James McBride (Joël Saget, Afp/Getty)

Il diacono King Kong, il nuovo libro dello scrittore e musicista James McBride, è una commedia esilarante ambientata nelle case popolari di Brooklyn alla fine degli anni sessanta. Ma per chi sceglie di andare oltre la trama è anche una storia profonda. Cuffy “Sportcoat” Lambkin è un anziano nero, diacono della chiesa Five Ends di South Brooklyn. In una calda mattina di settembre del 1969, Sportcoat, in preda a una miscela alcolica conosciuta come King Kong, spara in faccia al boss della droga Deems Clemens, che ha 19 anni. Clemens perde l’orecchio, ma non la memoria, né la sua gang. Mentre si riprende a casa, gli amici di Sportcoat, tra cui Hot Sausage, Dominic Lefleur the Haitian Sensation, Sister Bum-Bum e un militante della Nation of islam di nome Soup, lo esortano a fuggire. “Sei un morto che cammina, Sport”, dice Hot Sausage. Mentre Sportcoat prende le sue decisioni sulla situazione, McBride alza e abbassa il sipario su una comunità di personaggi afroamericani e latinoamericani le cui vite e necessità s’intrecciano costantemente. Clemens non è l’unico a provare rancore nei confronti di Sportcoat; le signore della chiesa di Five Ends credono che la sua defunta moglie, Hettie, abbia sottratto i soldi del loro Club di Natale e li rivogliono indietro. Sotto i personaggi e la commedia c’è una storia su come una comunità e le sue istituzioni religiose possano fornire un centro per evitare che le cose vadano completamente a rotoli. Questi uomini, donne e bambini considerano la chiesa come un punto di riferimento, anche quando non ci vanno per settimane o decenni. Ma la chiesa è anche l’Itaca dell’improbabile epopea di McBride, Sportcoat il suo ancor più improbabile Odisseo. Invece di attraversare i mari e legarsi a un albero maestro, si sposta da un luogo all’altro, incontrando amici e minacce. Invece di una strega di nome Circe, il nostro eroe deve vedersela con il formidabile fantasma di Hettie, che non dice nulla su dove sono stati nascosti i fondi del Club di Natale, ma è piuttosto loquace nel raccontare quanto sia caduto in basso suo marito. Insomma Il diacono King Kong non è semplicemente la riproposizione di un’antica epopea. E se il finale di Sportcoat prende una piega più cupa, be’, almeno è una sua scelta.
Bethanne Patrick, The Washington Post

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Questo articolo è uscito sul numero 1496 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati