27 ottobre 2017 19:39
Manifesto. (Dr)

Il festival del cinema di Roma è cominciato con un western, Hostiles di Scott Cooper (Il fuoco della vendetta). Negli ultimi anni dell’ottocento un drappello di soldati deve scortare un grande capo dei cheyenne nel luogo dove vuole essere seppellito. Il grande capo è uno di quelli che ha fatto lo scalpo a Custer, a Littlebighorn, ma ormai è vecchio e malato. I soldati blu dovranno accompagnarlo da una specie di campo di concentramento del Nuovo Messico al Montana, dove c’è un territorio sacro dei cheyenne. Al comando del drappello c’è un intenso (come al solito) Christian Bale nei panni di un esperto capitano, celebre per la sua mano pesante con i nativi. Sulla loro strada incontreranno ostacoli di ogni genere, razza e colore. Nel cast anche Rosamund Pike, sempre più che convincente quando esce fuori dalle righe (come in Gone girl).

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Insomma una buona partenza. Sono rimasto un po’ deluso invece da Detroit di Kathryn Bigelow, che ricostruisce un episodio avvenuto nel motel Algiers della Motor City dove, durante le rivolte dell’estate del 1967, degli agenti della polizia locale, bianchi, uccisero tre neri innocenti e disarmati. L’ho trovato debole politicamente, soprattutto considerando le tensioni razziali che percorrono gli Stati Uniti. Scappa. Get Out è un film di adesso, Detroit potrebbe tranquillamente essere un film degli anni novanta. Ma ci sarà modo di ritornarci.

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Per pochi giorni in sala c’è Manifesto di Julian Rosefeldt: film concettuale che permette a Cate Blanchett di strabiliare con le sue capacità interpretative. L’attrice australiana declama, in 13 quadri, celebri “manifesti” di movimenti letterari, politici, artistici e via dicendo. Dà voce a Karl Marx, Tristan Tzara, André Breton, ai futuristi, a Rodchenko, a John Cage, addirittura a Von Trier e a Vinterberg e a tanti altri. In ognuno dei quadri Blanchett cambia ambientazione, personaggio, aspetto e accento. Il film nasce come una specie di versione tagliata (90 minuti) di un’installazione video più lunga (circa 130 minuti) presentata a Melbourne nel 2015.

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Curiosa operazione, ma forse necessaria, quella che riguarda Thor. Nell’ultimo film con la divinità nordica come protagonista, Thor. Ragnarok, il regista neozelandese Taiki Waititi compie una decisa svolta nella saga, iscrivendo il biondo dio del tuono, intepretato da Chris Hemsworth, al club dei supereroi più scanzonati. Quindi siamo di fronte a un film molto divertente, che però si allontana dal mondo Marvel con cui siamo cresciuti (il dottor Blake? E chi è?). Ma con questo probabilmente bisogna fare pace definitivamente. La svolta appare però necessaria, perché la saga seriosa dei primi due film di Thor era oggettivamente difficile da mandare avanti. In Ragnarok, in compenso, Waititi può sfruttare la vena d’ironia che non manca ai suoi interpreti (Hemsworth, Hiddleston, Blanchett e naturalmente Jeff Goldblum). Da vedere accompagnati dai bambini (non troppo piccoli).

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In Cecoslovacchia prima e in Repubblica Ceca e in Slovacchia poi, la commedia è un genere molto frequentato. L’ironia e il senso dell’umorismo fanno parte del bagaglio cinematografico. Dai primi film di Miloš Forman alle commedie agrodolci di Jan Svěrák, gli esempi anche più recenti non mancano. Cure a domicilio di Slávek Horák è la storia di Vlasta (Alena Mhulová), infermiera a domicilio che si fa in quattro per gli altri finché non scopre di essere malata. Sulla carta potrebbe sembrare triste, ma non è così. Nell’umanità del marito (Boleslav Polívka), una specie di vignaiolo ubriacone e pigro, e nella determinazione di un’amica pranoterapeuta (Tatiana Vilhelmová), troverà gli strumenti giusti per affrontare la sua condizione.

A un certo punto l’amica regala a Vlasta un cucchiaio piegato con la sola forza delle dita. Come non pensare a Uri Geller e a quella Indagine critica sulla parapsicologia di Piero Angela, andata in onda sulla Rai nel 1978, che fu una specie di apripista di Quark (la sigla non lascia dubbi). Horák, che ha anche scritto la sceneggiatura, torna al cinema (è stato assistente alla regia di Svěrák in Kolya, Oscar nel 1996) dopo una lunga carriera in pubblicità.

Anthony Lane sul New Yorker fa un bell’elogio di Robert Pattinson. Racconta l’incontro tra H.L. Mencken e Rodolfo Valentino in un ristorante di New York nell’agosto del 1926. Mencken descrive Valentino come un uomo consumato dal suo successo, dalla sua statura di divo. Ogni volta che una fan urlava il suo nome, al grande seduttore del muto sembravano torcersi le budella. Valentino non ne è uscito vivo (è morto di peritonite due mesi più tardi). Ma, continua Lane, ci sono modi meno definitivi per sfuggire dal frullatore della ultracelebrità. Ci si può ritirare dalle scene, cadere in qualche scabroso scandalo oppure buttarsi nel lavoro.

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Pattinson ha usato quest’ultima strada per scrollarsi di dosso il personaggio di Edward il bel vampiro di Twilight che ha fatto impazzire le ragazzine tra il 2008 ed il 2012. Forse sarebbero stati sufficienti due film con Cronenberg, uno con Herzog e la breve apparizione come dittatore in L’infanzia di un capo di Brady Corbet. Ma Pattinson sembra averci preso gusto. E soprattutto funziona. Anche la sua controparte in Twilight, Kristen Stewart, ormai ha imboccato questa strada. Pattinson è protagonista di Good time di Ben e Josh Safdie, la storia di un piccolo criminale che cerca di tirare fuori di galera in tutti i modi il fratello con problemi di apprendimento, dopo essere stato in qualche modo la causa del suo arresto. A breve pubblicheremo una lunga recensione di Francesco Boille su questo film presentato in concorso all’ultimo festival di Cannes.

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Vittoria e Abdul, di Stephen Frears, racconta l’amicizia della regina d’Inghilterra con il suo domestico/confidente indiano musulmano. Judi Dench interpreta Vittoria e Ali Fazal interpreta Abdul. In uscita anche La ragazza nella nebbia, thriller che Donato Carrisi ha tratto dal romanzo che lui stesso ha scritto. Ci sono stati tanti scrittori che si sono lamentati degli adattamenti cinematografici dei loro film. Carrisi non dovrebbe avere problemi.

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