18 aprile 2019 16:52

Gentile bibliopatologo,
sono un’amante dei romanzi classici e ho un problema con molti dei loro protagonisti: diventano come miei migliori amici e morbosamente mi affeziono. Non sono una persona gelosa, eppure la paura di perdere i loro racconti, di smettere di leggere le loro vite, i loro pensieri e non sapere più di loro, mi porta spesso a non finire i libri. È stato così per il piccolo, curioso, determinato ma in fondo pauroso Pin del Sentiero dei nidi di ragno_; fu lo stesso per il sottotenente Drogo del_ Deserto dei Tartari e la sua eterna attesa; ho vissuto ora per ora la lunga lotta e il coraggio del vecchio pescatore Santiago; ho addirittura avuto problemi a lasciare il tormentato Harry Haller. A volte avrei voluto chiamare i grandi autori e parlare dei miei ormai lontani amici, sapere cosa facessero, ora che il romanzo era finito. Cosa posso fare per non essere sopraffatta da questa nostalgia?

– Caterina

Cara Caterina,
ogni personaggio romanzesco è un homunculus creato in laboratorio da un alchimista, e sappiamo bene, da Paracelso o da Faust, come vanno a finire per lo più questi esperimenti. A volte l’opera non riesce, e per quanto ci si accanisca a irrorarlo di sangue umano, il seme resta intrappolato nell’ampolla come cosa morta; altre volte, al contrario, riesce fin troppo bene, e quell’essere artificiale sfugge al controllo diventando una minaccia per il suo stesso creatore. Qualcosa di simile ha scritto Pirandello nella prefazione a Sei personaggi in cerca d’autore:

Quale autore potrà mai dire come e perché un personaggio gli sia nato nella fantasia? Il mistero della creazione artistica è il mistero stesso della nascita naturale. Può una donna, amando, desiderare di diventar madre; ma il desiderio da solo, per intenso che sia, non può bastare. Un bel giorno ella si troverà a esser madre, senza un preciso avvertimento di quando sia stato. Così un artista, vivendo, accoglie in sé tanti germi della vita, e non può mai dire come e perché, a un certo momento, uno di questi germi vitali gli si inserisca nella fantasia per divenire anch’esso una creatura viva in un piano di vita superiore alla volubile esistenza quotidiana. (…) Ma non si dà vita invano a un personaggio. Creature del mio spirito, quei sei già vivevano d’una vita che era la loro propria e non più mia.

Certo, mi dirai, il creatore potrebbe uccidere la sua creatura. Ma anche in questo caso, la faccenda può finire in molti modi; perché quando il personaggio cade come un frutto maturo dall’immaginazione dell’autore, trova sempre un lettore là sotto a raccoglierlo. E una volta arrivato questo terzo incomodo, l’operazione si complica. Nessuno, che io sappia, si è lamentato con Tolstoj per aver buttato sotto un treno Anna Karenina, ma è andata diversamente per il povero Arthur Conan Doyle. Nel 1893, stanco di quello Sherlock Holmes che gli risucchiava vita ed energie, visitò le cascate di Reichenbach, nelle Alpi svizzere, e decise che era il luogo ideale per sbarazzarsi del suo tirannico homunculus, la scena del delitto perfetto: suvvia, chi sarebbe andato a ripescarlo fin laggiù? E invece, ventimila lettori arrabbiati e delusi cancellarono l’abbonamento a The Strand, la rivista che ospitava quell’ultimo racconto. Dovette riportarlo in vita qualche anno dopo, raccontando altre avventure di Holmes precedenti a quella morte spettacolare.

James Caan e Kathy Bates nel film tratto da Misery non deve morire, 1990. (Columbia/Everett/Contrasto)

Mi pare superfluo consigliarti il capolavoro di Stephen King, Misery non deve morire, dove un’infermiera tiene in ostaggio uno scrittore e lo sottopone a torture di ogni tipo perché resusciti il suo personaggio preferito. E ancora più superfluo raccomandarti di non tentare lo stesso esperimento con gli scrittori viventi che ami: pare sia illegale. Ma visto che la tua patologia affligge moltissimi lettori, sappi che con gli anni un rimedio popolare si è trovato, e si chiama fan fiction. Se infatti svolgiamo coerentemente la premessa di Pirandello, per cui i personaggi vivono di una vita “loro propria e non più mia”, ne consegue che il creatore perde qualsiasi patria potestà sulla sua creatura, e che ogni lettore può farla rivivere, o morire, a piacimento. Scrivere fan fiction è il miglior farmaco per la nostalgia, purché se ne faccia un uso strettamente personale: novantanove volte su cento è saggio tenerla sotto chiave in un cassetto. Come un farmaco, appunto.

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