La ecoparabola enigmatica e mistica di Ryūsuke Hamaguchi sfugge alle facili spiegazioni, ma forse anche a quelle difficili. È un dramma complesso, realistico che tende al limite dell’inspiegabile. Anche il titolo sembra indicare che in ogni nostro giudizio si celano infinite sfumature. A prima vista sembrerebbe un classico film di denuncia del capitalismo che saccheggia l’ambiente: Takumi vive con la figlia Hana in un villaggio bellissimo e incontaminato, non lontano da To-kyo. Si guadagna da vivere tagliando legna e prendendo a una fonte acqua limpida che poi fornisce a un ristorante, che la ritiene un ingrediente fondamentale per i suoi noodles. È chiaro che questo paradiso non può durare a lungo. La crisi scoppia quando Takumi e i suoi vicini scoprono che un’azienda di Tokyo ha comprato dei terreni nei pressi del villaggio per trasformarli in un camping di lusso. In un’assemblea cittadina organizzata dall’azienda si scopre che le fognature della nuova struttura avveleneranno l’acqua. Ma poi la direzione narrativa scelta da Hamaguchi diventa poco chiara. I funzionari mandati dall’azienda al villaggio meritano la simpatia degli spettatori, mentre l’atteggiamento di Takumi diventa ambiguo. Hamaguchi affronta tutto questo con un ritmo lentissimo e a volte indugia sul cielo o sulla foresta. Perché? Qual è lo scopo di queste stranezze compositive? Qual è il punto della storia? Il regista non sembra interessato a dare spiegazioni. Il suo film è più simile a un poema. Forse non è il migliore dei suoi lavori ma è portato avanti con una tale sicurezza e abilità artistica che è impossibile non andargli, malinconicamente e incomprensibilmente, dietro.
Peter Bradshaw, The Guardian

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Questo articolo è uscito sul numero 1541 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati