19 aprile 2018 13:44

Questo articolo è uscito il 14 aprile 2017 nel numero 1200 di Internazionale, a pagina 40. È uscito in contemporanea in Italia su Internazionale e in Francia su XXI.

È un bel peschereccio di un azzurro intenso, decorato con una striscia bianca. Galleggia all’orizzonte, ancorato a un centinaio di metri dalla spiaggia di Garabulli, a est di Tripoli. Venduto ai libici dopo essere stato usato da pescatori egiziani, sulla prua porta una scritta in arabo che si vede appena: “Benedetto da Allah”. Nient’altro. La barca non ha nome.

Venerdì 17 aprile 2015, Omar il maliano è in piedi sul ponte di poppa. Su questa barca senza nome, decine di persone come lui tremano per il freddo nei vestiti bagnati dagli schizzi delle onde. Alcuni hanno attacchi di nausea. Sono le 23.30 circa. Nel buio della notte, tra il vento e il vomito, bisogna spingere, stringersi, ammassarsi per far posto agli altri. Sulla sabbia di Garabulli, quasi mille persone aspettano il loro turno per salire a bordo. Quando il camioncino le ha scaricate sulla spiaggia, molte hanno urlato vedendo le onde. Alcune non avevano mai visto il mare prima di allora: un fiume, un lago, quelli sì, ma il mare mai. C’è chi vorrebbe tornare indietro, qualcuno piange, altri supplicano di non partire. È troppo tardi. Come tanti, Hasan Kasan esita, ma non ha più scelta. Venti o trenta uomini, in gran parte libici, zittiscono i più impauriti, minacciandoli con le armi. I trafficanti “svuotano le tasche, rubano i cellulari e i soldi”. Gira voce che abbiano appena “buttato in mare” il corpo di un ragazzo che si era ribellato.

Rassegnato, Hasan Kasan si mette in fila. Pensa a sua moglie Selma e ai loro tre bambini – Siam, Siab e Habib – rimasti in Bangladesh, a migliaia di chilometri dalla Libia. Partito prima della nascita del più piccolo, Hasan Kasan ha preso un biglietto di sola andata per Tripoli, la capitale libica, dove alcuni trafficanti gli avevano promesso un lavoro come spazzino. Non sapendo che il paese era in mano alle milizie, Kasan ha lavorato senza essere pagato, dormendo in uno scantinato. Ora vuole lasciare questo paese diviso e in guerra, e l’Europa è la sua unica via di fuga. Un gommone trasporta le persone, facendo avanti e indietro tra la spiaggia e la barca. Al momento di salire, Hasan Kasan indossa solo dei jeans e una camicia, non gli resta altro. I libici lo spingono sotto coperta. “No, qui no!”, urla il bangladese. Lo picchiano: botte in testa, colpi sulla schiena. Non mangia da giorni, barcolla. Senza sapere come, si fa strada fino al ponte, dove si accorge che ci sono due connazionali. Avranno sedici o diciassette anni. L’imbarco dura fino all’alba. Lungo ventuno metri, alto otto metri e largo altrettanto, il peschereccio trasporta di solito una quindicina di pescatori egiziani. Quando salpa, la mattina del 18 aprile 2015, a bordo ci sono più di settecento persone.

Nella centrale di Roma
Quella stessa mattina, come ogni giorno dal 2008, l’anno in cui ha preso servizio al Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo a Roma, l’ufficiale della guardia costiera Sergio Mingrone parcheggia davanti alla sede del ministero delle infrastrutture e dei trasporti all’Eur, tra i palazzi in architettura razionalista. Raggiunge a passi spediti la centrale operativa della guardia costiera, una serie di stanze anonime nel seminterrato, illuminate dai neon.

Sulla parete uno schermo di tre metri mostra in tempo reale il traffico marittimo nel mar Mediterraneo: i punti luminosi sono così tanti e ravvicinati che le imbarcazioni sembrano scontrarsi. Sul tavolo ci sono una decina di telefoni, grigi e rossi. In questo scenario da guerra fredda arrivano le chiamate di soccorso al 1530. È il numero degli sos, tutti i marinai lo conoscono. Mingrone è un uomo sulla cinquantina, i capelli corti e brizzolati, la faccia da brava persona. Dopo quasi sette anni di servizio alla centrale operativa è abituato ad ascoltare voci: urla in tutte le lingue, grida di bambini, coordinate geografiche pronunciate con un filo di voce, silenzi e suoni misteriosi. La centrale sorveglia i movimenti nel Mediterraneo e guida le operazioni di salvataggio. È qui che si decide di mandare navi, aerei ed elicotteri in aiuto alle imbarcazioni in difficoltà in questo mare diventato un cimitero. Nel 2008 i migranti che hanno raggiunto le coste italiane sono stati 39mila.

Mansour, uno dei 28 sopravvissuti al naufragio del 18 aprile 2015, fotografato il 2 febbraio 2017 in un paesino della provincia di Varese. (Giulio Piscitelli per Internazionale)

Nel 2014 sono stati 170mila. Nei primi tre mesi del 2015, dopo la fine della missione italiana di ricerca e soccorso Mare nostrum, si registra un aumento degli arrivi. Quel fine settimana di aprile del 2015 è stato difficile. In tre giorni, le unità di soccorso hanno salvato 6.500 migranti che viaggiavano su 42 imbarcazioni. E c’è stata la terribile domenica del 12 aprile: quattrocento morti in un naufragio. Sergio Mingrone sente che le parole dei naufraghi, quelle telefonate quotidiane, gli restano impresse. Ogni tanto dei tic nervosi gli deformano il viso. Per Mingrone “un morto è una sconfitta e una vita salvata una vittoria”. “La notte è stata calma”, gli dice il responsabile della centrale operativa prima di andarsene. Mingrone si siede alla scrivania. È di guardia per ventiquattr’ore, è abituato a non dormire. Alla famiglia la sera racconta che “questo lavoro comporta molto stress, molta stanchezza e molte emozioni”.

La barca senza nome avanza lentamente. A mezzogiorno, il peschereccio non ha ancora lasciato le acque territoriali libiche. Sotto il sole timido, una brezza leggera dà sollievo ai corpi intorpiditi. Sul ponte, sottocoperta e nella stiva i toni si fanno accesi appena qualcuno si muove. “Seduto! Sennò affondiamo, cazzo!”. Alcuni litigano, si conoscono da quando hanno attraversato il deserto del Sahara e i suoi tranelli di sabbia. Omar il maliano resta immobile. Prima d’imbarcarsi, ha passato quaranta giorni “trattato peggio di un animale” in un capannone sovraffollato vicino alla spiaggia di Garabulli. “Non meritate nemmeno di essere sepolti nella nostra terra”, ripetevano i carcerieri. Orfano, partito a sedici anni per sfidare il deserto e raggiungere prima l’Algeria e poi la Libia, dove si raccontava che scorressero “fiumi di soldi”, Omar è stato sequestrato a Tripoli. I suoi carcerieri svegliavano i prigionieri e li obbligavano a ballare nudi nel cortile. “Dai, fateci uno spettacolo di rap! Siete bravi con queste cose voi neri!”.

La manovra fallisce e il peschereccio sperona con la prua la King Jacob

Ribellarsi voleva dire farsi spezzare le braccia e le gambe. Le donne venivano stuprate. Dopo tre mesi Omar, non avendo una famiglia che potesse pagare il riscatto, è stato mandato sulla spiaggia di Garabulli dagli stessi trafficanti: “Creperai in mare”. Sulla barca Omar si sente perso. Alcuni passeggeri hanno ricevuto una merendina al cioccolato prima della traversata. È l’ultima cosa che ha mangiato. Intorno tutti hanno fame e sete. Alcuni si urinano nei pantaloni, altri usano le ciabatte di plastica per buttare a mare gli escrementi.

“Due arabi erano alla guida del peschereccio”, ricorda Omar. Uno, alto e moro, reggeva il timone. L’altro, più basso, “ogni tanto scavalcava i corpi fino alla stiva per controllare che il motore girasse come doveva”.

Lentamente, la barca senza nome avanza verso l’Italia. L’ufficiale Sergio Mingrone sta lavorando da quasi dodici ore. La giornata alla centrale operativa è stata nella norma, c’è stato da fare, ma niente di eccezionale. Qualche chiamata, un po’ di questioni burocratiche. Alle 19.37 squilla il 1530. All’altro capo una voce gracchiante, che si sente appena.

“Ci stiamo muovendo”. Fruscii.
“Ditemi la vostra posizione”, ordina l’ufficiale. Il collegamento si perde.
“Cercate la vostra posizione sul telefono e richiamatemi”, insiste l’ufficiale. La linea cade. Qualche minuto dopo, il telefono squilla di nuovo.
“Datemi la vostra posizione, latitudine e longitudine”, ripete Mingrone.
“Posizione?”.
“Sì. La vostra posizione, la vostra localizzazione”.
“Posizione?”.
“Se non mi date la vostra posizione, non posso aiutarvi”.
“Soccorsi!”.
“Sì, lo so che vi servono i soccorsi, ma mi serve la vostra posizione. Ascoltatemi: trovate la vostra posizione”.
“…”.
“Voglio sapere dove siete… Dovete leggere la posizione sullo schermo del vostro telefono satellitare. Richiamatemi con questa informazione, ok?”.

Le chiamate proseguono, una decina prima che la barca senza nome trasmetta latitudine e longitudine. Si trova a circa 112 chilometri dalla Libia, 180 chilometri da Malta e 209 chilometri da Lampedusa. Mingrone e la sua squadra cercano sullo schermo la barca più vicina. I libici? Parte la solita telefonata verso la guardia costiera libica, ma non risponde nessuno. La nave Gregoretti, un pattugliatore italiano di 62 metri? Troppo lontano. Il suo equipaggio è impegnato in una missione di controllo della pesca illegale nel canale di Sicilia.

Da sei mesi la centrale lavora con mezzi ridotti. L’operazione di ricerca e soccorso Mare nostrum, lanciata dall’Italia nell’ottobre del 2013, contava su 9,5 milioni di euro al mese e nove navi. Alla fine del 2014 è stata sostituita dalla missione di sorveglianza Triton, finanziata dall’Unione europea, che costa 2,9 milioni di euro al mese, ha sette navi e un numero di uomini tre volte inferiore. La priorità è cambiata: l’Italia voleva salvare i migranti che rischiavano di morire in mare, l’agenzia Frontex, che coordina il controllo delle frontiere esterne dell’Unione europea, vuole pattugliare i confini.

Riazul, un sopravvissuto al naufragio. Catania, settembre 2016. (Giulio Piscitelli per Internazionale)

L’ufficiale sa che deve fare di più con meno risorse a disposizione. L’unica soluzione è la King Jacob, una nave portacontainer di centocinquanta metri. La nave, che batte bandiera portoghese, ha appena lasciato Palermo diretta a sud. L’equipaggio è filippino. Avvertito dalla centrale, il capitano Ambrousi A. Abdullah modifica la rotta di circa duecento gradi e spinge i motori avanti tutta. Tra due ore o poco più, stima Mingrone, dovrebbero raggiungere l’imbarcazione in difficoltà. Nato nelle Filippine, Ambrousi è al suo secondo viaggio sul mercantile. Dopo la richiesta di soccorso, la barca senza nome naviga lentamente per ore nella luce del tramonto. Sul ponte di poppa, l’ivoriano Sékou Diabagate cerca di tranquillizzare suo fratello Karim: “Sì, un giorno mostrerai la torre Eiffel a tua figlia”. Dopo quasi un giorno in mare, Hasan il bangladese si è addormentato. Omar il maliano sonnecchia. La barca senza nome è una lucciola che danza nelle acque internazionali del Mediterraneo.

Verso le undici di sera, le persone sul ponte si svegliano. Alcuni uomini si alzano. Si sente un mormorio, poi un urlo, delle urla: “Aiutateci!”. Nel buio una massa scura si avvicina. Gli uomini gridano: “Aiutateci! Aiutateci!”. Un faro squarcia la notte. Poi un altro. Sono i fanali di una nave, la King Jacob è arrivata. Dal posto di comando il capitano Ambrousi si accorge che “la piccola luce a circa un miglio di distanza proviene da una barca dov’è ammassato un numero indescrivibile di persone”. Per schivare il peschereccio, modifica “quattro volte in otto minuti” la rotta del mercantile. Venti minuti dopo, ordina ai diciotto filippini dell’equipaggio “di uscire sul ponte per cominciare le operazioni di soccorso”.

Illuminato dai potenti fari della nave cargo, il piccolo peschereccio si avvicina per cercare di accostare. All’ultimo momento accelera. La manovra fallisce e la barca senza nome sperona con la prua la King Jacob. L’enorme fiancata del cargo lo fa rimbalzare sull’acqua. Il fianco destro del peschereccio urta due volte contro il mercantile.

Uomini in mare
Il primo impatto è violento, il rumore simile a un ruggito. Sottocoperta e nella stiva le persone sono spinte in tutti i sensi. È il caos totale. Sékou l’ivoriano non capisce nulla, come molti. In preda al panico, gli uomini si accalcano sul lato destro, la barca si capovolge. In pochi istanti il mare inghiottisce tutti. “People in the water”, urla il capitano Ambrousi. “Uomini in mare”.

Sono le 23.25. Il comandante della King Jacob descrive una situazione drammatica al Centro di coordinamento dei soccorsi marittimi di Roma. Sergio Mingrone e i suoi uomini reagiscono immediatamente. Quattro elicotteri, un aereo e diciotto imbarcazioni – navi militari, pescherecci e navi cargo – convergono a grande velocità verso i 33°51’9’’ nord e 14°26’2’’ est, il punto del naufragio. L’obiettivo del pattugliatore Gregoretti, che doveva controllare la pesca illegale nel canale di Sicilia, cambia improvvisamente. Incaricato dalla centrale di coordinare le unità di soccorso, il capitano Gianluigi Bove convoca attraverso gli altoparlanti il suo equipaggio di 34 guardacosta: “Ragazzi, la missione è cambiata. Andiamo a salvare degli uomini in mare”. Questo militare di 37 anni con la barba e il sorriso giovanile calcola “distanza, vento, mare, autonomia”, e cambia rotta a tutta velocità.

Il pattugliatore corre sul mare in una bolla di silenzio increspata solo dal ronzio dei motori e dal gracchiare delle comunicazioni radio. Lascia dietro di sé una scia di schiuma leggera, appena visibile nella notte. Verso le due del mattino, gli ufficiali della guardia costiera arrivano sul posto. Vedono da lontano la King Jacob emergere come “un palazzo in mezzo al mare circondato da frammenti di peschereccio, vestiti, scarpe e chiazze di petrolio”. Due navi portacontainer hanno cominciato le ricerche dei sopravvissuti. Il capitano della Gregoretti non crede ai suoi occhi: sembra “che ci sia stata un’esplosione”. Vengono calati in acqua due gommoni. I guardacosta salgono per gruppi di quattro. Nel primo c’è un infermiere, nel secondo un medico siciliano di trent’anni, Giuseppe Pomilla. Il mare è “immerso in una calma irreale, senza un soffio di vento”. Infagottati nelle tute impermeabili, i soccorritori scrutano l’acqua aiutandosi con i fari sperando di notare un movimento. Nessuno parla, tutti tendono le orecchie per cogliere il respiro dei naufraghi. La notte restituisce solamente l’eco delle voci. “Laggiù, eccone uno”. Poi, di nuovo: “Lì, un altro”. Trovano solo morti: alcuni con gli occhi aperti, altri irrigiditi dalla paura, altri in pace. Per due ore, i soccorritori raccolgono cadaveri.

Poi, d’un tratto, delle grida. Il medico Giuseppe Pomilla fa spegnere il motore del gommone. Le grida riprendono. Una mano si agita debolmente tra i rottami ormai immobili. “È il braccio di un uomo, c’è un uomo vivo”. Lo tirano sulla barca, un ragazzo seminudo comincia a parlare in un inglese approssimativo: “Amo l’Italia, amico mio… Che l’Italia sia benedetta”. Si chiama Hassan Ibnu Abdirazak, viene dalla Somalia e ha sedici anni. È “la gioia fatta persona”. Un’ombra immobile è aggrappata al gommone. Giuseppe Pomilla si avvicina al bordo. Degli occhi lo fissano, una mano lo afferra al polso. “Ce n’è un altro vivo”, urlano i marinai. Il secondo sopravvissuto, in stato di shock, “piange disperatamente”. Scaraventato nell’acqua a diciassette gradi, Sékou l’ivoriano si è aggrappato a un pezzo di plastica. Tornato sulla nave Gregoretti, il dottore chiude la porta dell’infermeria dove sono stati portati i due sopravvissuti quando sente “delle urla terribili”. Sékou chiede di suo fratello Karim. “Dov’è? Dov’è Karim? Se lui è annegato, preferisco morire”. Steso accanto a Sékou, il somalo Hassan Ibnu Abdirazak vaneggia: “Amico mio, che dio li benedica”. Qualcuno chiama Pomilla: “Dottore, dottore”. La King Jacob ha bisogno di un medico. Pomilla riprende il gommone, sale la scaletta ed è guidato fino al ponte della nave “in mezzo ad asiatici che parlano male inglese e ad adolescenti africani di diciassette o diciott’anni con l’aria sconvolta”.

Il medico interroga l’equipaggio della King Jacob. “C’erano donne e bambini?”.
“I sopravvissuti parlano di duecento donne e cinquanta bambini. Tutti morti. Il trafficante li aveva chiusi di sotto”, risponde seccamente un marinaio filippino. Quella notte dalle onde scure vengono tirati fuori 24 corpi e 28 persone ancora in vita, tra cui quattro minorenni. Dodici dei sopravvissuti vengono dal Mali, tre dal Bangladesh, quattro dall’Eritrea, due dal Senegal, due dalla Somalia, uno dalla Sierra Leone, uno dal Gambia, uno dalla Costa d’Avorio, uno dalla Tunisia e uno dalla Siria. Sapevano nuotare o sono riusciti ad afferrare un giubbotto di salvataggio. Gli altri, tutti gli altri, sono morti. Hasan Kasan, il bangladese, respira a malapena. Scaraventato dal ponte superiore, ha sbattuto contro un pezzo di ferro, poi l’acqua gli è entrata nei polmoni. Un elicottero militare lo trasporta d’urgenza verso l’ospedale di Catania. Ha 33 anni. È il più vecchio del gruppo.

Hasan Kasan a Catania, settembre 2016. (Giulio Piscitelli per Internazionale)

Il giorno successivo comincia a circolare un primo bilancio delle vittime: si parla di ottocento morti. “Un’ecatombe senza precedenti nel Mediterraneo”, annuncia l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Avvertito d’urgenza, il presidente del consiglio italiano Matteo Renzi lascia Mantova, dov’era in visita, e torna a Roma. Qui telefona agli altri leader europei: Angela Merkel, David Cameron, François Hollande, Donald Tusk, Jean-Claude Juncker. Alle quattro del pomeriggio Matteo Renzi riunisce i ministri italiani a palazzo Chigi prima di convocare una conferenza stampa. Il capo del governo vuole approfittare dell’occasione per lanciare un appello. Dopo aver insistito sulla “condizione di quasi solitudine” dell’Italia nella gestione dei migranti in arrivo dal Mediterraneo, chiede che si organizzi rapidamente “un Consiglio europeo straordinario”. L’Italia, osserva Renzi, ha fatto il suo dovere. Ma questa operazione di soccorso svolta “con grande professionalità”, non risolve “la piaga” del traffico di esseri umani, che Renzi definisce “schiavismo del ventunesimo secolo”. La tragedia finisce sotto i riflettori dei mezzi d’informazione italiani. In tutto il paese si moltiplicano le dichiarazioni e le prese di posizione. Nel resto d’Europa prevale l’indifferenza. Vista dalla Germania, dalla Francia o dai Paesi Bassi, “l’ecatombe senza precedenti” è presto dimenticata. Eppure mai tanti migranti hanno perso la vita in un naufragio.

Sono passate due notti dall’incidente. In Sicilia il grande porto di Catania si prepara ad accogliere i sopravvissuti. Sulla banchina affluisce lentamente una folla di uomini e donne: attivisti, volontari, sindacalisti, religiosi, insegnanti. I più determinati sono gli attivisti della Rete antirazzista catanese, arrivati appena svegli portando degli striscioni: “Benvenuti”, “Basta naufragi”, “Basta ipocrisia!”, “Unione europea, vergognati”, “Il Mediterraneo non è un cimitero”. I telefoni vibrano di messaggi che si diffondono lungo la banchina. “A quanto pare ci sono solo ventotto superstiti”, “Erano partiti dal Nordafrica”. Passano le ore. La folla si fa più grande, colorata, compatta. In mezzo al gruppo di striscioni si vedono rappresentanti delle autorità in giacca e cravatta, poliziotti in uniforme, soccorritori con i gilet fluorescenti, telecamere, microfoni. Ai giornalisti presenti le autorità italiane spiegano che “bisognerà essere pazienti”: “Prima di arrivare, la guardia costiera deve portare i cadaveri nel porto della Valletta, a Malta”.

La lotta ai trafficanti
La Gregoretti è sempre in mare. Ai sopravvissuti sono stati distribuiti abiti caldi, scarpe, coperte termiche e cibo. Due arabi, dei “bianchi”, come li chiamano gli altri, si tengono in disparte. Gli ufficiali della guardia costiera italiana si accorgono che il più alto, chiamato Mohammed Ali Malek, se ne sta per conto suo. L’uomo, che si dichiara tunisino, si agita, chiede vitamine e sigarette. Dice di non voler stare con gli altri. I poliziotti italiani saliti a bordo lo interrogano.

Gianluigi Bove, capitano del pattugliatore della guardia costiera, è ancora al timone. Dopo il naufragio si è indignato contro i trafficanti di uomini. Poi ha tentennato: “L’incidente sarebbe avvenuto se fossi arrivato prima?”. Ora che è stanco, si è calmato: “Abbiamo fatto quello che potevamo”. Seduti sul ponte della Gregoretti i sopravvissuti della barca senza nome formano un piccolo cerchio, uno di loro guarda il mare canticchiando. Il pattugliatore raggiunge il porto di Catania alle 23.30. La folla è ancora sulla banchina ad aspettare.

Appena sbarcati, i superstiti sono “sequestrati da associazioni e politici”. Il presunto capitano della barca senza nome, il tunisino Mohammed Ali Malek, e il suo “secondo” sono portati via dalla polizia. Cinque giorni dopo l’incidente a Malta viene organizzata una cerimonia interreligiosa per rendere omaggio alle prime 24 vittime. A Bruxelles, nello stesso momento, i 28 leader degli stati dell’Unione europea si riuniscono in “un consiglio straordinario” per rispondere alla “crisi dei migranti”. Si decide di triplicare il bilancio della missione Triton, che mesi prima era stato drasticamente ridotto rispetto a quello di Mare nostrum. Ma la priorità, afferma Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, non è solo “salvare le vite di innocenti”, è anche “lottare contro i trafficanti e ridurre i flussi dell’immigrazione illegale”. Negli ultimi dieci anni sono stati stanziati per la lotta all’immigrazione irregolare più di 13 miliardi di euro.

Non potendo arrivare ai vertici di queste organizzazioni si arrestano gli scafisti

La procura di Catania indaga sul naufragio dal giorno successivo all’incidente. Il fascicolo è finito sotto la riproduzione di un quadro di Monet in un ufficio pieno di scartoffie. Il sostituto procuratore Andrea Bonomo, un uomo serio e minuto con un paio di occhiali sottili appoggiati sul naso pronunciato, si è subito messo al lavoro. La sua squadra ha raccolto le prime testimonianze dei superstiti fin dall’arrivo al porto di Catania. Alcuni saranno ascoltati successivamente nell’incidente probatorio. Il sopravvissuto Kalifa Kanute: “Ricordo che la barca era guidata da un uomo di nazionalità tunisina che gestiva e impartiva ordini. Alle 23 del 18 aprile avvistavamo il mercantile, il capitano della nostra imbarcazione, notando che l’equipaggio non era di nazionalità italiana, invece di avvicinarsi provava ad allontanarsi urtando per tre volte il mercantile. Al terzo urto la nostra barca si è capovolta”. Il sopravvissuto Samba Jacumba: “La sera del 18 aprile era buio. Ci siamo avvicinati al mercantile ma poi il comandante ha accelerato come se avesse voluto scappare, e a quel punto ha urtato tre volte contro la nave. La terza volta, la nostra barca si è capovolta”.
I loro racconti concordano. Mohammed Ali Malek, il tunisino che chiedeva sigarette sul pattugliatore, secondo il magistrato è il comandante della barca senza nome e quindi il responsabile della tragedia.

Mohammed Ali Malek, 27 anni, è accusato di “omicidio colposo plurimo, naufragio colposo e sequestro di persona”. Durante il processo l’accusa di sequestro di persona decade. Il siriano Mahmoud Bikhit, 25 anni, viene identificato come il mozzo, ed è accusato di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. I due uomini rischiano rispettivamente diciotto e cinque anni di carcere. Qualunque responsabilità dell’equipaggio della King Jacob viene esclusa: “Il personale del cargo mercantile ha prestato soccorso coscienziosamente e non ha in alcun modo contribuito al fatale incidente”, osservano gli investigatori. Esperto di processi contro la mafia, nel 2011 il sostituto procuratore Andrea Bonomo è passato a occuparsi di traffico di esseri umani. La procura di Catania negli ultimi tre anni è diventata l’epicentro della lotta al traffico di esseri umani nel Mediterraneo centrale. Bonomo può vantare il primo arresto in mare di trafficanti di esseri umani provenienti dall’Egitto. I suoi metodi sono innovativi.

Per esempio, i sopravvissuti sono considerati testimoni e non sono indagati per il reato di immigrazione clandestina, come prevede la legge. Questa è una novità per la giurisprudenza italiana. La procura di Catania, diretta dal procuratore generale Giovanni Salvi, riesce a imporre questa prassi, che è contestata dagli avvocati, ma ritenuta valida dalla cassazione. Tuttavia i magistrati catanesi si scontrano ben presto con gli ostacoli prodotti dalla situazione in Libia. Nelle testimonianze i sopravvissuti della barca senza nome sostengono di aver pagato degli intermediari al servizio di un trafficante libico soprannominato Ali. Altri raccontano che, dopo mesi di prigionia, sono stati portati a forza sul peschereccio da uomini armati. Come convalidare questi racconti quando dall’altro lato del Mediterraneo regna il caos? Il traffico in Libia è in mano a organizzazioni criminali “fluide”, che cambiano e si adattano rapidamente. I barconi, sempre più carichi, salpano a ritmo sostenuto dalle spiagge di Garabulli, Zuwara, ma anche da Zawiya o da Zliten. Grazie alle intercettazioni e alle testimonianze, gli investigatori italiani riescono regolarmente a identificare i capi. Ma non possono chiedere né rogatorie né estradizioni, perché in Libia da anni non ci sono istituzioni con cui collaborare. Non potendo arrivare ai vertici delle organizzazioni, quasi ottocento “scafisti” o “capitani” sono stati arrestati in Italia nel 2016.

Operazioni di recupero
La marina militare italiana impiega un mese a localizzare il relitto che riposa in fondo al Mediterraneo. Il recupero del barcone è stato chiesto dal presidente del consiglio in persona che vuole dare un segnale agli altri leader europei. Le ricerche sono complesse: la barca è affondata a 180 chilometri dalle coste libiche e a 320 chilometri dalla Sicilia, in una zona di piattaforme petrolifere. I robot esplorano un’area di 1.800 chilometri quadrati. I primi corpi sono recuperati il 7 maggio. Nel luglio del 2015 all’ospedale di Catania il medico legale Cristina Cattaneo esamina i primi tredici cadaveri. È la direttrice del Laboratorio di antropologia e odontologia forense (Labanof) dell’istituto di medicina legale dell’università statale di Milano, ha 51 anni, capelli corti e spettinati, gli occhi che brillano di passione. Da anni Cattaneo chiede al parlamento italiano di adottare una legge che autorizzi la creazione di una banca dati per identificare i morti senza nome. “Una persona che muore senza nome è una storia senza conclusione”, dice. Quando Vittorio Piscitelli, il commissario straordinario per le persone scomparse, la coinvolge nel progetto d’identificare le vittime del naufragio del 18 aprile, ricorda di aver riempito in fretta una valigia e di essersi precipitata sul primo treno notturno per la Sicilia. Cattaneo, infatti, non prende aerei da anni.

Il sostituto procuratore di Catania Andrea Bonomi, settembre 2016. (Giulio Piscitelli per Internazionale)

È il terzo naufragio di cui si occupa. Era ancora una specializzanda quando ha esaminato nel 1997 i corpi di numerosi albanesi annegati dopo un naufragio nell’Adriatico. Era già a capo del Labanof quando si è occupata dei 368 migranti morti al largo di Lampedusa nell’ottobre del 2013. In quell’occasione ha contribuito all’elaborazione di un protocollo d’identificazione dei morti senza nome, un’iniziativa unica in Europa. “Più di trentamila persone sono annegate nel Mediterraneo dal 2000. È uno dei più grandi disastri di massa dalla seconda guerra mondiale”. Quello che la colpisce, dice Cattaneo, “non sono tanto i numeri quanto l’indifferenza. È scandaloso pensare quale diversità di trattamento riserviamo a questi morti, rispetto ai morti di qualsiasi disastro aereo avvenuto in Europa”.
Sul pavimento di una stanza dell’ospedale di Catania, Cattaneo e i suoi collaboratori lavorano alle autopsie per trenta ore senza interruzioni. Oltre a prelevare il dna, esaminano le caratteristiche morfologiche, fanno l’inventario dei documenti d’identità, dei sacchetti di terra e delle foto che a volte trovano cuciti nelle tasche. “Arriviamo a dire che è inutile identificare i morti, che le famiglie non li reclamano, ma questo non è vero. Le famiglie non sono informate e spesso non possono denunciarne la scomparsa, non sanno a chi rivolgersi. Il risultato è che i nostri cimiteri sono pieni di morti senza nome”.

Il centro di accoglienza per richiedenti asilo di Mineo, un comune della provincia di Catania, è un’ex base militare statunitense. È anche uno dei più grandi campi profughi d’Europa. I sopravvissuti della barca senza nome – Samba, Omar, Kalifa, Sékou, Hasan, Vaiton, Makan, Tanja e Mansour (il cui nome è stato cambiato per proteggerne l’identità) – sono portati a Mineo, parcheggiati nel campo con altri 3.500 migranti dietro alle recinzioni di filo spinato alte tre metri. Il loro sogno d’Europa finisce qui, tra i campi e gli aranceti battuti dallo scirocco. Avevano immaginato “città ricche”, si ritrovano bloccati in uno scenario di cartapesta: case gialle e rosa allineate lungo Intrepid lane o Constitution avenue.

“È questa l’Europa?”, chiede Mansour, un senegalese di trentun anni che ogni notte rivive il naufragio, le urla di quelli che non sanno nuotare e si aggrappano a lui, quelli che per sopravvivere ha dovuto lasciar annegare. Più di settecento morti, tra cui un ragazzo che chiama fratello: “Aveva diciotto anni, era piccolo. Non era un fratello di sangue, ma le nostre famiglie si conoscevano. Non ho ancora avuto il coraggio di chiamare la madre”. Sul materasso appoggiato per terra, Mansour pensa ai suoi familiari, alla spiaggia, agli amici di Dakar, al suo piccolo negozio di tappezziere. “Perché sono partito?”. Le giornate scorrono tutte uguali, tutte malinconiche. Mansour non ha nulla da fare, si tormenta nei pensieri negativi. Non ha ricevuto i 2,5 euro quotidiani che gli spettano. Il campo “si arricchisce sulla pelle dei rifugiati”, accusa. Il centro di Mineo è oggetto di una grossa inchiesta giudiziaria che coinvolge una cinquantina di persone: politici, funzionari, imprenditori accusati di appropriazione indebita di fondi pubblici stanziati per gli “ospiti”. L’accoglienza dei richiedenti asilo può diventare un affare. “Il traffico di droga è meno redditizio dei migranti”, ha detto Salvatore Buzzi, capo di un’organizzazione coinvolta nell’inchiesta Mafia capitale.

Tra gli effetti personali ci sono foto, carte d’identità, numeri di telefono

Le operazioni per riportare a galla la barca senza nome sembrano interminabili. Problemi tecnici, condizioni meteorologiche difficili: l’operazione è rimandata di settimana in settimana. Il peschereccio riposa inclinato sulla chiglia a 375 metri di profondità. I segni dell’impatto sono visibili sulla prua e sul lato sinistro della poppa. Nessuno sa quanti morti si trovino ancora nella pancia della barca. Per tirarla fuori dagli abissi sono state impiegate più di trecento persone e numerosi mezzi per un costo totale di 9,5 milioni di euro. Un’azienda privata specializzata in tecnologia offshore ha fabbricato un’imbracatura per sollevare il relitto.

Il 27 giugno 2016, più di un anno dopo il naufragio, l’operazione di recupero della barca senza nome può finalmente cominciare. La struttura per sollevarla si trova sul rimorchiatore Ievoli Ivory. Dal ponte della nave Anteo, il contrammiraglio della marina militare italiana Paolo Pezzuti controlla le operazioni. In questa zona ci sono forti venti e il rimorchiatore è scortato da due navi militari, la San Giorgio e la Tremiti, che trasportano due elicotteri, un robot, dei container refrigerati per le salme. Ci vogliono ore di lavoro. I sommozzatori agganciano al peschereccio il modulo metallico trasportato dal rimorchiatore. Bisogna posizionare le navi, tirare e fissare i cavi di trazione, controllare le correnti. E, metro dopo metro, il relitto viene sollevato verso la superficie. È notte quando la barca senza nome emerge dall’acqua. Inclinato, come sospeso, il peschereccio sembra pronto a ricadere da un momento all’altro.

Quando finalmente si stabilizza, verso le 22.30, “tutti restano muti, come raggelati”. “Quello che era emerso dalle profondità aveva qualcosa di spettrale. Dai suoi fianchi uscivano acqua, resti di corpi, detriti”, racconta Pezzuti. All’alba il convoglio si dirige verso la base militare di Melilli, ad Augusta, in Sicilia. È un porto della Nato usato per il rifornimento delle navi: attracchi e grandi hangar in un paesaggio di impianti petrolchimici. Il peschereccio azzurro è trainato fino alla base, dove i vigili del fuoco si mettono al lavoro. I corpi erano “ammassati come nei treni per Auschwitz”, cinque per metro quadrato, nella stiva, nella sala macchine e perfino nel pozzo delle catene.

Un alone di mistero
Massimo Ferrante è entrato nella vicenda della barca senza nome dopo una telefonata ricevuta in piena notte. È un giovane avvocato di Catania, a cui spesso capita di difendere d’ufficio presunti scafisti. Così incontra il tunisino Mohammed Ali Malek, accusato di essere il capitano del peschereccio. Nel settembre del 2016, a poche settimane dal verdetto di primo grado, Ferrante sta mettendo a punto la difesa del suo cliente. Riassume la sua storia in poche parole. Mohammed Ali Malek, nato nel 1988 in una piccola città costiera della Tunisia, avrebbe attraversato il Mediterraneo una prima volta durante la primavera araba per raggiungere “una fidanzata” in Italia. Rimpatriato, avrebbe voluto ritentare la fortuna per “stare con la ragazza e il figlio”. Si spiegherebbe così la sua presenza sul peschereccio. Il presunto capitano giura “che un altro bianco guidava la barca, forse un bangladese dalla pelle chiara, che è morto”. L’avvocato sostiene la versione del suo cliente: “Mohammed Ali Malek è un migrante come gli altri”.

Un punto lo turba. E se fosse stata la nave portacontainer King Jacob a causare l’incidente? Questa pista ovviamente spianerebbe la strada alla difesa. È difficile non notare le contraddizioni nella testimonianza del capitano della King Jacob. “Ha dichiarato che c’erano onde alte tre metri mentre non era vero, ha detto che era fermo e poi che avanzava ancora alla velocità di tre nodi”. Ferrante è colpito dall’“alone di mistero che circonda la nave cargo”: “Vorrei capire perché nessuno dei diciotto membri dell’equipaggio abbia fatto un video o una foto, perché gli uomini della King Jacob sono stati tutti esclusi dalle indagini, tranne il capitano e il suo secondo”. Come gli aerei, le grandi navi sono dotate di una scatola nera che raccoglie automaticamente i dati. Una scatola nera che il capitano della King Jacob non ha fornito: “Quando gliel’hanno chiesta ha detto: ‘Sì, ce l’abbiamo, ma credo che abbia registrato solo quello che è successo dopo l’impatto’”.

L’avvocato ha contattato il capitano filippino, poi il suo armatore, Msc, una delle più importanti società di trasporto marittimo al mondo, e anche una delle meno trasparenti. Non ha ottenuto la scatola nera. “Sa cosa trasportava la nave cargo?”, chiede. “Quando la King Jacob è arrivata a Palermo, la polizia è salita a bordo, ma non ha controllato i container. Il capitano ha detto che trasportavano cibo in Libia”. “Secondo lei nascondevano merce illegale?”. “Assolutamente sì”. In questo “alone di mistero” ci sono due certezze. L’armatore non ha risposto alle richieste di un’intervista. E, poco dopo il naufragio, la King Jacob ha cambiato nome per diventare l’Msc Isabelle.

Sotto i tendoni
È passato un anno e mezzo dall’ecatombe “senza precedenti nel Mediterraneo”. In quell’arco di tempo sono arrivati in Europa un milione e mezzo di migranti. Una sede dell’agenzia Frontex è stata aperta a Catania, vicino alla base Nato di Melilli, dove riposa all’aria aperta la barca senza nome. Appoggiata su degli enormi cavalletti, tra un prato brullo e le banchine di rifornimento delle navi militari, il peschereccio dall’azzurro ancora acceso sembra un oggetto inutile. Qualche metro più in là, sotto un enorme hangar, due tendoni verde mimetico esalano un odore nauseante. Davanti ronza il motore di un grande camion refrigerato. I tendoni servono da obitorio. All’interno, studenti in tuta bianca esaminano i resti degli annegati della barca senza nome per ricostruire la storia dei loro corpi decomposti dal sale. Ogni pezzo di osso è registrato prima di essere infilato in una delle bare allineate accanto.

Gli specializzandi e i medici legali hanno accertato la morte di 723 persone. In alcuni sacchi i ricercatori hanno raccolto i resti di diversi individui. I corpi ritrovati sul fondo del mare vicino al relitto sono 217. Gli altri sono stati estratti in diversi punti della barca: 189 dalla coperta, 212 dalla stiva, 42 dalla sala macchine e 15 dalla sentina. Tra gli effetti personali degli annegati ci sono foto, biglietti da visita, carte d’identità, pagelle scolastiche, foglietti con numeri di telefono, sacchetti di terra del paese d’origine, croci, Corani, certificati di vaccinazione, carte sim, banconote, spazzolini da denti, orologi, merendine al cioccolato confezionate.

Per guadagnare tempo, è stata messa in piedi una collaborazione tra il laboratorio milanese di Cristina Cattaneo, il ministero dell’istruzione e i dipartimenti di medicina legale e di antropologia di tredici università. All’inizio del lavoro tutti i ricercatori hanno cominciato a fare sogni strani. Il medico legale Danilo De Angelis sognava donne che lo consolavano, Cristina Cattaneo persone impiccate sul ponte di una barca. Quando la dottoressa Antonina Argo, dell’università di Palermo, ha trovato dell’aspirina in tasca a uno degli annegati, ha pensato: “Avrei potuto metterla in tasca a mio figlio, prima che partisse per un viaggio”. Sotto i tendoni, tra i settecento sacchi per le salme, ne sono tutti consapevoli: quello che stanno facendo “è dare a tutti il segnale che non chiudiamo gli occhi”.

Pippo, impiegato del cimitero di Catania, indica un viale: “I corpi sono laggiù”. Al cimitero le salme arrivano direttamente da Melilli e sono sepolte in un terreno senza lapidi. Solo un numero scritto su una targa metallica permette di identificarle. Il sindaco della città ha fatto realizzare un monumento funerario. Un po’ ovunque in Sicilia, dei semplici cittadini cercano di ridare dignità ai più di 1.600 migranti anonimi sepolti sull’isola: poesie incise nel legno, lapidi di marmo offerte da donatori, qualche fiore. Pippo ha seppellito molti dei corpi della barca senza nome a Catania. Hanno “la fortuna di avere delle bare, per gli altri non abbiamo nemmeno i teli in cui avvolgerli”. Fa qualche passo: “Qui ci sono i bambini di un altro naufragio. Vederli così piccoli, con gli occhi ancora aperti. Che posso dirle? A loro ho dato una coperta”. Ora nel suo cimitero “non c’è più posto”. Così gli annegati sono mandati a Siracusa, dove vengono sotterrati. “Immigrato sconosciuto deceduto nel canale di Sicilia”, è scritto sulle lapidi.

Il processo del capitano della barca senza nome si è concluso nel dicembre del 2016. Il giudice ha accolto la richiesta dell’accusa di applicare il massimo della pena. Mohammed Ali Malek è stato condannato a diciotto anni di carcere, il suo aiutante a cinque. Qualche settimana prima del verdetto, il capitano della barca senza nome ci aveva mandato una lettera. Tre mesi dopo ne ha inviata un’altra. Nella seconda lettera, scritta in arabo dopo la condanna, dice: “Non sono un assassino, e non sono un capo, e non sono Mohammed Ali Malek. Fratelli della verità, come può un giudice mettere in galera un uomo senza essere sicuro della sua identità? Quando ho chiesto che venisse riconosciuta la mia vera identità, il giudice ha risposto che non aveva importanza”. Malek sostiene che il suo vero nome è un altro e che le autorità non hanno voluto prendere in considerazione la sua vera identità.

Cimitero di Siracusa, settembre 2016. (Giulio Piscitelli per Internazionale)

Un gruppo di ricercatori dell’Università di Londra ha ricostruito nel rapporto Death by rescue il naufragio del 18 aprile 2015 grazie alle testimonianze dei superstiti, alle immagini satellitari, ai documenti ufficiali. L’analisi concorda con quella della giustizia italiana: la King Jacob ha fatto il suo dovere. Ma lo studio punta il dito sugli effetti delle politiche europee, che hanno l’unico obiettivo di controllare le frontiere: “La guardia costiera ha dovuto delegare le operazioni di soccorso alle grandi navi mercantili. Ma i loro equipaggi non hanno la formazione necessaria per operazioni di questo tipo. La struttura di una nave cargo non permette di guidare i soccorsi di barconi sovraccarichi”. Uno degli autori del rapporto, Lorenzo Pezzani, cita un documento riservato dell’agenzia europea Frontex: “Il ritiro delle forze navali, se non programmato correttamente e se non annunciato con sufficiente anticipo, causerà probabilmente un numero maggiore di morti”. Gli esperti avevano ragione: in tre anni il numero dei morti è decuplicato. La traversata del Mediterraneo uccide in media una persona ogni due ore.

Intanto le minuziose ricerche dei medici legali italiani disegnano i contorni delle vite scomparse nel naufragio del 18 aprile. I corpi raccontano molto. Non sono stati scoperti abiti né ossa femminili. A bordo erano tutti uomini. La maggior parte aveva tra i venti e trent’anni. Un terzo erano adolescenti tra i dodici e i sedici anni. Quattro o cinque avevano più di cinquant’anni. Uno di loro era un bambino di circa sette anni. Erano quasi tutti originari dell’Africa: Eritrea, Somalia, Ghana, Mali, Costa d’Avorio, Sierra Leone, Ciad, Senegal, Guinea Bissau e Gambia. Alcuni venivano dal Bangladesh. Tutto questo è confermato dalla cinquantina di documenti d’identità ritrovati. È ancora presto per essere certi del numero esatto di morti: “Circa settecentocinquanta”. Ma forse di più. Cattaneo vorrebbe che le famiglie potessero identificare i loro parenti. Ma come organizzare “un archivio dei migranti senza nome” al livello internazionale? Come raggiungere i parenti in paesi lontani e spesso governati da dittatori? Per Cattaneo, questo progetto “riguarda la nostra umanità” e le polemiche sui costi di questa operazione non la toccano. “Dovremmo piuttosto chiederci perché siamo arrivati al punto di riesumare una fossa comune in mezzo al mare”.

Tracce perdute
Il capitano e il mozzo sono stati condannati in primo grado dal tribunale di Catania. Gli altri 26 sopravvissuti al naufragio sono stati abbandonati dalle autorità italiane. Perfino gli avvocati hanno perso le tracce dei minorenni che dovevano seguire. Tutti hanno ottenuto un permesso di soggiorno umanitario di due anni, un documento che non consente di viaggiare. Ritrovarli è stato impegnativo. Cambiano spesso cellulare, ma soprattutto non hanno voglia di parlare. “A che serve?”, dicono. Trasportato in elicottero in ospedale dopo il naufragio, Hasan Kasan soffre di problemi fisici e psicologici. Tutte le sere, nella piazza centrale di Catania, vende ai turisti piccoli giocattoli e oggetti di fabbricazione cinese. Nasir e Riazul, due minorenni bangladesi, sono stati accolti in un centro per minori d’origine straniera in Sicilia. Riazul, che ha il viso sottile, il naso ben disegnato e un’intelligenza notevole, sogna di scappare in Germania o in Svezia, dove, dice, i profughi sono “accolti meglio”. Mansour il senegalese vive vicino a Milano, a casa di un amico d’infanzia ritrovato su Facebook. Distribuisce volantini pubblicitari, vende borse e altre merci nei parcheggi dei centri commerciali: “I soldi entrano, escono, ma bastano appena per vivere”.

Sei si sono stabiliti in Puglia. Per lo più raccolgono pomodori e altri ortaggi per una quindicina d’euro al giorno. Sékou l’ivoriano, che porta i segni della tortura, è arrabbiato. Suo fratello Karim, morto nel naufragio, è stato sepolto senza che nessuno lo avvertisse e gli dicesse dove: “Non si occupano di noi”. Khalifa ha deciso di andare a Parigi, come cinque altri superstiti: “In Italia non c’è futuro”. Omar ha attraversato le Alpi a piedi, senza cibo. Dopo aver trascorso qualche notte nella metropolitana di Parigi, ha incontrato un altro maliano che gli ha fatto un po’ di spazio in un alloggio per migranti vicino all’aeroporto Roissy-Charles-de-Gaulle di Parigi. Quando ha presentato la richiesta d’asilo in Francia, gli hanno detto: “Guardi che lei non è l’unico a essere sopravvissuto a un naufragio”.

(Traduzione di Francesca Spinelli)

Da sapere: la storia di un naufragio

Dal settembre del 2016 al marzo del 2017 Annalisa Camilli, di Internazionale, e Léna Mauger, della rivista francese XXI, hanno ricostruito la storia del naufragio del 18 aprile 2015 e hanno rintracciato i superstiti. Questa inchiesta è uscita contemporaneamente in Italia e in Francia. Le foto sono state scattate da Giulio Piscitelli in Lombardia e in Sicilia. L’inchiesta ha vinto l’edizione 2017 del premio giornalistico della Fondazione euromediterranea per il dialogo fra le culture Anna Lindh.

Questo articolo è uscito il 14 aprile 2017 nel numero 1200 di Internazionale, a pagina 40. È uscito in contemporanea in Francia su XXI.

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