PJ Harvey (Steve Gullick)

L’ultima volta che abbiamo ascoltato un disco nuovo di PJ Harvey era il 2016. Non c’era stata la Brexit, Barack Obama era ancora in carica e lei era in tour con The hope six demolition project, un diario di viaggio tra Afghanistan, Kosovo e Washington in compagnia del fotografo e regista Seamus Murphy. Alla fine della promozione dell’album sembrava che lei stesse pensando di ritirarsi dalle scene. Non l’ha fatto, ma ora è tornata in un posto molto diverso. L’unica cosa che avvicina quel disco a I inside the old year dying è che sono entrambi preceduti da raccolte di poesie scritte dalla musicista. Orlam, il nuovo libro, è una specie di romanzo onirico e inquietante, ambientato nel Dorset e scritto in versi che poi sono stati adattati per l’album. Anche se ha un glossario, Orlam è un enigma, tra adolescenti, bambini fantasmi e una figura maschile che ricorda Gesù. Se tentiamo di capirlo resteremo solo frustrati e dunque la cosa migliore è immergersi nell’atmosfera costruita dalla musica. Stavolta l’artista sceglie di avere pochi filtri e correzioni, sembra che stia suonando tutto per la prima volta davanti a noi. Le belle melodie si mischiano a sogni febbricitanti, registrazioni sul campo, con effetti bizzarri e angoscianti. Per la maggior parte della sua durata I inside the old year dying è un’opera imperscrutabile, che chiede all’ascoltatore di addentrarsi e perdersi in una zona magica e proibita.
Alexis Petridis, The Guardian

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Questo articolo è uscito sul numero 1519 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati