Dal salon doré del palazzo dell’Eliseo di Parigi, dove un tempo teneva banco Charles de Gaulle, nel novembre 2019 il presidente francese Emmanuel Macron ammonì gli europei che la Nato, l’alleanza transatlantica a cui dal 1949 è affidata la sicurezza dell’Europa, era sull’orlo della “morte cerebrale”. L’amministrazione del presidente statunitense Donald Trump, con grande disappunto degli stessi soldati americani, aveva appena ritirato l’appoggio alle forze curde nella Siria settentrionale, sacrificandole al leader siriano Bashar al Assad e al presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. Nel giro di un anno gli Stati Uniti avrebbero imposto sanzioni alla Turchia, che fa parte della Nato, per l’acquisto di missili antiaerei russi. Era una fase di grande discordia.

Nel 2017, tornando da un caotico incontro con Trump, l’allora cancelliera tedesca Angela Merkel aveva dichiarato che l’Europa non poteva più contare sull’alleato statunitense, e per garantire la sua sicurezza doveva guardare alle proprie risorse. Due anni più tardi, le parole di Macron avrebbero sottolineato che era stato fatto ben poco per dare un seguito a quella nuova consapevolezza.

In qualunque alleanza sarebbe difficile contenere le sbruffonate di leader come Trump ed Erdoğan. Ma i problemi della Nato avevano radici più profonde del populismo dei politici. Quella che negli anni ottanta era ancora una compatta alleanza antisovietica, grazie all’espansione degli anni novanta e duemila era diventata un’organizzazione tentacolare e senza obiettivi precisi. Le spese europee per la difesa diminuivano e l’alleanza si affidava sempre più agli enormi investimenti militari degli Stati Uniti e alle nuove e volenterose reclute dell’Europa dell’est. Il fallimento degli interventi in Afghanistan, a partire dal 2001, e in Libia, nel 2011, era stato un duro colpo per l’alleanza, a cui si è aggiunto, nel 2021, il ritiro degli Stati Uniti dal paese centrasiatico, per ordine del presidente Joe Biden, eletto alla fine del 2020.

Secondo Macron, il vecchio obiettivo della Nato, cioè “tenere lontano i sovietici e a freno i tedeschi”, non era più attuale. Malgrado le mosse di Vladimir Putin contro l’Ucraina nel 2014, Berlino comprava quantità sempre maggiori di gas dalla Russia e Macron era intenzionato a riaprire i canali diplomatici con Mosca, resuscitando una delle grandi speranze di De Gaulle, quella di un’Europa ago della bilancia tra Washington e Mosca. Intanto, per quanto riguarda gli Stati Uniti, se negli ultimi dieci anni hanno avuto un riconoscibile progetto strategico, in gran parte non ha riguardato gli europei, ma è stato rivolto soprattutto contro la Cina e concentrato sulla battaglia per l’influenza nel cosiddetto spazio indo-pacifico.

Ora, nella primavera del 2022, a causa della sconsiderata aggressione di Putin all’Ucraina, il quadro si è trasformato. Tutti gli occhi sono puntati sull’Europa e sulla Nato. Svezia e Finlandia hanno presentato richiesta di adesione. Nell’ambito di una missione di difesa collettiva la Nato ha attivato per la prima volta la Forza di risposta (Nato response force, Nrf). Perfino il governo tedesco ha aumentato le spese militari. Da Berlino il segretario di stato di Washington, Antony Blinken, ha pubblicamente ribadito “la profonda cooperazione e il coordinamento che sono al cuore dell’alleanza”.

Non sorprende che l’invasione dell’Ucraina abbia contribuito a rianimare la Nato. Ma si tratta di una vera rinascita? L’alleanza ha una nuova visione per il futuro? O la sua reazione alla guerra è piuttosto paragonabile a un riflesso automatico?

Contro il militarismo

Oggi l’entusiasmo atlantista è così fragoroso che tutti sembrano aver dimenticato una semplice verità: se l’obiettivo della Nato era scongiurare un’aggressione russa e mantenere la pace in Europa, allora l’alleanza ha fallito. Che abbiano veramente scatenato l’invasione di Putin o meno, i discorsi sull’adesione dell’Ucraina alla Nato hanno sicuramente incoraggiato l’ala nazionalista di Kiev ad adottare una linea dura nei confronti di Mosca, e hanno anche alimentato la propaganda russa. Nonostante l’assistenza e l’addestramento che le forze ucraine avevano ricevuto da Stati Uniti, Regno Unito e Canada, alla vigilia del conflitto Mosca riteneva di avere la superiorità militare. Anche le minacce occidentali di sanzioni economiche sono state ignorate.

L’esercitazione militare Cold response, in Norvegia, marzo 2022 (Nora Lorek, Panos/Luz)

Se le cose fossero andate come molte agenzie di intelligence occidentali avevano previsto, la Russia avrebbe travolto l’Ucraina. Questo avrebbe terrorizzato i suoi vicini occidentali e dato agli stati già appartenenti alla Nato ogni ragione per rafforzare i loro sistemi di difesa. In una situazione simile, forse Svezia e Finlandia non si sarebbero precipitate a chiedere l’ingresso nella Nato. Avrebbero davvero rischiato di provocare Mosca, se l’esercito russo si fosse mostrato inarrestabile? La Moldova, un altro piccolo paese confinante con l’Ucraina, non ha nessuna intenzione di presentare richiesta di adesione. Perfino ora sarebbe troppo pericoloso.

A determinare l’attuale rilevanza della Nato – non si può sottolinearlo abbastanza – è un evento che nessuno si aspettava: l’efficace e prolungata resistenza dell’Ucraina. Malgrado la lunga collaborazione delle forze della Nato con i militari ucraini (Kiev ha mandato le sue truppe in Iraq e in Afghanistan) questa resistenza è stata una sorpresa assoluta. Se applicato alle informazioni militari dell’intelligence sull’Ucraina, il giudizio di Macron sulla “morte cerebrale” della Nato non sembra troppo impreciso. C’è voluta la guerra per darci una reale conoscenza dell’equilibrio militare tra Mosca e Kiev.

Il fatto che l’offensiva russa sia stata al tempo stesso così sfacciata e così fallimentare, grazie all’eroismo ucraino, ha reso scontata l’adesione di Svezia e Finlandia alla Nato. Se le richieste dei due paesi saranno accolte rapidamente non è ancora chiaro. Nel quadro è rientrata la questione del Kurdistan. La Turchia ha infatti sollevato obiezioni sull’ingresso della Svezia a causa del presunto sostegno di Stoccolma agli indipendentisti curdi.

Quando la guerra è scoppiata, e l’Ucraina ha dimostrato di poter resistere, i paesi della Nato hanno serrato i ranghi. Ma la retorica sulla reazione dell’alleanza alla guerra di Putin è esattamente il tipo di operazione che serve a gettare fumo negli occhi, uno dei cavalli di battaglia dell’organizzazione. Di fatto, anche se la Nato ha rilasciato dichiarazioni di appoggio all’Ucraina, gli aiuti militari sono forniti dai singoli stati dell’alleanza. E questi aiuti seguono uno schema fin troppo familiare.

In proporzione, gli stati baltici sono i più generosi: la Lettonia e l’Estonia stanno investendo circa lo 0,8 per cento del pil. La Polonia contribuisce con quasi lo 0,5 per cento. Ma sono soprattutto gli Stati Uniti ad armare l’Ucraina: dall’inizio della guerra hanno speso più di quattro miliardi di dollari. Altre decine di miliardi sono in arrivo. A ben vedere, la crisi ha pure confermato quegli stessi squilibri che nel corso degli anni hanno indebolito l’alleanza. Una realtà che Washington denuncia ormai senza imbarazzo. La retorica statunitense rievoca non tanto gli impegni collettivi della guerra fredda, ma il modello della cosiddetta “legge affitti e prestiti” (Lend-lease act), che tra il 1941 e il 1945 consentì agli Stati Uniti di fornire ai paesi alleati scorte alimentari, combustibile ed equipaggiamento militare, confermando il loro ruolo di arsenale della democrazia. Come allora, anche oggi Washington fa da battistrada. Ma ha un piano?

Soldati romeni nel centro di addestramento di Cincu, in Romania, il 10 maggio 2022 (Andrei Pungovschi, Bloomberg/Getty Images)

Per quanto riguarda la strategia, Washington non ha un solo cervello, ma ne ha diversi. Lo stesso presidente Biden può sembrare aggressivo. Il suo atteggiamento lascia intravedere il desiderio di un cambio di regime a Mosca. Anche il segretario alla difesa statunitense, Lloyd Austin, parla apertamente della necessità di indebolire la Russia. La Cia è più cauta e lancia avvertimenti sul rischio di un’ulteriore escalation del conflitto. Usare l’Ucraina per umiliare la Russia è un obiettivo su cui i partiti nel congresso statunitense sembrano poter trovare un accordo. La “legge affitti e prestiti” per l’Ucraina, che dà a Biden il potere di accelerare ulteriori consegne di armi, è passata agevolmente in entrambe le camere. Ma per approvare gli ulteriori pacchetti di aiuti proposti dai democratici – quaranta miliardi di dollari in aiuti militari, umanitari ed economici – bisognerà mercanteggiare. Ipotizzando che i nuovi stanziamenti siano approvati, rimane un interrogativo: gli Stati Uniti stanno mettendo a punto una nuova, grande strategia per l’Europa e per la Nato? Oppure indebolire la Russia è un obiettivo fine a sé stesso, un progetto che piace all’elettorato statunitense e lascia libero il Pentagono di concentrarsi sulla Cina?

Dietro all’esigenza immediata di sostenere l’Ucraina, qual è l’idea statunitense di un sistema di sicurezza efficace per l’Europa? E Washington ne ha davvero bisogno? Se si esclude il rischio nucleare, la Russia è lontana e irrilevante per l’economia statunitense, ma ovviamente non per l’Europa.

Fare la voce grossa con la Russia oggi conviene ai governi dell’Europa dell’est, agli stati nordici e al Regno Unito: se c’è qualcuno veramente convinto dell’idea di una rinascita della Nato, sono proprio questi paesi. Meglio equipaggiata, con la costante leadership statunitense, maggiori contingenti europei, totalmente concentrata sull’est. Ma perché questo progetto si concretizzi le cose devono andare come sperato su tre fronti diversi.

Da Kiev a Washington

Il primo e più importante è la guerra in Ucraina. Se Kiev avrà la meglio e riuscirà non solo a fermare, ma anche a ricacciare indietro l’offensiva russa, difficilmente Mosca potrà accettarlo. In tal caso, il Cremlino potrebbe lanciare un’escalation asimmetrica. La direttrice dell’intelligence nazionale statunitense, Avril Haines, di recente ha messo in guardia sul rischio che Putin possa “muoversi con una traiettoria imprevedibile che potrebbe portare a un’escalation”. Se Putin ricorrerà all’arma nucleare, allora quello che abbiamo visto finora sarà solo un preludio, una falsa guerra. Per la Nato la prova più difficile deve ancora arrivare.

Se invece la guerra andrà avanti, con Washington che fornisce aiuti militari e la Russia che riesce a fermare le controffensive ucraine, l’Europa dovrà convivere con l’equivalente di un nuovo Afghanistan alle sue porte, un conflitto infinito, con devastanti ripercussioni umanitarie. Potrà farlo? A Washington potrebbe andar bene. Ma l’Europa è davvero pronta ad accettarlo?

I colloqui delle scorse settimane tra il cancelliere tedesco Olaf Scholz, Macron e il Cremlino fanno pensare che Parigi e Berlino stiano ancora cercando di offrire a Putin una via di uscita. Se la crisi ucraina durerà ancora a lungo, sarà difficile prevedere l’impatto sui paesi vicini alla linea del fronte, innanzitutto sulla Polonia. Se la similitudine con l’Afghanistan è corretta, dovremmo preoccuparci che l’Europa orientale non subisca la sorte del Pakistan, dove la campagna antisovietica degli statunitensi ha contribuito a rafforzare il cosiddetto stato profondo (deep state) e ad alimentare la radicalizzazione popolare.

Da sapere
Settant’anni di Nato

◆ La Nato (North atlantic treaty organization) è un’alleanza militare difensiva tra paesi europei e dell’America del nord. È stata fondata nel 1949 da Stati Uniti, Canada, Belgio, Danimarca, Francia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo e Regno Unito. Nel 1952 sono entrate a farne parte la Grecia e la Turchia, nel 1955 la Germania e nel 1982 la Spagna. Nel 1999 ha accolto i primi paesi ex comunisti dell’Europa centrorientale (Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria), e nel 2004 anche Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia. Nel 2009 sono entrate nell’alleanza l’Albania e la Croazia, nel 2017 il Montenegro e nel 202o la Macedonia del Nord.


Poi ci sono gli Stati Uniti. Se nel 2019 la Nato era nel mezzo di una crisi esistenziale, il motivo era in gran parte dovuto agli imprevedibili attacchi dell’allora presidente Trump contro i partner europei. La competenza mostrata da Biden nella crisi ucraina – a differenza di quanto si era visto in Afghanistan – è un fattore rassicurante. Ma anche qui forse siamo di fronte alla quiete prima della tempesta.

Nel novembre del 2022 il Partito repubblicano con ogni probabilità tornerà ad avere il controllo del congresso statunitense. Le presidenziali del 2024 verosimilmente saranno più combattute delle elezioni di medio termine, ma per i democratici non sarà facile rimanere alla Casa Bianca. Il ritorno al potere di Trump, o di uno dei suoi protetti, sarebbe un disastro per le relazioni atlantiche. Ma sui repubblicani non dobbiamo comunque farci illusioni, perfino senza Trump. Il divario politico e culturale tra le regole della politica europea e quelle del Grand old party statunitense è ampio e continua a crescere. Già durante la crisi ucraina del 2014 il senatore John McCain, morto nel 2018, e i falchi di Washington avevano complicato non poco le cose alla diplomazia europea. I nuovi e volenterosi alleati degli Stati Uniti farebbero bene a ricordarlo.

Infine, resta la questione di cosa c’è dopo la crisi ucraina. La strategia statunitense di schiacciare la Russia potrebbe anche avere successo, ma questo non dovrebbe automaticamente far presagire un riorientamento verso la sicurezza europea. Se Washington è disposta a correre il rischio di indebolire la Russia, presumibilmente è per potersi concentrare sulla Cina. E questo solleva la principale questione strategica: sulla Cina, gli interessi europei sono allineati a quelli statunitensi? E la Nato che ruolo ha in tutto questo?

Tre incognite

Finché nella crisi attuale l’attenzione rimane concentrata sui valori e i princìpi – democrazia contro dittatura – si può costruire una grande narrazione in cui il mondo libero è schierato contro l’autoritarismo cinese e russo. Ma per altri aspetti ci vuole una fervida immaginazione per pensare che i minuscoli possedimenti coloniali francesi nell’Indo-Pacifico siano paragonabili per importanza al cuscinetto strategico che il Giappone, la Corea del Sud e Taiwan rappresentano per gli Stati Uniti. La Germania, intanto, continua a mantenere stretti rapporti economici con la Cina. Come ha osservato con franchezza Herbert Diess, amministratore delegato della Volkswagen: “Se limitassimo le nostre relazioni commerciali alle democrazie consolidate, che rappresentano dal 7 al 9 per cento della popolazione mondiale – ed è una percentuale in diminuzione – non esisterebbe un modello di business sostenibile per i produttori di automobili”. Per Berlino, il passaggio da una guerra energetica con la Russia a una guerra commerciale con la Cina sarebbe lo scenario peggiore.

Da sapere
Gli eserciti più grandi
I primi dieci paesi della Nato per personale militare attivo, migliaia di unità, 2021 (fonte: statista)

È inutile immaginare che le potenze occidentali possano dettare a Washington la linea dei futuri rapporti con la Cina: dovremmo aver imparato i limiti della nostra capacità di azione proprio in Ucraina. Nel dicembre del 2020 Bruxelles, Parigi e Berlino, con grande disappunto della squadra di Biden, offrirono alla Cina un ramoscello d’ulivo economico con l’accordo comprensivo sugli investimenti (Cai), poi affossato da Pechino. Questo ha reso più facile l’allineamento di Stati Uniti ed Europa rispetto alla Cina nel primo anno della presidenza Biden. Nell’estate del 2021 la Nato ha rilasciato per la prima volta una dichiarazione sulla minaccia alla sicurezza globale rappresentata dalla Cina. Poi, nel gennaio del 2022, è arrivata la tempesta innescata dal riconoscimento di Taiwan da parte della Lituania. Di fronte alle minacce di Pechino, i paesi baltici si sono allineati agli Stati Uniti, con l’obiettivo di assicurarsi l’appoggio di Washington contro la Russia. Nel frattempo Berlino e gran parte dell’Unione europea prendevano le distanze, cercando di non farsi coinvolgere in uno scontro con Pechino. Nonostante tutti i discorsi sulla partnership occidentale, non è affatto chiaro come Europa e Stati Uniti si schiereranno in futuro nei confronti della Cina.

Il fatto che l’invasione russa dell’Ucraina abbia dato nuove energie alla Nato non deve sorprendere. È utile invece chiedersi se smentisca o confermi la diagnosi formulata da Macron nel 2019. Con il senno di poi, il tentativo del presidente francese di favorire un riavvicinamento con Putin era esageratamente ottimistico. Ma quello stesso ottimismo lo ha spinto a chiedere all’Europa di affrontare nuove sfide strategiche, che riguardano la Cina, le tensioni con la Turchia e il Nord Africa, la migrazione, il clima o la crisi della democrazia statunitense. Al contrario, la nuova mobilitazione contro la Russia ha provocato un ritorno ai vecchi antagonismi e alle parole d’ordine della guerra fredda. Stiamo rispolverando il mito dell’“occidente”, sia nello slancio dell’autoaffermazione nazionale dell’Ucraina sia nell’esaltazione, più fredda e tecnocratica, della cosiddetta Vorsprung durch Technik della Nato, “in vantaggio grazie alla tecnologia”, esemplificata dai missili anticarro Javelin e da immaginari cecchini finlandesi che abbattono gli invasori russi.

Per quanto possa sembrare singolare, negli anni cinquanta e sessanta questo cocktail di libertà individuale, costituzionalismo liberale e tecnologia militare avanzata era il punto di forza dell’ideologia della Nato. In tutti gli anni ottanta, libertà, spirito di iniziativa e addestramento avanzato, uniti ad attrezzature di qualità, erano considerati la formula che avrebbe consentito alla Nato di prevalere, nonostante la superiorità numerica delle truppe del Patto di Varsavia (l’alleanza militare dei paesi comunisti).

È senza dubbio rassicurante vedere che questa formula è stata recuperata nel ventunesimo secolo e che sembra funzionare sul campo di battaglia in Ucraina. Ma non è la risposta definitiva ai problemi di sicurezza dell’Europa. Nel 2019 Macron invocava una maggiore sovranità strategica europea. Considerando le tre grandi incognite che incombono sul continente – i futuri rapporti con una Russia dotata di armi nucleari e ancor più incattivita, la situazione della politica statunitense e le tensioni tra Stati Uniti e Cina – il suo appello è più urgente che mai.

Un dibattito necessario

In cosa dovrebbe consistere la strategia dell’Europa resta però imprecisato. Macron chiedeva idee innovative, non risposte già collaudate. Come di recente ha suggerito il filosofo tedesco Jürgen Habermas, l’Europa deve sicuramente riconoscere la sua distanza storica e politico-culturale dall’entusiasmo patriottico così platealmente in mostra in Ucraina. L’Europa deve mantenere la sua mentalità post-eroica. Ma dovrebbe anche mantenere le distanze dalla cultura strategica militarizzata e ossessionata dalla tecnologia degli Stati Uniti, una cultura che negli ultimi decenni ha accumulato risultati che nessuno vorrebbe imitare. Se la storia di violenza dell’Europa aiuta a immunizzare da ogni entusiasmo militarista, questo dovrebbe essere considerato un fattore positivo, non negativo.

Ma d’altro canto il vecchio continente non dovrebbe cadere nell’illusoria vanità di immaginare che la sua politica “basata sui valori” lo ponga al di sopra delle scelte più difficili e degli affari sporchi legati all’esercizio del potere. Allo stato attuale l’Europa è tutt’altro che inoffensiva e lo sviluppo di un vero dibattito sulla sua autonomia strategica comincerà quando avrà riconosciuto questa realtà. Non solo alcuni paesi continuano ad avere capacità ed esperienza militari effettive e subito spendibili, soprattutto la Francia, ma va anche ricordato che i primi a indossare le uniformi dell’Unione europea sono gli ufficiali della guardia di frontiera Frontex, tra le altre cose impegnati a respingere i migranti nel Mediterraneo. Un dibattito sull’autonomia strategica del continente dovrebbe cominciare da qui. È questa la risposta europea alle dinamiche demografiche ed economiche dell’Africa e dell’Asia occidentale, costruire una fortezza Europa? O ci sono alternative?

Pensiamo anche alla transizione energetica. Quanto sono disposti a pagare gli europei per evitare la dipendenza dal gas di Putin? È una questione strategica, come lo è il tema dei negoziati, commerciali ed etici, sull’importazione di pannelli solari cinesi. Non è affatto ovvio che tutto questo abbia a che fare con le preoccupazioni degli Stati Uniti per la sorte di Taiwan. Ma il lavoro schiavistico nella regione cinese dello Xinjiang e la politica industriale europea sono invece temi in qualche modo legati.

Anche se la forza aerea ha avuto un ruolo secondario in Ucraina, potrebbe essere importante capire quante centinaia di miliardi di euro andrebbero destinati allo sviluppo dei caccia del programma europeo Future combat air system (Fcas), in grado di rivaleggiare con il mastodontico progetto degli F-35 statunitensi. Ma se l’Europa vuole aprire questa discussione, non dovrebbe affrontarla come un imbarazzato ritorno a un classico dibattito strategico, immaginando stanziamenti di bilancio limitati. Dovrebbe farlo parallelamente e alla luce di altri impegni che saranno anch’essi vitali per la sicurezza europea: il green deal, per esempio, o i piani d’investimento digitale. Tutto questo può comportare la necessità di collaborare con gli Stati Uniti e con altri paesi, dentro e fuori dalla Nato.

Di fronte all’aggressione di Putin, la Nato è una prima linea di difesa essenziale. Ma per quanto riguarda il futuro è al massimo una soluzione parziale, molto probabilmente una distrazione e nel caso peggiore un vicolo cieco storico. ◆ gc

Adam Tooze è uno storico britannico. Dirige l’European institute della Columbia university, negli Stati Uniti. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è L’anno del rinoceronte grigio. La catastrofe che avremmo dovuto prevedere (Feltrinelli 2021).

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Questo articolo è uscito sul numero 1462 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati