Myuthafoo è un album effervescente. Come raggi laser che fendono il cielo notturno, le linee melodiche s’infrangono nel silenzio che le circonda, risplendendo insieme a forze cosmiche invisibili. Ma nonostante tutto il luccichio elettronico, l’ultimo lavoro di Caterina Barbieri è anche profondamente classico. Queste traiettorie affilate di suoni andrebbero bene in un rave nella foresta. Ma potrebbero essere anche le luci divine che arrivano sulla testa di Maria nell’Annunciazione con sant’Emidio di Carlo Crivelli, un dipinto del quindicesimo secolo. Sulla copertina del disco Barbieri la ricorda un po’, con la testa leggermente inclinata in un ambiente rivestito di legno. Prima di diventare una star della scena elettronica minimalista europea, l’artista bolognese ha studiato musica antica e chitarra classica, e queste influenze non l’hanno mai lasciata: probabilmente se Buxte­hude o Frescobaldi avessero avuto a disposizione un sintetizzatore modulare avrebbero composto Myuthafoo. Dopo i fuochi d’artificio, Barbieri inserisce un paio di maestose passacaglie, piene di grazia come la luce che trapassa le vetrate di una chiesa gotica. Se da tradizione questa forma musicale interpreta tragedie inesorabili, nell’album c’indirizza verso qualcosa di sublime. Le sue linee radiose raccontano quanto i tunnel più oscuri possano condurre verso una fine luminosa.
Robert Barry, The Quietus

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Questo articolo è uscito sul numero 1518 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati