23 novembre 2017 19:01

Gli sdraiati di Francesca Archibugi è tratto dal romanzo di Michele Serra del 2013. Ma la regista romana, che ha sceneggiato il film insieme a Francesco Piccolo, ne ha fatto un’opera sua, attualizzando il libro di Serra e allargandone il punto di vista. Giorgio Selva (Claudio Bisio) è il conduttore di una trasmissione molto popolare della Rai, divorziato. Non ha praticamente alcun rapporto con la ex moglie con cui però ha un figlio adolescente, Tito (Gaddo Bacchini), che divide il suo tempo tra i due genitori. Giorgio fatica a capire il mondo del figlio, si lamenta per il suo disordine e perché non sa praticamente niente di lui. Non ha punti di riferimento e non riesce a stabilirne.

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Il confronto generazionale non è esattamente una novità, non certo nei film di Francesca Archibugi. Ma i toni sono quelli del mondo di oggi. In cui il confronto non diventa praticamente mai scontro, non è mai politico, ma intimo. La generazione di Giorgio Selva (e quella di Serra) fatica evidentemente a passare dalla parte di quella che in gioventù hanno contestato e affrontato, quella dei padri. Fatica anche di più, però, a capire quella dei figli. Ma negli Sdraiati non si arriva (e non si cerca nemmeno di arrivare) a una soluzione del problema.

In compenso Francesca Archibugi ci offre tantissimi spunti per osservare il nostro presente. Lo fa alla sua maniera, con uno stile e un tono riconoscibili, almeno per chi la segue dai tempi dei suoi clamorosi esordi (e parliamo della fine degli anni ottanta). Su tutti uno spunto che è dolorosamente attuale, cioè il fatto che viviamo in una società dove esiste la disparità di genere e che viviamo in un paese (e questo è sottolineato con una bellissima scena) dove una donna non è mai ancora stata presidente del consiglio. Forse, anche grazie a pochi ma particolarmente riusciti personaggi femminili (in particolare quelli di una Antonia Truppo sorprendentemente milanese e una Donatella Finocchiaro presidente) Archibugi vuole suggerire che in realtà la soluzione c’è, ed è tutta femminile.

A questo punto è molto bello poter proseguire con un film realizzato da un’altra donna, che tra l’altro è anche la prima (e per ora l’unica) regista ad aver vinto un premio Oscar. Ovviamente stiamo parlando di Detroit, di Kathryn Bigelow. Ho già accennato al film quando è stato presentato al festival di Roma, alla fine di ottobre. Ora entriamo più nel merito. Come suggerisce il titolo, il film è ambientato durante le rivolte che insanguinarono la città del Michigan nell’estate del 1967 e che in sostanza videro la popolazione nera scontrarsi con polizia e guardia nazionale. Il bilancio alla fine degli scontri parla di 43 morti, quasi tutti neri, e migliaia di arresti. Nella prima parte del film, Bigelow ci rimanda rapidamente ed efficacemente nel vivo degli scontri. Poi il quadro si restringe su un singolo episodio, noto come l’Algiers motel incident.

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Credendo che nel motel sia nascosto un cecchino, alcuni poliziotti bianchi, razzisti e violenti (che abbiamo già incontrato in precedenza) brutalizzano alcuni ragazzi neri e due ragazze bianche, arrivando a uccidere alcuni di loro. Grazie al suo indiscusso talento, Bigelow ci fa vivere l’episodio da molto vicino. La tensione sale in modo insopportabile e si soffre al punto che un vero momento liberatorio non arriva mai. Da questo punto di vista è un film perfetto.

Come però fa notare Christopher Orr su The Atlantic Bigelow e il suo fedele sceneggiatore Mark Boal non affondano il colpo contro “la cultura e il sistema che sostenevano (e sostengono ancora) la brutalità della polizia nei confronti dei neri. Uno dei personaggi più riusciti, l’agente Krauss (interpretato alla grande da Will Poulter), è odioso, ma non ci dice nulla sulle forze culturali e istituzionali che hanno nutrito il razzismo e consentito gli abusi in quella città”.

Forse ci sono alcune attenuanti. Probabilmente, scrive ancora Orr, Bigelow e Boal non hanno voluto contribuire a far crescere le forti tensioni dell’attuale momento politico. Sicuramente l’esperienza negativa delle polemiche sulla tortura scatenate da Zero dark thirty ha influito sulle loro scelte. E infine l’episodio del motel Algiers non è mai stato chiarito a livello giudiziario. Molte le ambiguità, riassunte nel film dalla strana parabola del personaggio interpretato da John Boyega. Ma quello che dispiace di più è che l’autrice di The hurt locker non sia riuscita a descrivere le rivolte di Detroit nello stesso modo in cui ha raccontato il conflitto iracheno.

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Avevo qualche aspettativa sulla coppia tutta britannica Idris Elba-Kate Winslet, protagonisti di Il domani tra di noi di Hany Abu-Hassad. Il magnetismo rilassato di Elba e la femminilità divertita di Winslet potevano tradursi in qualcosa di meglio di quello che Jeannette Catsoulis del New York Times ha definito una “monumentale” idiozia. Un neurochirurgo e una giornalista decidono di dividere un charter per raggiungere Denver dopo che il loro volo è stato cancellato. Ma il pilota dell’aereo ha un malore mentre sorvolano le montagne e loro si ritrovano a dover sopravvivere in un ambiente estremo, proibitivo anche per gente allenata. Se la caveranno?

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In uscita anche due prodotti praticamente già scaduti prima di arrivare sugli scaffali come American assassin di Michael Cuesta e Flatliners di Niels Arden Oplev, remake di Linea mortale di Joel Schumacher, film che si ricorda principalmente perché Julia Roberts e Kiefer Sutherland si sono fidanzati dopo essersi conosciuti sul set.

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