Le prime pagine dell’ultimo romanzo di Abdellah Taïa raccontano un interrogatorio di polizia. Il protagonista, Mounir Rochdi, ha appena avuto una discussione con la sua vicina, la signora Marty. E ora, gli agenti sono alla sua porta. Siamo in Francia, nel 2016, poco dopo gli attacchi che hanno colpito Parigi. La svolta kafkiana del romanzo è già in corso: ogni mossa diventa sospetta. “È strano, però… Vivere in un appartamento così bello e non fare nulla per arredarlo… È strano…”. Tra la signora Marty e Mounir, tuttavia, non c’era diffidenza, ma piuttosto uno “strano legame”. Forse dovuto al fatto che erano entrambi poveri: “La signora Marty viveva nelle stesse condizioni di alcuni immigrati”. Il lettore segue i pensieri e le peregrinazioni di Mounir, immerso nella sua nuova situazione di sospettato. Prigioniero degli stereotipi degli agenti su di lui, è assalito dall’amore – per un poliziotto – e dai dubbi. Come in altri romanzi di Taïa, le donne occupano un posto speciale. Spesso sono meno violente del resto della società, che le condanna, le disprezza e le mette in disparte. Le questioni di genere e la sessualità attraversano l’opera di Taïa che scrive a partire dalla sua esperienza personale e a volte presta ai suoi protagonisti tratti autobiografici. In Marocco, ha incarnato la lotta per i diritti dei gay. Nato a Salé, vive a Parigi da diversi anni. Il suo stile – il caleidoscopio di punti di vista narrativi, le storie intrecciate, la ripetizione delle parole, le interruzioni, i pensieri e i dialoghi intercalati, gli spostamenti da un tipo di discorso all’altro – può allontanare alcuni lettori. L’andirivieni tra dimensioni ben distinte, il reale, il sogno, il passato, i ricordi, offre una dimensione poetica al romanzo, ma rischia di portarci fuori strada. Jules Crétois, Jeune Afrique
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Questo articolo è uscito sul numero 1413 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati