A tirare le fila di questo romanzo lunghissimo e intrigante è una storia d’amore, con sfumature di tragedia shakespeariana alla Romeo e Giulietta ma con uno scenario messicano contemporaneo: guerre tra i narcos, corruzione politica, ingiustizia sociale, razzismo, disuguaglianza, discriminazione, crisi economica, morti. L’ingrediente “cinematografico” che si coglie nelle pagine di Salvare il fuoco non è casuale: Guillermo Arriaga è lo sceneggiatore di film celebri come Amores perros, 21 grammi e Babel, una trilogia di narrazioni non lineari dove la vita e la morte appaiono come temi centrali. Lo stesso accade in questo romanzo. Marina, la protagonista, è una coreografa di classe agiata; ha un marito, tre figli, una casa, un autista, tate, cameriere. Eppure, c’è qualcosa che manca. Le sue coreografie, per esempio, mancano di fuoco. In preda alla sua angoscia esistenziale, finisce per mettere in scena una danza giocosa in una prigione, dove s’innamora perdutamente di un parricida e, per inciso, del rubacuori di questa storia: José Cuauhtémoc. L’amore è ricambiato ma le condizioni perché si concretizzi sono a dir poco avverse: lei è una brava ragazza, lui è un criminale – alto, biondo, con gli occhi chiari – condannato all’ergastolo. Ciononostante, accade di tutto. A un certo punto del romanzo arriva la domanda chiave: “Se la mia casa bruciasse e potessi salvare solo una cosa, cosa salverei? Il fuoco, il fuoco, il fuoco”. Paula Conde, Clarín
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Questo articolo è uscito sul numero 1406 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati