25 giugno 2018 11:50

In queste ore ho ripensato spesso al momento in cui una giornalista francese scoppiò a piangere dopo aver visto un video promozionale della guardia costiera italiana: succedeva circa un anno e mezzo fa e insieme eravamo state ricevute nella sala operativa della guardia costiera di Roma, perché stavamo scrivendo un’inchiesta sul naufragio del 18 aprile 2015 in cui morirono più di 800 persone, quello che fece estendere la missione europea Triton nel Mediterraneo centrale e spinse le ong a inviare navi in quel tratto di mare per collaborare con la guardia costiera italiana.

Il video mostrava gli uomini della guardia costiera tuffarsi in mare per afferrare la mano di un uomo che stava per inabissarsi. La telecamera GoPro sul caschetto del soccorritore permetteva di vivere la scena in soggettiva: gli occhi dell’uomo che guardano con terrore e confusione, la voce del soccorritore di cui non si vede mai il volto. “Stai tranquillo, prendimi la mano”, gridava in inglese con fermezza, nonostante la concitazione del momento. E poi gli schizzi e i gesti scomposti di chi stava per affogare.

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La sequenza delle immagini sottolineava con una certa enfasi l’orgoglio che la guardia costiera italiana ha sempre messo nei soccorsi in mare. “Rispondere a una richiesta di aiuto non è solo un dovere, è umanità”, diceva una voce alla fine del video per poi lasciare il posto a una schermata nera con la scritta: “Negli ultimi 25 anni 915mila persone sono state salvate nel mar Mediterraneo durante numerose operazioni di soccorso coordinate dalla guardia costiera italiana”.

Capivo quell’orgoglio. Avevo incontrato molti ufficiali della guardia costiera italiana e in tutti c’era quell’aria commossa quando raccontavano dei soccorsi a cui avevano partecipato. “Un morto è una sconfitta e una vita salvata una vittoria”, mi aveva detto un guardacoste una volta. Però la giornalista francese era scoppiata a piangere, perché non era abituata a quelle scene drammatiche e nemmeno all’orgoglio straripante di un corpo militare che trova nella più basilare delle leggi non scritte la sua missione: “Salvare vite”.

Ci ho ripensato nelle ultime ore, mentre nel Mediterraneo centrale la situazione è completamente cambiata. Come la staranno vivendo gli uomini della guardia costiera italiana? Possibile che basti un cambio al vertice per stravolgere una linea di condotta? Ho ripensato a quel giovane capitano che dopo anni era ancora tormentato dai sensi di colpa per essere arrivato tardi sulla scena di un naufragio.

“L’incidente sarebbe avvenuto se fossi arrivato prima?”, si chiedeva straziato durante una lunga intervista. Un tormento che ho riconosciuto negli occhi e nelle parole di tanti soccorritori. L’ultimo in cui ho visto quel fantasma è stato il volontario di Sos Méditerranée Alessandro Porro domenica scorsa a Valencia, dopo l’attracco della nave Aquarius, costretta a prolungare di nove giorni il suo viaggio per la decisione del governo italiano di chiudere i porti alle navi delle ong. Porro aveva gli occhi lucidi al pensiero di non essere riuscito, insieme ai suoi compagni, a salvare due persone in un soccorso molto complicato, avvenuto di notte una settimana prima.

Contravvenire a questa legge è un reato: omissione di soccorso

“Come faccio a scegliere chi prendere e chi lasciare quando ho tempo per afferrare la mano di una sola persona?”, mi aveva chiesto Gennaro Giudetti, un altro giovane volontario italiano dell’ong Sea Watch lo scorso novembre. L’esperienza estrema di salvare da morte certa una persona che sta per affogare fa emergere una caratteristica essenziale di ogni essere umano, la sua capacità istintiva di ribellarsi alla morte di un altro.

Per chi è costretto ad affrontare questa scelta radicale sono state scritte le leggi del mare, come la convenzione di Amburgo del 1979, che obbliga il soccorso di qualsiasi imbarcazione in difficoltà. Contravvenire a questa legge è un reato: omissione di soccorso. Tutte le altre valutazioni, perfino le politiche migratorie di uno stato sovrano sono secondarie rispetto all’obbligo stabilito da leggi internazionali.

Lo ha spiegato molto bene nel maggio del 2017 il procuratore di Trapani Ambrogio Cartosio di fronte alla commissione d’indagine del senato italiano: “Se una nave di una ong, un mercantile, una nave della marina militare, un peschereccio, una privata imbarcazione viene messa al corrente che c’è un’imbarcazione in cui alcune persone rischiano l’annegamento, questa imbarcazione deve essere soccorsa. E questo principio travolge tutto. Viene commesso il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ma non è punibile, perché è stato commesso al fine di salvare una vita umana”. E poi aveva ribadito incalzato dalle domande del senatore Maurizio Gasparri: “Non è una questione ideologica, sul piano penale è un intervento legittimo quello per salvare una vita umana”.

Il silenzio della guardia costiera
Eppure sembra passato un decennio, anzi ere geologiche da quella mattina nella sede della sala operativa della guardia costiera di Roma: dopo una lunga campagna di criminalizzazione verso chi soccorre, anche la guardia costiera italiana è stata ridotta al silenzio. Il reperibile che dovrebbe comunicare con i giornalisti da mesi non risponde più al telefono, l’ufficio stampa non dirama più comunicati dell’attività encomiabile dei suoi uomini e non diffonde i video girati dalle GoPro montate sui caschetti dei soccorritori. Per contestare questo cambiamento, il 24 giugno migliaia di cittadini hanno partecipato a un mail bombing della guardia costiera, chiedendole di tornare a soccorrere chi rischia la vita in mare.

Il punto è che la propaganda dell’estrema destra ha attaccato uno dei princìpi fondamentali della nostra tradizione giuridica, la salvaguardia della vita umana, e vorrebbe fare intervenire il principio discriminante “Prima gli italiani” anche nelle situazioni in cui qualcuno rischia la vita. Il soccorso in mare non sembra più un obbligo e chi lo difende è etichettato come “buonista”. Ma è la legge, non la morale, che obbliga a salvare chi è in pericolo. E le regole di quello spazio umanitario non possono essere annullate, nemmeno da un governo a cui sembra legittimo giocare una partita diplomatica mettendo a rischio la vita di centinaia di persone in mare.

Eppure da cinque giorni la nave tedesca Lifeline è stata lasciata in alto mare dalle autorità marittime italiane e maltesi con più di duecento persone a bordo, senza un porto di sbarco indicato e senza un protocollo da seguire. Stessa sorte è toccata al mercantile danese Maersk che aspetta da giorni in rada davanti al porto di Pozzallo con più di cento persone a bordo. “Non trasportiamo pezzi di carne, ma persone che abbiamo salvato dall’annegamento”, ha scritto su Twitter il capitano della Lifeline invitando il ministro Salvini sulla nave.

Nel frattempo la nave Aquarius di Sos Méditerranée e la nave Open Arms di Proactiva sono tornate in mare nelle acque internazionali davanti alla Libia, Malta ha chiuso loro il porto per i rifornimenti e la guardia costiera italiana sembra non voler più collaborare, anzi ha diramato un messaggio tecnico per intimare alle navi delle ong di coordinarsi con la guardia costiera di Tripoli, che però non ha una centrale operativa funzionante. La Libia, inoltre, non è considerata un paese sicuro in cui far sbarcare le persone dalle autorità internazionali.

Il 24 giugno il fondatore dell’ong spagnola Proactiva Open Arms Oscar Camps ha raccontato su Twitter che la nave Open Arms è stata raggiunta dall’allerta per sette imbarcazioni in pericolo al largo della Libia con più di mille persone a bordo, ma ha anche raccontato che la centrale operativa di Roma ha rifiutato l’aiuto degli spagnoli. “Non abbiamo bisogno del vostro aiuto”, avrebbero detto da Roma. Sono lontani i giorni in cui un guardacoste disse a un dirigente di una ong che qualsiasi mezzo sarebbe stato utile per soccorrere migranti lungo la rotta del Mediterraneo centrale.

Già il 23 giugno, Lifeline aveva detto di aver ricevuto da Roma indicazioni per chiamare la guardia costiera libica o quella maltese, con tanto di numeri di telefono a cui però non rispondeva nessuno. Intanto con il ritiro delle navi delle ong dalle acque internazionali di fronte alla Libia il numero dei morti è aumentato notevolmente, le Nazioni Unite hanno denunciato che il 19 e il 20 giugno sarebbero morte 220 persone in almeno tre diversi naufragi davanti alla Libia, portando il numero complessivo dei morti nei primi sei mesi del 2018 a mille. Mille persone lasciate morire.

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