16 giugno 2017 09:54

Tra i film della settimana merita una citazione La stoffa dei sogni di Gianfranco Cabiddu (qui l’anatomia di una scena). Non perché sia tornato in sala ma perché è stato premiato dalla stampa straniera come miglior film italiano. Quello dei Globi d’oro non è un premio molto in vista, la serata di premiazione non va in diretta tv e non se ne parla molto sui giornali. Eppure è piuttosto significativo, perché non è assegnato da critici veri e propri né da persone in qualche modo legate all’industria cinematografica, e quindi risponde a logiche non troppo diverse da quelle che dovrebbero interessare uno spettatore qualunque. Complimenti quindi a Gianfranco Cabiddu e anche a quelli che noi chiamiamo amichevolmente “italieni” (ecco una recensione proprio di uno di loro) perché hanno saputo individuare questa gemma preziosa.

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Lady Macbeth, di William Oldroyd. È la trasposizione del romanzo Lady Macbeth nel distretto di Mcensk, di Nikolaj Leskov, già portato al cinema da Andrzej Wajda negli anni sessanta e prima ancora, nel 1934, trasformato da Dmitrij Šostakovič in un’opera lirica. La stampa britannica (il film è una coproduzione anglopolacca) si è entusiasmata per l’opera di debutto di Oldroyd, forse anche troppo. Tuttavia quando Peter Bradshaw, sul Guardian, scrive che questo “noir vittoriano” potrebbe aprire una nuova strada maestra nell’infiocchettato mondo degli adattamenti dei classici letterari, siamo pienamente d’accordo con lui, anche se l’idea di adattare i classici senza sfarzo eccessivo non è nuova (basta vedere il recente Una vita di Stéphane Brizé, dal romanzo di Guy de Maupassant).

Il film di Oldroyd è percorso da una tensione continua e ci accarezza in contropelo su temi attuali come abusi familiari e violenza razziale e di classe. Poi, quando è il momento, colpisce allo stomaco. Molto si deve alla messa in scena essenziale (basso il budget del film) ma tanto anche alla giovane protagonista Florence Pugh, già vista in The falling (in cui quasi rubava la scena alla più celebre Maisie Williams e di cui sentiremo ancora parlare), che non si lascia mai sfuggire di mano la sua lady Macbeth in erba sensuale e spietata.

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I giovani sono protagonisti anche di Nerve, di Henry Joost e Ariel Shulman. Venus (Emma Roberts), per provare alla sua amica estroversa che non è una che si limita a guardare gli altri vivere, s’iscrive a Nerve, un gioco online in cui bisogna compiere delle azioni stupide, spericolate e perlopiù deprecabili per guadagnare follower e denaro. Nell’arco di una serata Venus, da timida ragazza di Staten Island si trasforma in una specie di eroina social, tipo Katniss Everdeen su Snapchat. Il gran ritmo imposto alla vicenda non riesce a nascondere la superficialità della scrittura. La sospensione di giudizio comincia a essere messa alla prova molto presto per deflagrare con violenza verso il finale. La confezione è carina e gli attori sono carini, ma tutte queste carinerie forse non valgono il prezzo del biglietto.

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In alcuni film Keanu Reeves tiene ancora botta. In The neon demon, per esempio, anche se in una parte molto breve, o anche in John Wick, anche se il film è una discreta vaccata. In Una doppia verità invece Keanu sembra la copia digitale di se stesso, con tutte le imperfezioni di un avatar da videogame di una volta. Il film, un anonimo thriller giudiziario, non aiuta. Reeves è Ramsey, un avvocato difensore di un ragazzo accusato di aver ucciso il padre violento e prevaricatore (Jim Belushi), per difendere la madre abusata e insultata (Renée Zellweger). Il film è costellato di cose inutili, come la voce off di Ramsey o il personaggio interpretato da Gugu Mbatha-Raw, che scompare senza lasciare tracce a una decina di minuti dalla fine. Per non parlare di un’infinità di dettagli che dovrebbero aggiungere o suggerire qualcosa, ma si rivelano altrettanti vicoli ciechi. Si potrebbe pensare a un film fatto tanto per consumare una pellicola con la data di scadenza che si avvicina pericolosamente.

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In Aspettando il re di Tom Tykwer, Tom Hanks interpreta Alan, il classico salesman statunitense, la cui vita sta lentamente ripiegando su se stessa. Abituato a essere un uomo apprezzato per riuscire a rendere semplice ciò che non lo è, si trova sempre più accerchiato dal fallimento. Un viaggio in Arabia Saudita per convincere il re a comprare un sistema olografico per videoconferenze, sembra l’ultima spiaggia per risalire la china. Il sapore amarognolo di questa commedia molto probabilmente si deve al romanzo Ologramma per il re, di Dave Eggers, da cui è tratto. Non ho letto il libro ma probabilmente meritava una trasposizione che evidenziasse i problemi sollevati dalla premessa, piuttosto che semplificarli. A partire da un’ambientazione saudita molto superficiale, per arrivare alla scelta di un’attrice britannica di origini indiane (Sarita Choudhury) per interpretare una dottoressa araba che sembra piovuta dal futuro. Purtroppo Tom Hanks non basta per creare un legame decente con il personaggio che interpreta.

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In uscita anche Parigi può attendere, debutto alla regia nella fiction di Eleanor Coppola (la moglie di Francis Ford) e Io danzerò, di Stéphanie Di Giusto, biopic di Loïe Fuller, ballerina delle Folies Bergères e pioniera della danza moderna. Si sono invece perse le tracce di Corniche Kennedy, di Dominique Cabrera, storia ambientata sulla strada di Marsiglia a strapiombo sul mare da cui i ragazzi si tuffano in cerca di emozioni forti.

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