In pieno deserto, ai piedi di una duna, un uomo in djellaba (la veste lunga tipica dei popoli maghrebini) è inginocchiato davanti a un pozzo. In un’altra immagine, sempre nel deserto, ci sono delle palme che hanno perso il ventaglio verde delle loro foglie e sono rimaste solo con il tronco scuro, coperto di sporgenze. Alberi morti o feriti, che ingialliscono in modo inquietante. Perfino i cactus non hanno resistito alla siccità e si confondono con l’ocra di un muro. Poi, però, in altre immagini ci sono dei ragazzi che si tuffano e fanno il bagno, un adolescente che affiora dall’acqua con la luce che gli accarezza il volto e il petto, una piscina con i mattoni blu e delle coltivazioni di un verde lussureggiante. Sono visioni contrapposte, una sorta di prima e dopo, riunite durante il lungo lavoro del fotografo marocchino M’hammed Kilito, che da qualche anno documenta i pericoli che corrono le oasi nel suo paese e nel resto del mondo. Con il progetto Before it’s gone Kilito torna sulla possibile scomparsa delle oasi nel sudest del Marocco.

Un fico d’India bruciato durante gli incendi dell’agosto 2020 nell’oasi di Tighmert.

L’oasi è una barriera ecologica contro la voracità del deserto. Da millenni donne e uomini si prendono cura di questi luoghi, che oggi sono tra gli habitat naturali più minacciati al mondo a causa dell’erosione provocata dall’uso eccessivo dell’acqua e dalla crisi climatica. Ai margini e nelle aree interne del deserto marocchino fin dall’antichità questi ecosistemi, molto diffusi, sono protetti dall’ombra delle palme da datteri, che riparano il suolo fertile dal sole cocente. In questo modo possono conservare l’umidità. Il dattero, simbolo storico dell’oasi, è anche una parte fondamentale dell’economia delle popolazioni che vivono nelle zone aride.

L’oasi di Taghjijt, agosto 2020.

Elementi centrali del patrimonio ancestrale della cultura nomade, le oasi marocchine si sono formate intorno alle falde acquifere della pianura del Tafilalet e del palmeto di Guelmim, o nelle valli delimitate dai fiumi Draa e Ziz, ma negli ultimi decenni il loro equilibrio naturale è compromesso. Da un lato sono diminuite le palme da datteri (secondo le stime ufficiali, nel novecento sarebbe scomparso almeno un terzo dei quattordici milioni di esemplari). Dall’altro gli alberi producono meno frutti. Oggi questo tipo di palma, che non richiede molta acqua e preferisce i suoli sabbiosi accanto alle coltivazioni di cereali, henné o zafferano, deve fare i conti con il cocomero, che le ruba terreno e umidità, accaparrandosi tutte le risorse idriche disponibili. Le falde freatiche diventano salate o si esauriscono a causa della sete dell’industria agricola, di quella turistica e delle centrali solari, che per funzionare hanno bisogno anche di acqua. Inoltre, la crisi del settore del dattero ha fatto aumentare il numero dei profughi climatici.

L’ultimo gruppo di palme nell’oasi di Tanseest, ormai scomparsa, a quindici chilometri dalla città di Assa.

M’hammed Kilito è un fotografo documentario che lavora su progetti a lungo termine con la volontà di esplorare la realtà contemporanea, di darle forma e di metterla in discussione.

È nato nel 1981 a Leopoli, in Ucraina, da genitori marocchini, che come molti giovani africani, negli anni della guerra fredda, avevano ricevuto una borsa di studio per andare a completare la loro istruzione nei paesi dell’ex Unione Sovietica. Non sembrava destinato alla fotografia. Ha studiato prima scienze politiche e poi si è trasferito in Canada, dove ha preso una laurea umanistica di primo grado all’università di Montréal e si è specializzato all’università di Ottawa. In quel periodo, su consiglio di un professore, ha cominciato a interessarsi alla fotografia, attraverso i libri e soprattutto “grazie alle opere di Susan Sontag, che mi ha fatto conoscere il lavoro di Diane Arbus, André Kertész, Man Ray e Robert Frank. Anche se ho scoperto le loro foto solo più tardi” racconta.

Hicham è emigrato in Francia per un anno e dopo diversi lavori mal pagati, ha deciso di tornare in Marocco. L’emigrazione giovanile è uno dei principali problemi che affliggono le oasi del sud del Marocco. Molti ragazzi pianificano di entrare illegalmente in Spagna, attraverso le isole Canarie, spinti dal riscaldamento globale, dalla crisi idrica e dalla mancanza di lavoro.

“Per me è stato molto istruttivo anche partecipare al club del libro fotografico di Montréal, dove ho conosciuto altri fotografi con cui condividere la mia passione. Ho scoperto nuovi artisti e ho cominciato a capire l’importanza dei progetti a lungo termine e della costruzione di una sequenza di foto. Si parlava delle copertine dei libri, della carta usata e della selezione delle immagini. I libri erano considerati oggetti artistici. A poco a poco la fotografia ha cominciato a occupare molto spazio nella mia vita, passavo tutto il tempo a leggere e studiare. La domenica la dedicavo a cercare ispirazione e andavo in giro per le gallerie fotografiche di Montréal. Durante la settimana la sera facevo spesso ritratti di moda in uno studio e mi dedicavo alla street photography. Un giorno poi ho capito che le mie idee creative erano legate al Marocco. La cultura del mio paese d’origine mi stava riconquistando e in me cresceva il bisogno di mollare tutto e di tornare lì per realizzare un progetto fotografico. La svolta è arrivata il giorno in cui, dopo aver finito di lavorare, ho trovato il coraggio di lasciare il Canada, dove ho vissuto per quasi quindici anni, per dedicarmi completamente alla fotografia nel mio paese. La fotografia per me è sempre stata una scelta professionale molto seria. Certamente la mancanza di sicurezza economica e la paura di fallire non facilitano le cose, e spesso ci sono grandi ostacoli da superare. Quelli che ce la fanno non sempre sono i migliori. Ma chi crede in se stesso e ha il coraggio di correre dei rischi può avere successo grazie a un lavoro di qualità, alla perseveranza e alla grande disciplina”.

L’oasi di ­Taghjijt, agosto 2020. Quando finisce la scuola Mustapha va ad aiutare lo zio in fattoria. Gli piace innaffiare le piante e prendersi cura degli animali. Vorrebbe diventare un agricoltore e continuare a vivere nella sua oasi.

Oggi M’hammed Kilito vive a Casablanca, dove ha fondato con altri tre fotografi marocchini il collettivo Koz, che realizza inchieste fotografiche. Kilito continua il suo lavoro a lungo termine sulla gioventù nella parte rurale del suo paese. Ha ricevuto molti premi e ha partecipato a mostre e festival internazionali.

Oasi di M’hamid el Ghizlane, aprile 2022. A causa della ricorrente siccità il perimetro di questa oasi si restringe ogni anno di circa centro metri. Le palme muoiono per mancanza d’acqua permettendo al deserto di avanzare e causando così anche la perdita di terreno agricolo.

Nel nostro immaginario, le oasi ci fanno pensare ai racconti di Le mille e una notte, sono verdi e lussureggianti, e accolgono le persone che arrivano per dissetarsi. M’hammed Kilito ha scelto di usare il medio formato per realizzare immagini equilibrate, senza mai drammatizzare il disastro. Le sue foto fanno ricorso a un insieme di tinte delicate, ma possono mostrarci anche la carcassa di un dromedario. Il suo obiettivo è fare di tutto per salvare le oasi finché siamo ancora in tempo.

“Ho deciso di lavorare a questo progetto perché non se ne parla molto sui mezzi d’informazione. L’obiettivo principale è sensibilizzare l’opinione pubblica, i politici e le organizzazioni. Si tratta anche di salvaguardare il patrimonio ancestrale della cultura nomade in Marocco e di preservare l’ecosistema delle oasi”. ◆ adr

Oasi di Meski, aprile 2022.
Da sapere
Le mostre

◆ M’hammed Kilito fa parte del Mentor program dell’agenzia fotografica VII ed è National Geographic explorer, un riconoscimento grazie al quale realizza progetti sul clima. Nel 2023 ha vinto il premio fotografico per la sostenibilità Louis Roederer. Before it’s gone è in mostra al Getxophoto festival, vicino a Bilbao, in Spagna, fino al 25 giugno. Dal 7 all’11 giugno sarà al festival Encontros da imagem a Braga, in Portogallo. Dal 1 al 30 giugno si potrà vedere al festival di fotografia di Belfast, in Irlanda del Nord.


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Questo articolo è uscito sul numero 1514 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati