Negli ultimi dieci anni il Medio Oriente è stato devastato dalle guerre e ogni paese dell’area è stato responsabile, anche se in misura diversa, della morte di più arabi di quanti ne ha uccisi Israele. Ma il sanguinoso attacco di Hamas e la risposta dello stato ebraico hanno avuto un’eco tale nella regione da costringere queste nazioni a riunirsi per una foto di famiglia, totalmente impensabile pochi anni fa, in occasione del vertice congiunto della Lega araba e dell’Organizzazione per la cooperazione islamica (Oic), che si è tenuto l’11 novembre a Riyadh, in Arabia Saudita.

Nella foto erano presenti nemici di ieri (e di oggi): il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, il leader siriano Bashar al Assad, il presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi e perfino il presidente iraniano Ebrahim Raisi. Ma la loro apparente concordia non basta a trasformare l’illusione in realtà. Al culmine dell’ipocrisia, in particolare quando Assad ha denunciato il “massacro israeliano”, il vertice è stato soprattutto un riflesso delle divisioni tra i partecipanti.

Al di là degli appelli per il cessate il fuoco, i paesi arabi non sono d’accordo su niente: né sul metodo da usare per difendere la causa palestinese né su quale futuro dare a Gaza

Al di là delle condanne generiche e degli appelli per il cessate il fuoco, questi paesi non sono d’accordo su niente: né sul metodo da usare per difendere la causa palestinese né su quale futuro dare a Gaza. Sono 75 anni, dal 1948, che i paesi arabi non mettono da parte i loro interessi per il bene dei palestinesi, e non cominceranno di certo a farlo oggi che questa causa ha perso la sua centralità geopolitica. E ancor meno lo faranno in collaborazione con la Turchia di Erdoğan e con la Repubblica islamica di Khamenei, che sono più vicine a Hamas di quanto non sia la maggioranza di loro, a eccezione del Qatar.

Ognuno fa i propri calcoli. L’Iran vuole essere al centro di un futuro accordo regionale, altrimenti continuerà a scommettere sul caos. La Turchia vuole diventare la portavoce sunnita della causa palestinese sul fronte interno, su quello arabo e nel suo braccio di ferro permanente con l’occidente. La Siria vuole stare nel fronte della “resistenza” senza doverne pagare il prezzo. La Giordania e l’Egitto vogliono evitare che il conflitto cambi la situazione alle loro frontiere e li destabilizzi sul piano interno. L’Arabia Saudita desidera che tutto questo finisca il prima possibile e con il minor danno possibile per il suo progetto di sviluppo e di stabilizzazione regionale. Più velocemente sarà digerito il trauma del 7 ottobre, più i conflitti congelati tra gli stati arabi torneranno alla ribalta.

Probabilmente dopo la guerra di Gaza emergerà un nuovo Medio Oriente. Ma per il momento c’è un solo cambiamento geopolitico di cui bisogna prendere atto: il ritorno degli Stati Uniti come unica superpotenza nella regione, con un dispiegamento militare senza precedenti negli ultimi decenni. Washington ha fatto dell’Asia la sua priorità, ma il Medio Oriente torna sempre a presentarle il conto. Se gli Stati Uniti ricominceranno a impegnarsi in quest’area tutto il mondo dovrà adattarsi alla nuova realtà.

Nel frattempo nessun paese agisce seguendo una logica di contrapposizione totale. Le potenze firmatarie degli accordi di Abramo (Emirati Arabi Uniti, Stati Uniti, Marocco, Sudan e Bahrein) si muovono con discrezione, ma senza per questo rimettere in discussione la normalizzazione dei rapporti con Tel Aviv. L’Arabia Saudita ha congelato le sue trattative con Israele e chiederà delle importanti concessioni sulla questione palestinese per giungere a un accordo che probabilmente non arriverà a breve termine. Ma le dichiarazioni del regno lasciano intendere che questa pagina non è definitivamente chiusa.

Lo sconvolgimento geopolitico sarà realmente percepibile solo alla fine “del gioco”. Non avrà la stessa dimensione se il conflitto resterà localizzato o se si espanderà nella regione. I paesi del Golfo, Arabia Saudita in testa, aspettano di vederci più chiaro prima di posizionarsi. Se l’Iran ne uscirà rafforzato, rallenteranno probabilmente il loro riavvicinamento allo stato ebraico, perché se Israele non è in grado di proteggere se stesso non potrà fare nulla per loro. E tenteranno di convivere con Teheran, anche se questo li penalizzerà. Se al contrario l’Iran ne uscirà indebolito, potrebbero tentare d’isolarlo ulteriormente, a condizione che gli Stati Uniti li incoraggino e che Israele rilanci il processo di pace con i palestinesi, cosa che appare molto improbabile.

La falsa coesione esibita a Riyadh mirava, da parte iraniana, a dimostrare che la Repubblica islamica non è isolata, e soprattutto a mettere gli arabi di fronte ai propri limiti per presentarsi come paladina della Palestina. Da parte saudita, mirava a mostrare che il regno è fondamentale per risolvere la questione, e soprattutto a tenersi vicino il rivale iraniano per evitare che si lanci in un’escalation regionale. Come si dice: “Tieni i tuoi amici vicini, ma i nemici ancora più vicini”. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1538 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati