C’è stato un tempo in cui, in fondo a ogni romanzo e a ogni film, c’era la parola fine. Era rassicurante, significava: sveglia, è tempo di tornare alla dura, scombinata realtà. Poi a qualcuno è venuto in mente di finire le storie senza dichiararlo, il lettore e lo spettatore si potevano rendere conto benissimo da soli che il racconto era finito. Bene, la cosa ha preso piede e oggi è difficile dire se quella piccola sparizione sia stata rilevante. Si studia tutto, si valuta tutto, non so se esiste una bibliografia sul tramonto della parola fine sulla pagina e sullo schermo. Certo, oggi finire non è un verbo tra i più affidabili. Fine di tutte le guerre? Sì, se se ne fanno di ben studiate, anche nucleari volendo, con distruzioni e stermini ben governati. Fine dei combustibili fossili? Sì, se si seguita a bruciarne alla bisogna per evitare agli sceicchi la miseria delle caverne. Fine del nucleare? Sì, se se ne avvia una diffusione capillare con una tecnologia che fa meglio di Chernobyl e Fukushima. Fine di tutti i fascismi? Sì, se si legittimano con garbo antifascista tutti i neo-fascismi e i neo-neofascismi. Insomma non si riesce a mettere la parola fine più a niente, forse nemmeno all’esistenza individuale. Meno male che una certezza c’è, qui finisce questa rubrica, gli anni pesano. Grazie ai lettori e a tutti gli amici di Internazionale, splendido, necessario settimanale.

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Questo articolo è uscito sul numero 1542 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati