11 dicembre 2019 14:53

Dietro le quinte dell’Auditorium parco della musica di Roma c’è un labirinto di porte e corridoi. Venerus cammina a passo lento verso il suo camerino e si guarda intorno, come se facesse fatica a orientarsi. A un certo punto si apre una porta da cui escono alcuni ragazzi che stanno facendo le prove in una sala da concerto. Portano a tracolla dei violoncelli. Dopo qualche minuto finalmente ci siamo, abbiamo trovato il camerino. Venerus entra e si siede di fronte allo specchio. Si sistema le maniche della camicia vintage e appoggia le dita piene di anelli sui pantaloni di pelle.

“Ieri sera ho suonato a Torino, ho dormito due ore. Ho fatto un viaggio di merda perché sul treno tutti continuavano a svegliarmi. A un certo punto dei poliziotti mi hanno svegliato per controllarmi i documenti. Però quando sono arrivato sono entrato all’Auditorium e ho notato il pianoforte a coda sul palco: quella visione mi ha cambiato la giornata”, racconta il musicista milanese, che tra poche ore salirà sul palco dello Studio Borgna insieme alla sua band. Ogni tanto si sistema i capelli, dove spuntano delle meches bionde.

Andrea Venerus, che per nome d’arte ha scelto il suo vero cognome, ha 27 anni ed è una delle cose più interessanti successe alla musica italiana negli ultimi anni. Non è semplice definire il suo stile, perché nelle canzoni che scrive convivono elementi diversi: pop, jazz, rap, soul ed elettronica. Forse conviene dire semplicemente che è un cantautore. Non ha ancora pubblicato un album, ma solo alcuni ep. Ha collaborato con nomi importanti dell’hip hop italiano come Gemitaiz e Franco126 e per questo alcuni, sbagliando, lo considerano un artista di quel tipo.

“Da piccolo ero molto introverso e sensibile. A scuola tutti mi chiedevano ‘Da dove viene il nome Venerus?’ e questa cosa mi ha sempre condizionato. Ho sempre avuto la sensazione di essere straniero nel mio mondo. Venerus è un cognome friulano e l’ho scelto come nome d’arte perché sembra una cosa misteriosa ma in realtà è il mio nome vero. È anche una scelta artistica: il mio percorso deve rispecchiare completamente la mia identità, non ci sono confini tra le cose che vivo e quelle che scrivo”.

Venerus è nato e cresciuto a Milano, nel quartiere San Siro. Ha vissuto per cinque anni a Londra, dove ha studiato chitarra in un’accademia di musica contemporanea. “Adoravo Londra, ma sono sempre stato un po’ per i cazzi miei, non socializzavo molto. Le accademie non sono sempre un luogo di creatività, molte persone sono lì solo perché sono appassionate di uno strumento. A un certo punto io ho avuto quasi il rigetto della chitarra, l’ho messa in un angolo e non la suonavo più. Ho capito che mi interessava più scrivere e coltivare la mia dimensione di autore, così ho imparato il piano da autodidatta. Non sono un virtuoso e non m’interessa esserlo”, dice il cantante.

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Dopo Londra, si è trasferito a Roma. “Ci sono finito un po’ per caso e un po’ per istinto. Dopo cinque anni di grande solitudine londinese avevo bisogno di un posto del genere. Vivevo a San Lorenzo e passavo un sacco di tempo in giro di notte, come se cercassi qualcosa. Fino a quel momento avevo sempre scritto brani in inglese, che è la lingua musicale con cui mi sono formato fin da piccolo. Mio padre a casa ascoltava sempre Charles Mingus e altri dischi jazz. A Roma per la prima volta ho pensato che avrei voluto scrivere in italiano. Lì ho composto brani come Altrove e Ioxte, che sono finiti nel mio primo ep, A che punto è la notte”.

Frank Ocean e vino rosso
I riferimenti musicali di Venerus sono soprattutto stranieri, anche se ad ascoltarlo vengono in mente nomi italiani come i Casino Royale e Neffa. “Ho ascoltato molto Frank Ocean e James Blake, ma mai in modo ossessivo. Non voglio essere ‘il Frank Ocean italiano’ o ‘il James Blake italiano’. Mi piace diversificare i miei ascolti. Ultimamente per esempio sono in fissa con Sgt. Pepper’s lonely hearts club band dei Beatles, ma anche con i primi dischi solisti di George Harrison e John Lennon. I Beatles avevano una libertà intellettuale totale: erano la band più popolare del mondo ma non avevano paura di sperimentare. Sono stati unici. Pochi altri artisti sono stati liberi quanto loro: uno è Kanye West. Nessuno si mette in discussione come lui. Entrambi mi hanno cambiato la vita. Ma sono anche appassionato di elettronica: in questi giorni sto consumando The idiots are winning di James Holden”.

Bussano alla porta. Entra una ragazza e gli porta una bottiglia di vino rosso. “In Italia la musica purtroppo è ancora troppo succube della televisione. E finché sarà costretta a passare da lì per diventare nazionalpopolare sarà sempre un problema”, dice Venerus. “Il rap e la trap invece hanno fatto molto bene al nostro paese, l’hanno svecchiato. Per questo mi piace collaborare con artisti di quel genere. Sfera Ebbasta per esempio è un genio. Pochi hanno avuto la sua visione e ambizione. I suoi pezzi vecchi, tipo XDVR, li so a memoria”, aggiunge. E Venerus che visione ha di se stesso? “Penso in grande. Mi piacerebbe diventare famoso anche all’estero. E voglio continuare a fare ricerca musicale e ad arrivare a un pubblico il più ampio possibile. Sto lavorando al mio primo album. Nei prossimi mesi mi prenderò una pausa dai concerti e mi dedicherò completamente alla scrittura”.

Quasi tutte le canzoni di Venerus sono ambientate di notte e hanno un filo conduttore: le tentazioni. “La notte è un momento intimo, nel quale succedono cose strane. Il giorno è mega razionale: si lavora, si incontrano le persone, di notte uno si ubriaca, sta a casa a leggere, commette crimini, fa l’amore, dorme o sogna. Per questo m’interessa di più. Non mi piace fare le cose in modo troppo calcolato, sono un istintivo. Scrivere canzoni per me non è un lavoro”. Ma il fatto di raccontare le tentazioni è un modo per esorcizzarle? “Ti fanno sentire vivo. Non mi sento succube delle tentazioni, però mi piace giocarci. Mi lascio trascinare dalle situazioni e non sento la necessità di rispettare una struttura morale. Non penso al domani, domani mi arrangerò”, risponde.

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Quando il cantante sale sul palco insieme alla sua band sono passate da poco le nove. Dal vivo emerge un’altra dimensione della sua musica, più calda. Se in studio Venerus usa molto campionamenti e basi elettroniche, in concerto mostra un lato funk e jazz. Se in studio somiglia più a James Blake, in questo contesto sembra ispirarsi a Prince o perfino a classici della canzone italiana come Luigi Tenco. Emerge anche un lato più ruvido della sua voce, e si capisce che lui stesso si sottovaluta quando parla della sua abilità di chitarrista.

Nella prima metà del concerto il pubblico resta seduto, ma quando la band suona Love anthem, no.1 , il brano che dà il titolo al suo ultimo ep, si alzano tutti in piedi e vanno a ballare sotto il palco, che in questa sala, una delle più piccole dell’Auditorium, non è neanche rialzato. Da quel momento in poi il concerto diventa una festa, e viene fuori il lato elettronico di brani come Forse ancora dorme e Sindrome. A un certo punto, per cantare Senza di me, sale sul palco anche il rapper Franco126.

In tutto il concerto dura poco più di un’ora e mezzo, ma visto il repertorio del musicista era difficile chiedere di più. Qualche dettaglio dell’esibizione è ancora da migliorare, soprattutto per quanto riguarda i tempi morti tra un brano e l’altro, e si vede che Venerus non ha ancora trovato la quadra definitiva. Ma l’impressione è che il suo talento sia grande e abbia ancora molto altro da dire, sia in studio sia sul palco. Verso le undici, tra gli applausi del pubblico ormai sparso per la sala, le luci si riaccendono e lui si rituffa nel labirinto, verso il camerino.

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