05 ottobre 2018 12:06

La giornalista pachistana Rafia Zakaria parteciperà al festival di Internazionale venerdì 5 ottobre, con Marta Dillon, Marta Lempart, Katha Pollitt e Ida Dominijanni, per parlare dei movimenti femministi nel mondo.

Una notte del 2016, mentre Rukmini Callimachi era sola nella sua casa di New York perché il marito era al lavoro, qualcuno ha cominciato a bussare alla porta e a suonare il campanello. I colpi alla porta e il trillo del campanello non accennavano a finire, così Callimachi ha chiamato terrorizzata il 911. La giornalista del New York Times, esperta di terrorismo, pensava che il gruppo Stato islamico (Is) fosse venuto a cercarla. Invece non era l’Is ma qualcosa di piuttosto banale: un tecnico incaricato di avvisare i residenti che si era rotta una tubatura e che non funzionava lo scarico dei gabinetti. La storia, che secondo l’autrice è il primissimo esempio di come Callimachi non si sia fatta intimidire dall’Is, è raccontata nel podcast del New York Times Caliphate.

Definito uno strumento per dipanare i misteri dello Stato islamico, Caliphate ha come protagonista e narratrice Callimachi, un’intrepida giornalista abbastanza umana da essere paranoica e abbastanza giornalista da essere disposta a osare. Caliphate è anche un nuovo modello di giornalismo occidentale, in cui il giornalista è l’eroe morale, al tempo stesso paladino dei valori occidentali (ossia “buoni”). Se Callimachi si accanisce e spolpa i suoi personaggi, o si prende libertà rispetto all’etica giornalistica perfino nelle rassicurazioni che offre agli intervistati, tutto le viene comunque perdonato in nome del più alto obiettivo della lotta al terrorismo.

I primi episodi di Caliphate trasmettono questa impressione, pieni come sono di promesse sulla verità a proposito del gruppo Stato islamico che sta per essere rivelata. Questa rivelazione però non arriva.

Gli occidentali, e tra loro i giornalisti, si ritengono impegnati a combattere la guerra giusta contro il terrorismo

Invece ci ritroviamo con un ragazzo, Abu Huzaifa, un tizio che Callimachi, dopo aver setacciato in lungo e in largo diversi forum jihadisti, è riuscita a convincere a farsi intervistare in un albergo in Canada. Se (come me) vi state chiedendo come mai questo “vero terrorista” abbia accettato una cosa simile, i vostri interrogativi resteranno senza risposta. Per Callimachi il gobbo e incappucciato Abu Huzaifa appare minaccioso e pericoloso proprio perché non sembra nessuna delle due cose. La giornalista non fa che ripeterci che il punto è proprio il suo aspetto “normale”. L’implicazione è che qualsiasi uomo dalla carnagione bruna potrebbe essere un terrorista.

Callimachi lo incalza. Niente di sorprendente, visto che i giornalisti danno da sempre la caccia alle storie. La giornalista del New Yorker Janet Malcolm ha detto diversi decenni fa: “Inseguire la vanità delle persone, conquistarsi la loro fiducia e poi tradirle senza alcun rimorso” sono trucchi del mestiere. Al tempo stesso però, se è vero in generale che il trucco di ingannare un soggetto per convincerlo a rivelare la sua storia può essere uno stratagemma trito e ritrito, il giornalismo predatorio dell’era della guerra al terrore ha degli aspetti peculiari.

Se i giornalisti descritti da Malcolm fingono con disinvoltura di voler davvero comprendere le loro fonti prima di abbandonarle senza troppi complimenti, gli attuali giornalisti avvoltoi, esaltati dalla loro inedita posizione di eroi morali, li portano a un livello di disumanizzazione perfino quando continuano a ribadire di voler fare l’opposto. Gli occidentali, e tra loro i giornalisti, si ritengono impegnati a combattere la guerra giusta contro il terrorismo e contro chiunque altro occupi le posizioni moralmente inferiori di vittima o sostenitore del terrorismo.

Pressioni indebite
In un rapporto del Women’s studies international forum, le ricercatrici Sherizaan Minwalla e Johanna Foster descrivono l’esperienza delle donne yazide intervistate da giornalisti interessati a documentare la violenza sessuale nei territori sotto il controllo dell’Is. Le donne raccontano che i giornalisti gli chiedevano con insistenza di riferire la loro esperienza durante la prigionia. Come ha detto una delle sopravvissute: “All’inizio ho detto di no, ma loro mi dicevano ‘È per il tuo bene’. È solo per questo che ho accettato di parlare con loro. Ma non è cambiato niente”.

Dal rapporto è emerso inoltre che i giornalisti hanno reso riconoscibili le donne, mettendo a repentaglio la loro sicurezza. Come ha affermato una donna intervistata da Minwalla, i giornalisti sono arrivati “dall’Europa, dagli Stati Uniti e dall’Iraq. C’era un giornalista che veniva a intervistarci, e noi gli abbiamo detto: ‘Per favore non mandarlo in televisione’. E lui: ‘Ok, te lo giuro, non ti mostrerò in tv’. Poi però la sera abbiamo acceso la tv e ci siamo viste. Lo abbiamo chiamato ma non ci ha più risposto”.

Così si demolisce l’idea di verità, ridotta a un obiettivo fuori moda del giornalismo del passato

I giornalisti hanno potuto fare tutto questo non solo grazie alle enormi differenze di potere tra loro e le donne yazide distrutte dalla guerra. Hanno potuto farlo anche perché si ritenevano coinvolti nella duplice impresa di testimoni e soldati nella guerra al terrorismo. Per prima cosa dovevano ottenere la storia, il che voleva dire fare pressioni sulle donne in qualsiasi modo, attraverso i direttori dei campi profughi, i parenti, la promessa di benefici futuri. In secondo luogo, poiché l’obiettivo più ampio era pompare il racconto della brutalità dei cattivi dell’Is contro gli occidentali (giornalisti compresi), i veri soggetti delle storie, ossia le donne stesse, erano del tutto irrilevanti. Nella dinamica che contrappone il bene al male, la civiltà occidentale alla barbarie islamista, le donne non avevano alcun ruolo se non quello di personaggi piatti e passivi che hanno subìto un abuso; il ruolo attivo ed eroico spettava ai giornalisti.

Come la guerra al terrore, il giornalista predatore e insieme eroe morale non è nato con la guerra contro il gruppo Stato islamico. Il primo teatro di azione, sia per i giornalisti occidentali sia per i soldati della Nato, è stato naturalmente l’Afghanistan. La confusione dei confini tra giornalista che si occupa di terrorismo e combattente contro il terrorismo ha probabilmente avuto origine qui, e non è cominciata e finita con i corrispondenti al seguito delle truppe. Nel suo libro It’s what I do: a photographer’s life of love and war la fotoreporter Lynsey Addario racconta di essere entrata con una macchina fotografica nascosta in una scuola segreta in cui le donne potevano studiare nonostante il divieto dei taliban. Lì ha scattato delle foto all’insaputa di tutti, comprese le stesse donne. Il fatto che questo potesse mettere a repentaglio l’intera operazione, oltre alle vite del mediatore che l’aveva portata lì e, cosa ancora più importante, delle donne fotografate, non sembra preoccuparla: è convinta che il progetto promuoverà una più ampia narrazione dell’occidente contro il resto del mondo. L’umanità perduta delle persone intrappolate in mezzo è solo un danno collaterale.

Così si demolisce l’idea di verità, ridotta a un obiettivo fuori moda del giornalismo del passato. Il resto è razzia bella e buona, si sostituiscono la conoscenza con la cronaca, l’approfondimento con macchinazioni ai danni di sventurati soggetti. Nel teatro della guerra al terrore gli Stati Uniti non devono più inviare droni predatori; possono avvalersi dei talenti dei giornalisti predatori, la cui astuta metamorfosi è un’arma altrettanto pulita e a volte ancora più letale.

La giornalista pachistana Rafia Zakaria parteciperà al festival di Internazionale a Ferrara il 5 ottobre con Marta Dillon, Marta Lempart, Katha Pollitt e Ida Dominijanni, per parlare dei movimenti femministi nel mondo.

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