21 dicembre 2018 16:07

Blow-up è un film del 1966 diretto da Michelangelo Antonioni. Ispirato liberamente a un racconto dello scrittore argentino Julio Cortázar, Le bave del diavolo, è la prima opera che il regista realizza fuori dall’Italia. Racconta di Thomas, un fotografo di moda annoiato dal suo lavoro che vive nella swinging London. Un giorno scatta per caso delle foto a una coppia in un parco. Quando le stampa si accorge di avere ripreso una situazione poco chiara e si convince di trovarsi davanti a un mistero da risolvere. Thomas è interpretato da David Hemmings, mentre la donna incontrata nel parco, Jane, è Vanessa Redgrave.

In genere Blow-up è il film che piace anche a chi non è un appassionato di Antonioni, perché ha dei toni decisamente più leggeri rispetto a pellicole come Il grido o Il deserto rosso ed è ambientato nella Londra degli anni sessanta, tra pop art, set fotografici, concerti rock e festini. La visione avanza in maniera agile, ma questi elementi non devono farci considerare il film come le due ore di vacanza del regista ferrarese: al contrario, riflette in maniera brillante sulla natura ambigua e ingannevole dell’immagine, e si rivela “come un’efficace metafora visiva delle incommensurabili ambiguità della vita stessa”. Quest’ultima citazione appartiene a Philippe Garner, storico, curatore e collezionista che contribuisce alla ricchezza dei contenuti raccolti in un nuovo libro pubblicato a novembre da Contrasto, Io sono il fotografo. Blow-up e la fotografia.

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Il libro analizza il rapporto del film con la fotografia, raccogliendo contenuti di varia natura che nell’insieme lasciano al lettore una prospettiva stimolante: un fatto di per sé sorprendente se si pensa a quanto sia stato già scritto su quest’opera. Parte dal racconto di Cortázar, che ci permette di capire quanto per Antonioni abbia rappresentato soprattutto una suggestione per giungere alla sua riflessione sull’atto del vedere e sulla percezione della realtà.

C’è il soggetto del film, scritto da Antonioni, che sorprende per accuratezza: leggerlo è un po’ come rivedere le scene nella propria testa, una dopo l’altra. Garner ci racconta invece la storia dietro agli ingrandimenti delle foto scattate al parco, i blow-ups che Thomas appende in camera oscura e in cui intravede qualcosa di insolito. Ci permette anche di scoprire come questi ingrandimenti abbiano fatto perdere le loro tracce per un po’ e siano stati ritrovati solo nel 1996.

La busta con gli ingrandimenti originali usati in Blow-up. (Per gentile concessione di Philippe Garner)

Io sono il fotografo ci fa entrare dentro a ciò che succede durante la lavorazione di un film, ancora prima delle riprese. Antonioni vuole conoscere bene l’ambiente e gli stili di vita dei fotografi e dei pittori (un altro personaggio è Bill, un pittore amico di Thomas) nella Londra degli anni sessanta. Decide così di scrivere dei questionari molto specifici da sottoporre ad artisti, giornalisti e critici che vivono e lavorano nella swinging London. Le domande sono tante, vanno dai gusti musicali, ai rapporti con le mogli (le mogli, certo, perché si tratta solo di fotografi maschi), all’atteggiamento nei confronti dei soldi, della religione o della politica. I nomi che vengono in mente e che poi troviamo anche largamente citati sono tre, la cosiddetta black trinity: David Bailey, Terence Donovan e Brian Duffy. Se Antonioni si ispira a loro per il personaggio di Thomas, durante le riprese intreccia anche un rapporto particolare con i fotografi che sono coinvolti direttamente sul set, in qualità di autori delle foto usate a scopo narrativo (John Cowan) o dei famosi ingrandimenti (Don McCullin) o ancora come fotografi di scena (Arthur Evans). Un rapporto analizzato nel libro dal saggio di Walter Moser, curatore del dipartimento di fotografia del museo dell’Albertina di Vienna.

Antonioni sceglie un fotografo come protagonista del suo film perché la fotografia è di per sé un’arte veloce, legata all’attualità – espressa attraverso il racconto di una guerra come delle ultime tendenze della moda – e quindi capace di rappresentare la controcultura giovanile e la rivoluzione culturale che negli anni sessanta è in corso a Londra. Blow-up contiene questo e molto altro, è un capolavoro che sprigiona tanti livelli di lettura, come succede nell’ultimo capitolo di Io sono il fotografo, dove lo scrittore Alberto Moravia coinvolge il regista in una conversazione da cui partono riflessioni, dubbi e confronti sui processi creativi, sulla società del dopoguerra e la condizione umana.

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