08 giugno 2017 17:50

Nel suo libro Cosa c’entra l’anima con gli atomi? Mauro Dorato s’interroga sulle differenze e i punti di contatto tra teorie scientifiche e teorie filosofiche. In particolare, nel capitolo “A chi e cosa dobbiamo credere?”, analizza il rapporto tra omeopatia e medicina tradizionale. Eccone un estratto.

In Italia ben 11 milioni di persone ricorrono oggi a cure omeopatiche, e ciò fa aumentare di molto la spesa pro capite per i prodotti omeopatici. Tali forme di terapia, che sono in costante aumento anche in pediatria e dunque tra i bambini, sono osteggiate da parte della medicina ufficiale, e i governi si trovano spesso a dover decidere se pagare con il denaro pubblico farmaci la cui efficacia terapeutica si basa su un principio in apparenza assai bizzarro: malattie come raffreddori, cefalee, allergie eccetera si dovrebbero curare con sostanze che nella persona sana provocano gli stessi sintomi che ha il malato. L’omeopatia si basa infatti essenzialmente sul principio che cose simili si curano con rimedi simili, ovvero similia similibus curentur.

Oltre a essere molto diffusa, l’omeopatia offre il vantaggio che i suoi princìpi generali possono essere introdotti senza richiedere conoscenze tecniche particolarmente sofisticate. Essa può quindi fornirci una serie di spunti interessanti per discutere la questione centrale che affronteremo in questo capitolo: in che modo dovremmo formare ipotesi a partire da evidenze sperimentali e osservative?

Una storia secolare
Cominciamo con il considerare che l’inventore della tecnica omeopatica, Samuel Hahnemann (1755-1843), visse due secoli fa, in un periodo in cui la medicina del tempo prescriveva rimedi che erano spesso peggiori del male che dovevano curare (si pensi ai clisteri, ai salassi o alle purghe di cui racconta Collodi nel suo Pinocchio).

Il sopra menzionato primo principio dell’omeopatia (”il simile si cura con il simile”) può essere illustrato con un semplice esempio: una persona che soffra di raffreddore dovrebbe assumere della cipolla, in dosi minime specificate dalle tecniche di preparazione farmacologica omeopatica. E questo perché, sulla persona sana, la cipolla in dosi massicce provoca gli stessi effetti del raffreddore nel malato, ovvero fa piangere e crea muco nelle narici.

Analogamente, un’assunzione in dosi minime e ben specificate di caffeina può curare l’insonnia, perché la caffeina in dosi massicce ha l’effetto di “svegliare” le persone sane: il principio del curare le cose simili con sostanze che inducono effetti simili è rivelato dall’etimo della parola omeopatia, che deriva dal greco “simile” (omoios) e “malattia” (pathos).

Il 70 per cento dei pazienti che si curano con l’omeopatia afferma che la propria scelta deriva dalla tossicità dei farmaci tradizionali

Nella tradizione omeopatica, la medicina tradizionale curerebbe invece con il principio opposto, attribuito a Ippocrate, in base al quale i contrari sono curati dai contrari (contraria contrariis curentur).

Assai schematicamente, gli altri due princìpi su cui si basa l’omeopatia sono la cosiddetta legge degli infinitesimi e una concezione olistica della malattia. La legge degli infinitesimi si rifà all’idea originaria di Hahnemann, assai controintuitiva per chiunque ricorra ai farmaci di tipo tradizionale: più piccola è la dose assunta – ovvero maggiore la diluizione del principio attivo in acqua – e maggiore è l’effetto terapeutico della sostanza. Questo principio presuppone che il corpo abbia, nel suo complesso, un’innata capacità di ristabilire autonomamente la propria salute, una capacità che la dose omeopatica del farmaco, stabilita anche sulla base di uno studio “psicologico” sul paziente, è in grado di stimolare.

Il principio della diluizione può spiegare in parte la diffusione dei farmaci omeopatici anche ai nostri giorni: se la diluizione dovesse far sparire il principio attivo, tali farmaci almeno non avrebbero effetti negativi o controindicazioni, presenti invece – come è noto – in molte medicine tradizionali. E in effetti scopriamo che il 70 per cento dei pazienti che oggi si curano con l’omeopatia afferma che la propria scelta deriva dall’elevato grado di tossicità dei farmaci tradizionali.

Il terzo principio, quello “olistico”, è certamente apprezzabile: il fatto che l’omeopata tratti il paziente non come una macchina costituita da tanti pezzi che si possono rompere e aggiustare separatamente, ma “olisticamente”, ovvero come un tutto, e quindi come un organismo caratterizzato anche da tratti psicologici e fisiologici diversi da individuo a individuo, rende l’omeopatia più “umana” rispetto ad alcune pratiche della medicina ufficiale. Nell’omeopatia esistono classificazioni di pazienti con nomi divertenti, che ricordano assai da vicino la vecchia teoria galenica degli umori: la Pulsatilla è una giovane donna gentile, bisognosa d’affetto e un po’ timida, il tipo Nux vomica è aggressivo, ambizioso e iperattivo, mentre il Sepia è ostile e acido.

Poiché i trattamenti vanno riferiti a questo tipo di classificazione psicologica, l’omeopatia difende l’indissolubilità della mente e della personalità del paziente dal suo corpo ed è in questo senso che l’omeopatia è “olistica”. Ogni sintomo dipende da tutto il resto e lo stato d’animo del paziente ha un ruolo decisivo nella diagnosi.
In ogni stato di malattia lo stato d’animo del paziente costituisce uno dei sintomi più importanti, che va sempre rilevato per poter fare il quadro fedele del male e conseguentemente poterlo guarire con la cura omeopatica.

Se i farmaci omeopatici non fossero sottoponibili a test statistici, la loro somministrazione sarebbe ingiustificabile

Dopo questa schematica introduzione, possiamo formulare la domanda che ci interessa: è giusto chiedere, come fa la recente normativa europea, che tutti i farmaci omeopatici, per poter essere messi in commercio, vengano sottoposti allo stesso tipo di test sperimentali cui sono soggetti i rimedi tradizionali o “allopatici”? Molti medici omeopati sostengono che i loro farmaci presuppongono modalità di cura completamente diverse, incompatibili o incommensurabili con la medicina tradizionale. E lo stesso atteggiamento ostile nei confronti dei test statistici si registra tra i sostenitori di altre terapie alternative, quali l’agopuntura, la chiroterapia e la fitoterapia.

È legittimo che i sostenitori dell’omeopatia riparino sulla difensiva in questo modo? Noi argomenteremo che la risposta è negativa: se i farmaci omeopatici non fossero sottoponibili a test statistici comparabili con quelli della medicina tradizionale, la loro somministrazione sarebbe ingiustificabile, e lo stato non dovrebbe rimborsare il loro acquisto.

Se si vuole differenziare un farmaco da un placebo, è necessario sottoporlo proprio a quei controlli sperimentali che molti difensori dell’omeopatia vorrebbero evitare. Già il semplice pretendere testi clinici “specifici” e ritagliati su misura per la medicina alternativa (che poi tanto alternativa non è, visto che l’omeopatia si ispira a teorie della medicina galenica e dell’alchimia seicentesca) è un’ammissione di debolezza.

Si noti anzitutto che una qualche forma di controllo “osservativo” la esercitiamo, più o meno coscientemente, tutti. Tanto per fare un esempio, nessuno accetterebbe di prendere un farmaco se non avesse sentito almeno un’altra persona affermare di averne tratto benefici.

Non conviene dunque bollare senza uno studio preliminare le cosiddette medicine alternative, così come non conviene ai sostenitori di queste ultime giocare il ruolo delle vittime oppresse dall’autoritarismo della medicina ufficiale o dagli interessi lobbistici delle case farmaceutiche. Queste ultime, infatti, producono anche una quantità ingente di farmaci omeopatici, e ne produrrebbero ancora di più se si sapesse per certo che funzionano: il nostro e loro unico interesse deve essere quello di accertarlo.

In ogni caso, il rifiuto di sottoporre i trattamenti omeopatici a esperimenti controllati implica l’impossibilità di avere buone ragioni per credere all’omeopatia o all’efficacia di qualunque altro farmaco della medicina tradizionale. Questo ci sembra un risultato assai importante, soprattutto ricordando l’ingiustificato scetticismo o timore di molti medici omeopatici nei confronti di esperimenti compiuti con gruppi di controllo, che sono invece tipici della migliore farmacologia.

Mauro Dorato è professore ordinario di filosofia della scienza presso l’università Roma Tre di Roma.

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