Per chiunque abbia sostenuto la lotta dei musicisti indipendenti per guadagnarsi da vivere nell’era dello streaming, la resa dei conti pubblica con Spotify degli ultimi giorni è stata incoraggiante, ma anche agrodolce. Grazie agli interventi di Neil Young e Joni Mitchell le critiche al servizio di streaming più famoso del mondo sono tornate di attualità. Ma si continua a ignorare il fatto che i musicisti guadagnino pochi centesimi per ogni riproduzione, sia su Spotify sia sui servizi concorrenti. Il 26 gennaio Neil Young ha tolto la sua discografia da Spotify, dopo aver denunciato la diffusione di “informazioni false sui vaccini” su The Joe Rogan Experience, il popolare podcast che l’azienda svedese ha acquisito per 100 milioni di dollari nel 2020. Poco dopo anche Joni Mitch­ell ha detto che lei avrebbe rimosso il suo catalogo. Hanno entrambi ragione, ma avrebbero potuto anche tirare in ballo le cause per le quali persone meno famose di loro combattono da anni. Spotify ha perso quasi quattro miliardi di dollari in borsa dopo il boicottaggio di Young. Poi ha recuperato, dopo aver dichiarato che prenderà più sul serio la questione e dopo che Joe Rogan si è impegnato a “fare del suo meglio per studiare questi argomenti”. Non passerà molto tempo prima che il ciclo delle notizie superi questi due settantenni dall’animo nobile. Ma, visto che hanno l’attenzione del mondo intero, perché non prendono posizione a favore dei musicisti indipendenti?
Andy Cush, Pichfork

Neil Young, 2019 (Dave J Hogan, Getty)

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Questo articolo è uscito sul numero 1446 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati