Stiamo preparando un piccolo film con l’artista JR sul mito della caverna di Platone. Lo gireremo in un teatro focolare dell’anima, il Théâtre des Bouffes du Nord, fondato nel 1974 dalla compagnia di Peter Brook in una music-hall abbandonata di Parigi. Ci entrai la prima volta a diciott’anni proprio per assistere a uno spettacolo di Brook, Le costume . Ricordo la messa in scena sospesa, essenziale e piena di vita. Dopo lo spettacolo mi misi a camminare come uno spirito per il quartiere, in preda a una nostalgia di vita non vissuta. Alle Bouffes du Nord sono tornata da poco per vedere La tendresse di Julie Berès con la compagnia Les Cambrioleurs. La regista ha intervistato ragazzi delle periferie parigine, ballerini di strada, rapper, sul loro legame con la mascolinità e la virilità. Sono stata travolta dall’energia dei ragazzi, che sulla scena si spogliano delle costruzioni sociali e si chiedono come essere uomini fuori dalla “fabbrica maschile”. Anche il mito della caverna di Platone racconta la condizione umana: siamo incatenati con gli occhi rivolti verso il fondo di una caverna, guardiamo delle ombre e le crediamo vere. La luce è alle nostre spalle. Platone profetizza che chi riesce a liberarsi dalle catene, a voltarsi verso l’uscita, viene deriso e preso per pazzo dagli altri prigionieri. Ma dev’essere sempre questo il finale? È ancora possibile immaginare un avvenire meno prevedibile?

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Questo articolo è uscito sul numero 1546 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati