi, stanno per essere aggiornati, come si vede dagli imballaggi che attendono d’essere aperti. La preside racconta la sua creatura, come fosse la cosa più preziosa della Russia, come l’Hermitage o il Bolšoi. Eppure siamo a Pevek, in Čukotka, ai confini del mondo, la regione più disabitata dopo l’Antartide e il Sahara; dove s’è schiantata più rovinosamente la valanga della crisi economica seguita al crollo dell’Unione Sovietica negli anni novanta, e la popolazione è passata dai 148mila abitanti del 1991 ai circa cinquantamila di oggi.

“Fino al 1989 eravamo quasi quindicimila. C’erano tre scuole e due grandi collegi per i ragazzi nativi dei villaggi ciukci. Pevek vantava una comunità di scienziati che neanche all’università Statale di Mosca, c’erano quelli che venivano per le esplorazioni minerarie e quelli rimasti dopo la chiusura dei gulag e che poi hanno messo su famiglia, come mio nonno. Negli anni novanta abbiamo patito la fame, non c’era il latte, mangiavamo bucce di patata, le candele erano un lusso”. Ma ora, assicura, anche se la popolazione non raggiunge i cinquemila abitanti “è tornata l’adrenalina. Arrivano giovani geologi e ingegneri con le famiglie. Grazie a un nuovo satellite lanciato apposta per coprire la Siberia orientale abbiamo internet, si costruiscono strade. Stiamo diventando il simbolo dello sviluppo artico, Pevek sarà uno dei principali porti della nuova via polare, la scorciatoia della globalizzazione. È la sfida moderna nel grande nord, come al tempo dei pionieri sovietici. Siamo protagonisti, non più i reietti dell’umanità”.

Poi dal corridoio si sente suonare un pianoforte. Siamo al secondo piano, sul lato che dà sul porto e la baia del Čaun, sulla banchisa. Chiediamo di dare un’occhiata, Stepanova risponde che stanno facendo le prove nella sala della danza, forse non è il momento. Ma dopo un attimo d’incertezza e nervosismo apre con discrezione la grande porta di quercia e ci fa guardare. Le cinque ragazze non interrompono i passi sulle note del Prometeo di Aleksandr Scriabin. Qui quello che avevamo già visto dalle finestre delle aule del terzo piano, e cioè l’esplosione di luci dell’Akademik Lomonosov riverberate dal ghiaccio, fa ancora più impressione, perché le vetrate sono ampie e la centrale atomica appare come un transatlantico che attraversa le tenebre e punta diritto sulla scuola.

È lì a cinquecento metri, imprigionata nella banchisa spessa tre metri, ma sembra di poterla toccare. Le ballerine non ci fanno caso, come fosse parte della coreografia. Incrociamo lo sguardo della preside, già da molto ha capito cosa ci ha portato qui e cosa vogliamo sapere da lei. “Dicono che sia sicura, perché non dovremmo fidarci? Ci hanno anche invitato a bordo, hanno spiegato ai ragazzi come funziona, hanno risposto a ogni domanda, mostrato la palestra e la piscina. Cosa potevo fare? Ormai è andata così. Ma tornate, ne parleremo con calma”.

Minacce imprevedibili
A Pevek si arriva solo con l’aereo (meteo permettendo un volo alla settimana da Mosca, con scalo a Jakutsk). Apparentemente nessuno può sfuggire ai controlli. Al piccolo aeroporto siamo sottoposti a un lungo interrogatorio da sei guardie di frontiera, che qui sono agenti dell’Fsb. I permessi sono a posto, tuttavia prendono nota dei nomi dei parenti, delle proprietà, degli spostamenti degli ultimi mesi. Interrogano anche la persona che ci ospiterà, Igor Ranav, un piccolo imprenditore di etnia ciukcia, uno dei riferimenti dei nativi nella regione e attivista noto per le sue denunce di brogli elettorali e le polemiche con il governo del capoluogo Anadyr.

Nei giorni successivi, approfittando della mezz’ora circa di chiarore, facciamo varie riprese aeree con un drone su Pevek, senza permesso e senza conseguenze. Per quattro volte sorvoliamo la centrale da più lati, fino ad arrivare a poche decine di metri da quell’inquietante chiatta dalle linee squadrate dipinta con i colori della bandiera russa. Non succede nulla. Possibile che nessuno intercetti un drone, nonostante l’Akademik Lomonosov sia presidiata sull’intero lato est del porto da una “fortezza” armata dedicata solo alla sicurezza e sia dotata di sofisticati radar? Qual è il livello di protezione e capacità d’intervento in caso di atto ostile o d’incidente?

Uno dei due bar di Pevek. (Jack Eatwood, Arctic Times Project)

Stiamo parlando dell’undicesima centrale atomica russa, la più a nord del mondo e la prima unità nucleare mobile mai entrata in attività: una piattaforma di 21.500 tonnellate, lunga 140 metri, larga trenta, dotata di due reattori Klt-40c a uranio a basso arricchimento capaci di generare 70 megawatt e di rifornire di energia elettrica e calore una città di centomila abitanti ininterrottamente per quarant’anni. L’idea del nucleare prêt-à-porter circola fin dagli anni sessanta, anche gli Stati Uniti considerarono a lungo l’ipotesi. Ma fu scartata, pure dai russi, per ragioni economiche e di sicurezza. La Rosatom, la compagnia atomica statale russa, su esplicita richiesta di Putin ha rotto gli indugi, investito dieci anni di lavoro nei cantieri di San Pietroburgo e circa 450 milioni di euro di fondi statali (comunque dieci volte meno del costo di una centrale nucleare tradizionale).

Questa classe di reattori è ritenuta da Mosca l’unica soluzione per portare energia nelle aree più remote dell’Artico russo, in modo da consentire lo sfruttamento dei minerali e dei combustibili fossili, ma anche per agevolare la nascita di nuovi centri abitati. Si sta costruendo una flottiglia da ancorare nei porti lungo la rotta del mare del Nord, il vecchio passaggio a nordest. Il Cremlino e la Rosatom hanno annunciato che nella sola Čukotka entreranno in funzione altre cinque centrali (due entro il 2024), per un costo stimato di 2,25 miliardi di dollari.

Jan Haverkamp, esperto nucleare di Greenpeace, è l’ultimo a lanciare l’allarme: “Non è un sommergibile o un rompighiaccio, questa è una chiatta che non ha possibilità di manovra”, dice. “Se si rompe l’ormeggio o un iceberg si avvicina, che succede? L’Artico si riscalda il triplo rispetto al resto del mondo, lo scioglimento dei ghiacci crea condizioni inedite, è un oceano sempre più pericoloso. E, anche se la Rosatom dice di aver calcolato anche quello, cosa succederebbe davvero in caso di tsunami? I russi hanno una lunga esperienza nel nucleare, ma anche una lunga storia di disastri. Sappiamo quanto è difficile affrontare incidenti nucleari sulla terraferma, figuriamoci in mare e in zone così remote”. La radioattività della Akademik Lomonosov è 25 volte inferiore a quella della centrale di Černobyl, ma le conseguenze di un incidente sarebbero ingigantite dai venti artici e dalle correnti marine: “Sarebbe la fine per l’ecosistema più fragile del mondo”.

Le finestre dell’appartamento di Valentin Poskotinov, geologo di 65 anni, danno su via Čemodanova, la strada, o pista, che attraversa Pevek, parallela alla banchisa. La statua di Lenin è illuminata dalla luce gialla di un lampione; ricoperta di ghiaccio e neve, è riconoscibile dalla classica posa e la mano aperta sembra indicare proprio la finestra che Poskotinov tiene socchiusa per poter fumare: gli basta esporre un attimo il viso e i peli del naso e delle folte sopracciglia sono subito bianchi. Poskotinov ripete la stessa domanda tra una boccata e l’altra: “In quale altro posto al mondo trovi una centrale nucleare a cinquecento metri da una scuola piena di bambini? L’ho chiesto la prima volta al signor Ivanov della Rosatom la sera che hanno illustrato il progetto alla popolazione, al teatro Zal Aisberg. Dicevano che l’avrebbero realizzato solo se fosse stato approvato dagli abitanti, e intanto gettavano cemento per costruire il molo dove ormeggiare la centrale. Ma il signor Ivanov non ha risposto alla mia domanda”.

C’era anche il nostro ospite Igor Ranav quella sera al Zal Aisberg. Era uno dei pochi ciukci presenti, ed era favorevole all’arrivo della piattaforma: “Pensavo che qualsiasi novità fosse meglio del nulla, per la mia gente non poteva andare peggio di così”. Secondo lui i cittadini sono stati messi davanti a una scelta capestro: accettare l’energia pulita della centrale atomica ormeggiata nel porto oppure continuare a respirare per altri 75 anni il carbone della Čaunskaya Hpp, il vecchio impianto che sorge al centro di Pevek; cavalcare l’elettrizzante sfida del cambiamento e del progresso oppure vivere in compagnia di quel pennacchio nero strapazzato dal vento che imbratta la neve, i polmoni e le speranze. Basta salire sulla collina per cogliere, in un attimo fuggente di luce opalina, la sintesi di tutto: sotto vedi un groviglio di rottami fumanti nel mezzo di un paesaggio di rovine di cemento marcio su cui volteggiano corvi giganteschi; poco più in là un’astronave sfavillante nel ghiaccio, che dà un sinistro senso di pulito; e oltre, nell’orizzonte dell’oceano Artico, segnato da una nebbia violetta, ti sembra d’incrociare lo sguardo del polo Nord.

La Rosatom aveva promesso che la preistorica centrale, detta la “stufa arrugginita”, sarebbe stata spenta subito, perché l’Akademik Lomonosov, “orgoglio russo nel mondo” la definì il direttore Vitalij Trutnev, era lì soprattutto per portare elettricità e calore alla gente e per sostituire i consunti reattori nucleari di Bilibino, a 240 chilometri di distanza nella tundra interna. In realtà l’impianto a carbone continuerà a funzionare insieme a quello atomico almeno fino al 2025.

“Le priorità sono altre”, dice Valentin. È nato a San Pietroburgo, appartiene a quella generazione di giovani laureati-pionieri che negli anni settanta e ottanta partivano con spirito patriottico all’avventura nel grande nord, per esplorare le ricchezze oltre gli Urali, nel selvaggio nordest, ancora non sfruttate con i lavori forzati dei prigionieri politici impiegati su scala industriale fino agli anni sessanta. “Sono uno di quelli che si sono fermati”, dice. “Per nostalgia di quella giovinezza, ma anche perché ero ormai ostaggio della natura. La febbre bianca, la chiamo io”.

Ovviamente finiamo per parlare di Roman Abramovič, l’oligarca che dal 2000 al 2008 fu governatore della Čukotka, tornato improvvisamente di grande attualità a Pevek, ma anche nei villaggi della comunità indigena. E non per la vittoria del suo Chelsea in Champions league. C’erano dei legami sentimentali con il grande nord, i nonni erano stati internati nei gulag. Ma si trattò soprattutto d’una questione, o affare, tra due amici: il magnate del petrolio che aveva investito più di ogni altro nell’ex agente del Kgb Vladimir Putin veniva ricompensato dal nuovo zar con l’assegnazione della remota provincia artica. Allora in pochissimi capirono, perché la Čukotka era la regione più miserabile della Russia.

Per riempire le casse del governo Abramovič trasferì tre filiali del colosso petrolifero Sibneft ad Anadyr: con le sue tasse contribuì all’80 per cento del bilancio della regione autonoma. I benefici furono immediati. Più che mai evidenti a Pevek, dove, oltre alla scuola, all’ospedale, al nuovo municipio, negli anni duemila furono costruiti diversi palazzi, popolari e residenziali, che rendono ancora più spettrali i vecchi complessi sovietici abbandonati negli anni novanta, diventati tane per i branchi di cani randagi. Anche la popolazione nativa, i 14mila ciukci, mandriani di renne confinati nei villaggi dispersi nella tundra, furono in parte risollevati dal fondo della bottiglia in cui stavano annegando la loro disperazione: nel 2000 l’aspettativa media di vita tra i nativi era di 34 anni, nel 2010 era salita a 38.

L’Alaska apparteneva all’impero zarista, poi fu svenduta agli Stati Uniti

“In realtà Abramovič pagava le tasse a se stesso”, dice Valentin. “E comprava per due rubli dal governo, cioè da se stesso, enormi territori dove le mappe tracciate dai geologi sovietici come me indicavano la presenza di ricchezze. Qui ci sono i più grandi giacimenti di rame e oro del pianeta”. E ora sono nelle mani di Abramovič. Come quello di Baimsky, dove sono state stimate riserve di rame per 9,5 milioni di tonnellate e quasi cinquecento tonnellate d’oro. Soprattutto i giacimenti di Pešanka, nel distretto di Bilibino, dove si andranno a estrarre 23 milioni di tonnellate di rame e oltre duemila tonnellate d’oro. In entrambi i siti il magnate opera con la Kaz Minerals, la principale società per lo sfruttamento del rame del Kazakistan, ma con sede a Londra. “Li abbiamo scoperti tutti noi, eravamo ragazzi pieni d’ideali, vivevamo per mesi nella tundra nutrendoci di bacche e lepri. Abbiamo mappato anche altri depositi d’oro, rame, platino, argento, tungsteno, che ora cominciano a essere sfruttati, come il sito di Majskoe e quello di Kupol”, dice Poskotinov. “Il distretto di Bilibino è un nuovo Klondike e ha bisogno di tanta energia per generare ricchezza vera”.

Per questo Abramovič in realtà non ha mai lasciato la Čukotka. Per questo l’Akademik Lomonosov è arrivata a Pevek e il porto sta subendo giganteschi lavori d’ampliamento, con investimenti del Kazakistan e della Cina. Diventerà uno degli scali strategici della rotta del Nord, che i cinesi chiamano la via della seta polare. Dopo il recente blocco del canale di Suez e l’impennata del prezzo delle materie prime causata dalla pandemia, Putin ha messo fretta alla Rosatom, a cui è affidato lo sviluppo dei seimila chilometri di rotta artica. Il passaggio è sempre più agibile con lo scioglimento dei ghiacci, ma anche grazie alle portacontainer a propulsione nucleare in grado di navigare tutto l’anno senza bisogno di rompighiaccio: dagli attuali 40 milioni di tonnellate di merci transitate da e per l’Asia – in gran parte gas naturale liquido dai giacimenti russi di Jamal – il Cremlino punta ad arrivare a 80 milioni entro il 2026. A Pevek dal 2018 l’aumento è stato di centomila tonnellate all’anno. “L’oro e il rame di Abramovič finiranno in Cina”, dice Poskotinov. “Il 60 per cento del rame mondiale è consumato in Cina. Perché dovrebbero andare a prenderlo in Cile, Perù o Australia se possono averlo dalla Čukotka? Basta superare lo stretto di Bering e fai il pieno”.

Nasi gemelli
L’Akademik Lomonosov, con le sue luci bianche accecanti, si vede anche dall’appartamento di Igor Ranav, che dista dalla scuola un centinaio di metri. Quella presenza non fa che eccitare la sua propensione alle idee grandiose, lo porta a fantasticare che la regione presto cesserà di essere soggetta a un regime di sorveglianza “peggiore che nell’epoca sovietica”. Per esempio pensa di poter realizzare il sogno di comprare un Cessna e avviare un servizio aereo-taxi per Anadyr o Bilibino, o di costruire una serra per le verdure. Come tutti i ciukci, era un mandriano di renne nella tundra; ma il suo talento per gli affari, dall’edilizia ai servizi funebri fino al mercato dei ferrivecchi, l’ha emancipato dalla miseria e lo ha reso un uomo ricco per i canoni della sua gente.

L’Akademik Lomonosov sull’orizzonte di Pevek. (Jack Eatwood, Arctic Times Project)

È stato un paio di volte dall’altra parte dello stretto, in Alaska, ed è quella la sua idea di mondo civile. Dice che “sono due pianeti diversi”. Fino a 13mila anni fa lo stretto si attraversava a piedi, e il paesaggio è identico. I palazzi sono costruiti con lo stesso metodo delle palafitte, e lo scioglimento del permafrost sta causando gli stessi problemi: lo smottamento di molti villaggi costieri, i cadaveri che riemergono dai cimiteri dopo centinaia di anni. Fino al 1867 l’Alaska apparteneva all’impero zarista, poi fu svenduta agli Stati Uniti per 125 milioni di dollari attuali, pari al valore del petrolio pompato in quattro giorni a Prudhoe bay. Molte famiglie eschimesi, inuit in Alaska, yupik in Čukotka, vivono separate sulle due sponde, ogni rapporto è cessato con la guerra fredda nel 1948. Nell’era Reagan-Gorbačëv, alla fine degli anni ottanta, ci fu un momento in cui il “muro di Bering” sembrava crollato, fervevano gli scambi culturali, si concedevano visti, ci fu anche qualche volo. “Lo vedi sulla cartina, sono due nasi che si sfregano: siamo gemelli separati”, dice Ranav.

Negli anni ho visitato anche l’altro “naso”. A Nome, la cittadina portuale statunitense sul mare di Bering, il parcheggio degli aerei privati è grande quanto quello di Newark nel New Jersey, 8.200 le licenze di volo nell’intero stato. C’è un quotidiano centenario, il Nome Nugget, diretto da una coppia di giovani tedeschi, mentre in Čukotka circolano due giornali statali e non c’è un solo mezzo d’informazione indipendente. Gli stipendi medi nel nord dell’Alaska si aggirano intorno ai 1.500 dollari, i nativi hanno incassato più di un miliardo di dollari in riparazione delle persecuzioni subite. Nel North Slope, dove gli inuit sono la maggioranza e dove si trovano i pozzi più produttivi, le tribù controllano e gestiscono 13 società quotate a Wall street con le percentuali dei ricavi del petrolio estratto nelle loro terre. L’alcolismo è un flagello anche nel nord dell’Alaska, ma i “gemelli” della Čukotka bevono sei volte di più (secondo il ministero della sanità di Mosca) della media della Russia, che notoriamente non è nazione d’astemi.

Ranav non tocca alcol, scola litri di tè caldo, è un uomo prestante, di una vitalità incontenibile. Cambia moglie in media ogni tre anni, ma mantiene ottimi rapporti con tutte le ex ed è sempre al telefono per gestire la logistica delle sue complicate relazioni. La compagna da cui non si separa mai è Jaška, una piccola renna bianca afflitta da qualche deficit neurologico che era stata abbandonata dalla madre nella tundra. Un paio d’anni fa ha messo le mani su un gigantesco vecchio camion Gaz-66 Ural, usato nelle miniere di stagno, e l’ha convertito in un fuoristrada capace di trasportare anche 15 persone sulle zimniki, le strade di ghiaccio e neve che attraversano l’interno della regione.

Ci mettiamo tre ore per arrivare a Rytkuči, insediamento ciukcio di circa cinquecento persone, a sud della baia del Čaun, un’area umida dove confluiscono tre fiumi, d’estate nursery per le renne e regno incontaminato per una decina di pesci autoctoni. Con la motoslitta raggiungiamo Saša Prokopoiev, uno dei rappresentanti della comunità, nel suo balok, la cabina posata sugli sci dove ci si scalda con una stufa a cherosene durante la pesca nel ghiaccio. Il freddo è spaventoso, appena usciti dal buco i pesci sfrigolano come fossero gettati nell’olio bollente. Prokopoiev conferma che stanno costruendo un nuovo porto per il rame e l’oro di Abramovič, a capo Naglejnyn, chiamato “il grembo del mondo” dai ciukci; è dove i mandriani di Rytkuči portano le loro 25mila renne a ingrassare prima del parto. “È così da quattrocento anni”, dice. “Ma tra cinque anni non ci saranno più i pascoli, non ci saranno più le renne e scompariranno i villaggi, perché non esiste vita nella tundra senza le renne”.

Mosca ha già stanziato un miliardo di euro per il porto, mentre è incerta la cifra che pagherà la Kaz Minerals per la strada che collegherà le miniere del distretto di Bilibino a capo Naglejnyn: “Potrebbero usare il porto di Pevek, ma così risparmiano quattrocento chilometri ai camion. Quella strada impedisce la migrazione delle renne, e poi devia il corso superiore dei fiumi, dove i nostri pesci depongono le uova. Per estrarre l’oro impiegano il cianuro, che finisce nei fiumi. Per noi la tundra non è una questione di proprietà, ma di responsabilità”. Lo spiegava bene lo scrittore amato dalla preside, Jurij Rytcheu, ecologista al tempo in cui l’Unione Sovietica devastava l’ambiente in nome dell’uomo nuovo e della prosperità collettiva: “Nella tundra il tempo non è lineare, ma circolare. Come la natura, non si consuma, ma si rinnova”.

Le comunità hanno scritto alle Nazioni Unite, appellandosi alla dichiarazione dei diritti delle popolazioni indigene. Ranav è in prima fila, qui non siamo a Pevek tra i russi, ma si tratta della sua terra e della sua gente: a Naglejnyn piazzeranno cinque piattaforme come l’Akademik Lomonosov. “Quando è arrivato Abramovič, la nostra vita è senz’altro migliorata”, dice Prokopoiev guardando fuori dall’oblò, sull’estuario ormai inghiottito dal buio. “I suoi uomini distribuivano cibo, a ogni elezione a Rytkuči arrivavano con ferri da stiro, televisori e giocattoli. In realtà ci ha spennato come polli. Avrà anche investito un miliardo, ma ne ha presi dieci, venti, chi lo sa quanti. Ci ha comprato con le perle di vetro, in cambio s’è preso la Čukotka. Ora siamo solo cinquecento intralci sulla loro cazzo di strada”.

Ranav promette che difenderanno la terra a ogni costo: “Abramovič la nostra storia la conosce”. Ci provarono i cosacchi nel seicento a pretendere lo jasak, il tributo, ma se ne andarono malconci. Ci provò Pietro il grande a soggiogare i ciukci, mandò il fidato Afanasij Šestakov, ma la sua nave affondò e i naufraghi vennero sterminati sulla banchisa: le tribù firmarono un trattato di pace che gli permetteva di decidere quanti tributi pagare. L’impatto della Rivoluzione d’ottobre del 1917 in Čukotka si vide solo nell’ottobre successivo, con due emissari bolscevichi che furono eliminati due giorni dopo aver preso il potere.

Arriviamo al villaggio, la luce è appena saltata. Secondo qualcuno un corvo è finito sul filo dell’alta tensione, è già successo. Saša è convinto invece che stavolta si tratti dei lavori sulla linea per collegare la piattaforma nucleare alla rete elettrica della regione di Bilibino: “Siamo sulla loro cazzo di strada”, ripete.

Fiori in inverno
Purtroppo non rivediamo più Elena Stepanova, la preside. Poco prima del nostro nuovo appuntamento, per il quale ha organizzato un incontro con qualche studente, ci fa sapere che la centrale della polizia le ha “raccomandato” di non riceverci. Potrebbe accampare mille scuse, ma preferisce dire la verità. A quel punto siamo però ormai abituati, le interviste sono annullate all’ultimo momento, le persone con cui abbiamo parlato ricevono la visita di qualche ufficiale. Negli ultimi giorni siamo seguiti, controllati da un’auto fissa sotto casa e interrogati varie volte.

La terza volta entrano alle sei del mattino in casa di Ranav. Una giovane agente spiega in modo brusco che nell’interrogatorio del giorno prima mancano le firme. Pretendiamo di rileggere le nostre dichiarazioni, a cui è stato aggiunto che “lo scopo del nostro viaggio è documentare la flora e la fauna della Čukotka”. Così sarebbero autorizzati a sequestrare il materiale dimostrando che non ci siamo occupati di fiori in pieno inverno artico. Ranav li riprende con il cellulare mentre cercano di costringerci a firmare. Ci sono attimi di grande nervosismo, poi se ne vanno. Ci affrettiamo verso l’aeroporto in largo anticipo. Un attimo prima del decollo un militare sale sull’aereo e viene diritto da noi per accertarsi che stiamo davvero lasciando la Čukotka.

Questo articolo è stato pubblicato il 30 luglio 2021 nel numero 1420-1421-1422 di Internazionale.

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