In un’epoca in cui le questioni d’identità sono delicate e spinose, c’è qualcosa di audace nell’impostazione di Mille lune. Continuando l’ambizioso ciclo che attinge a una versione romanzata della sua storia familiare, Barry si rivolge ora a una figura minore del suo precedente romanzo, Giorni senza fine. Winona fa parte dei nativi lakota – “Il popolo più triste che sia mai esistito sulla Terra” – ed è salvata da Thomas McNulty (protagonista dell’ultimo libro) e dal suo compagno John Cole. Barry sa bene di essersi addentrato in un territorio scivoloso. “Io sono Winona”, comincia il romanzo, prima di qualificare questa dichiarazione d’identità apparentemente semplice. È destino di Winona essere adottata e chiamata con un altro nome, appropriazione che indica la posizione conflittuale dell’autore, che parla con la voce di lei. “All’inizio ero Ojinjintka, che significa rosa. Thomas McNulty si è sforzato molto di pronunciare questo nome, ma non ci è riuscito, e così mi ha dato il nome di mia cugina morta perché era più facile nella sua bocca. Winona significa primogenita. Io non ero primogenita”. Mille lune salta in avanti di qualche anno rispetto a Giorni senza fine, ma sta in piedi da solo. Siamo nel 1870 e McNulty e Cole vivono in una fattoria nel Tennessee, una specie di oasi utopica nel caos seguito alla guerra civile. La più grande minaccia è il razzismo e Winona non è al sicuro. Infatti è violentata brutalmente e riempita di whisky perché non ricordi chi l’ha aggredita. Parte in cerca di vendetta. Le sue avventure la portano in un viaggio che è terrificante, emozionante e incantevole, il tutto reso nella prosa lirica di Barry.
Alex Preston, The Guardian

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Questo articolo è uscito sul numero 1454 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati