Doveva essere lì da qualche parte. Era un giorno di agosto del 2016 e Benjamin Freeman avanzava su una chiatta di legno lungo il rio Pantiacolla, nel sudest del Perù. Sulle due sponde del fiume la foresta tropicale si innalzava come una muraglia da cui di tanto in tanto sbucavano uccelli colorati. L’ornitologo della Cornell university a Ithaca, nello stato di New York, teneva in mano una foto in bianco e nero e la confrontava con la riva davanti a lui. Poi ha guardato il suo maestro, l’ornitologo John Fitzpatrick, seduto accanto: tutti e due erano sicuri di aver trovato il punto d’ingresso. Freeman e Fitzpatrick hanno attraccato ai piedi di una ripida sponda di terra e si sono arrampicati fino a una radura. Hanno alzato lo sguardo sulla catena montuosa del Pantiacolla, una lontana propaggine delle Ande. Quello che una volta era stato un sentiero di montagna non si riconosceva più: le canne di bambù e gli alberi avevano ricoperto ogni cosa. Si sono aperti la strada con i machete per otto chilometri, fino alla vetta, come Fitzpatrick aveva già fatto nel 1985. Quella era stata un’epoca avventurosa, non solo per gli ornitologi. Tutti i biologi si facevano crescere la barba e si spingevano fin negli angoli più remoti della Terra, se necessario anche armati di fucile a pompa. Volevano scoprire mondi animali e vegetali mai descritti prima. Ufficialmente gli uccelli abbattuti sul Pantiacolla erano classificati come “raccolti”, in inglese collected. Oggi, quasi quarant’anni dopo, una nuova generazione di biologi vuole seguire le tracce di quei maestri. Torna sulle stesse montagne tropicali, nella stessa stagione dell’anno, e ne ripete gli inventari con gli stessi metodi. Ma a spingere gli studiosi non è più lo spirito pionieristico e di gioiosa esplorazione. Piuttosto è la necessità di fare chiarezza su un fenomeno preoccupante che comincia a modificare la vita sulla Terra: con il cambiamento climatico le piante e gli animali scalano le montagne, spingendosi sempre più in alto alla ricerca di un po’ di fresco. Pagina bianca Nelle Alpi, alcuni botanici austriaci e svizzeri hanno dimostrato già da tempo che la vegetazione sta risalendo. “L’intera area si sposta in blocco verso l’alto”, spiega Stefan Dullinger dell’università di Vienna, in Austria. Uno studio di lungo periodo ha rivelato che la maggior parte delle specie vegetali ha perfino esteso il suo territorio, mentre altre specie tipiche delle vette, per esempio la pedicolare a foglie verticillate e la stella alpina, sono diventate più rare e coprono zone sempre più piccole. È probabile che sulle montagne tropicali il cambiamento climatico abbia effetti più evidenti e in gran parte negativi. Infatti lì si conta la maggior varietà di specie al mondo. Di queste, molte hanno trovato il loro habitat in nicchie ristrette dalle temperature stabili, e per questo sono molto sensibili alle variazioni del clima. Una combinazione infelice in un’epoca di riscaldamento globale: si prevede che già entro la fine del secolo le temperature raggiungeranno livelli mai conosciuti dalle specie locali negli ultimi due milioni di anni. Sulle regioni del mondo più ricche di piante e animali non ci sono dati, o quasi. Mentre le zone temperate offrono una buona documentazione sulla migrazione delle specie, fino a poco tempo fa la regione intorno all’equatore era una pagina bianca. Dal momento che per realizzare nuovi studi a lungo termine ci vorrebbe troppo tempo, i biologi usano una scorciatoia: si limitano a ripetere gli inventari fatti decenni fa. È proprio quello che ha fatto Freeman nel 2016 sulla catena del Pantiacolla, dimostrando che in trent’anni gli uccelli si erano spostati in media 68 metri più in alto. In quel lasso di tempo l’unica cosa che era cambiata, e che quindi poteva aver inciso sulla migrazione era la temperatura, salita di 0,42 gradi. Oggi, nello stesso posto in cui Freeman e Fitzpatrick avevano cominciato la loro salita, ci sono solo banani e un rifugio ecologico abbandonato. Ogni tanto passa qualche abitante della comunità indigena di Palatoa. Nell’estate del 2019 Alex Wiebe, 22 anni, studente di biologia del Cornell Lab of ornithology a Ithaca, è andato in Perù per ricostruire ciò che tre anni prima il suo maestro Benjamin Freeman aveva documentato: non solo la risalita di alcune specie di uccelli ma anche, per la prima volta, la scomparsa di intere specie dopo che avevano raggiunto la vetta. Per descrivere questo fenomeno la comunità scientifica parla di “scala mobile verso l’estinzione”. Alle prime luci dell’alba Wiebe è entrato nella foresta tropicale, avvolta da una nuvola sonora di versi d’uccello, percorrendo un sentiero tra canne di bambù piene di spine. Un tronco d’albero si apriva a ventaglio formando un triangolo a terra, mentre altri alberi avevano le radici a due metri dal suolo. E poi c’erano dei grossi grumi che pendevano dai rami: i nidi delle termiti. “Qui vivono i trogonidi”, ha detto indicando tra i rami alcuni uccelli coloratissimi. Wiebe ha riempito il taccuino di sigle: quattro lettere per ogni nome d’uccello, con dei trattini per segnare il numero degli esemplari. Tutti questi uccelli per ora stanno vincendo la sfida contro il cambiamento climatico, ha spiegato lo studente: riescono ancora a gestire le condizioni climatiche ai piedi della montagna e inoltre possono espandersi nelle zone più alte, che ormai sono diventate più calde. Come il Willisornis poecilinotus, un piccolo uccello poco appariscente che non vola particolarmente bene e saltella a caccia di formiche legionarie, ragni e serpenti. I perdenti stanno più in alto, nelle zone verso cui Wiebe si è incamminato dopo aver trascorso una notte in tenda a 770 metri di altitudine. Un fenomeno ricorrente Già alcuni anni fa gli ecologi statunitensi avevano esaminato le reazioni delle foreste tropicali al riscaldamento climatico, concentrandosi sul parco nazionale del Manu, nel sudest del Perù. Nel 2003 mapparono quattordici aree forestali collocate tra i 950 e i 3.400 metri d’altitudine, ognuna poco più grande di un campo da calcio. Dopo quattro anni ripeterono la stessa procedura studiando subito i dati, anche se in un periodo di tempo così breve non si aspettavano variazioni significative nella distribuzione. Invece riscontrarono uno schema ricorrente: gli alberi si stavano spostando verso l’alto, in media tra 2,5 e i 3,5 metri, come scrisse nel 2012 la rivista specializzata Journal of Biogeography. “Ce l’aspettavamo ma non prima di cinquant’anni”, spiega l’autore principale di quell’articolo, il biogeografo Kenneth Feeley, della Florida international university di Miami. Ovviamente gli alberi non possono prendere in mano le radici e cominciare a scalare la montagna. Ma con l’aiuto della forza di gravità, del vento e degli animali, distribuiscono i loro semi. A causa del cambiamento climatico i semi hanno una direzione quasi sempre obbligata: se approdano troppo in basso non sopravvivono, perché ormai per loro fa troppo caldo; se invece raggiungono le zone più alte e fresche, ce la fanno. Così nel corso di varie generazioni molte specie di alberi salgono lentamente verso l’alto, in particolare quelle del genere Schefflera, che sono anche tipiche piante da appartamento. Le Schefflera hanno una crescita molto veloce e distribuiscono i loro semi anche grazie ad alcuni uccelli, come i traupidi, che li beccano e li trasportano in zone più elevate. Invece gli alberi che lasciano cadere i semi sono troppo lenti per tenere il passo con il cambiamento climatico. Per scoprire se questo fenomeno si verifica in molti posti diversi, Feeley e i suoi colleghi hanno cominciato a collaborare con ricercatori di tutto il mondo e a monitorare aree forestali sempre più vaste in Colombia, in Ecuador e nell’Argentina settentrionale. Fino a oggi ci sono stati duecento rilevamenti e ovunque si è riscontrato lo stesso andamento. Una ricerca pubblicata su Nature nel 2018 ha evidenziato che le specie forestali resistenti al freddo migrano progressivamente verso l’alto, dove le temperature sono più basse. Il Perù, insomma, non è un’eccezione. La scalata degli alberi però non è una faccenda semplice come sembra: sul suo destino intervengono, oltre alla temperatura, anche altri fattori come l’umidità atmosferica e il grado di nuvolosità. E questi fattori non mutano tutti contemporaneamente all’innalzamento delle temperature. In altre parole, anche se alcune specie arboree sono in grado di spostarsi verso l’alto abbastanza in fretta, nelle zone che raggiungono potrebbero esserci condizioni sfavorevoli alla loro sopravvivenza. Per esempio, nelle duecento aree forestali mappate la linea degli alberi si è rivelata sorprendentemente stabile. “Le specie arboree provenienti dalle aree più basse si ritrovano letteralmente schiacciate l’una sull’altra”, spiega Feeley. Quindi per molte specie la risalita non si ferma in vetta, ma prima. Per questo motivo, secondo le stime degli ecologi, entro la fine del secolo il 10 per cento delle specie animali e vegetali potrebbe estinguersi a causa del cambiamento climatico. I boschi sono solo l’inizio: se la vegetazione si sposta, infatti, gli animali reagiscono di conseguenza. Nell’agosto del 2007 l’ecologa I-Ching Chen andò nel Borneo per scalare il monte Kinabalu, un’altra regione ricca di biodiversità. Esplorò la montagna partendo dalla fitta foresta tropicale ai suoi piedi fino al paesaggio roccioso della vetta, a 3.675 metri d’altitudine. La biologa, della National Cheng Kung university di Taiwan, voleva catturare le falene con trappole luminose, proprio come avevano fatto due suoi colleghi più anziani 42 anni prima, quando le temperature sulla montagna erano più basse di 0,7 gradi. Dal confronto emerse che in poco più di quarant’anni 102 specie di falene della famiglia dei geometridi avevano scalato in media 67 metri. “La combinazione della sensibilità al calore e dello spostamento verso l’alto che abbiamo descritto indica che gli insetti tropicali, per via della loro grande varietà, potrebbero essere tra le principali specie minacciate dal cambiamento climatico”, scrisse I-Ching Chen nel 2009 sulla rivista Pnas. Mistero in vetta Durante la notte nel bosco è cominciato a piovigginare. Alle prime luci dell’alba Wiebe si è incamminato lungo il sentiero illuminandolo con la torcia. Felci, muschi e licheni ricoprivano pietre e tronchi: c’erano tappeti di muschio perfino tra una liana e l’altra. Gli uccelli erano completamente diversi da quelli incontrati ai piedi della montagna. Dopo qualche centinaio di metri Wiebe si è fermato ad ascoltare un richiamo che riecheggiava sempre più forte nella foresta pluviale: Ruuuu-duu-du-du-du-du. “È una Grallaria guatimalensis. Sta molto più in alto di quanto dovrebbe”, ha detto. Quindi ha messo la mano a coppa sulla bocca per imitare il verso dell’uccellino dalla pancia rossa, la coda mozza e le zampette sottili. Poco più in basso gli ha risposto lo stesso verso, che ha riecheggiato di nuovo in lontananza. “C’è un altro esemplare, ma è lontano, lo sento appena”, ha aggiunto. La situazione, per ricapitolare i riscontri fatti da Fitzpatrick e Freeman, era più o meno questa: l’estensione dell’habitat di quest’uccello stabilita nel 1985 andava dai 700 agli 800 metri di altezza; nel 2016 oscillava tra gli 870 e i 990 metri. “È una bella differenza”, ha detto Wiebe. Poi ha preso il telefonino dalla tasca dei pantaloni, ha aperto l’app E-bird e ha calcolato l’altitudine con il gps: 1.170 metri. Vicino alla vetta, a 1.370 metri d’altezza, lo spazio tra gli alberi aumentava scoprendo il bianco del cielo. Con la pioggia il sentiero era diventato scivolosissimo e le gambe non avevano più presa sul terreno: per non scivolare bisognava aiutarsi con le mani. C’era odore di terra bagnata. In cima, nella rigida aria di montagna, Wiebe tremava per la pioggia, la fatica e l’umidità. Finalmente ha visto la cresta della montagna di fronte, il Teparo Punta. Anche quella cima, che aveva scalato l’anno prima, era boscosa. Dopo una pausa ha ripreso a camminare, poi si è fermato di nuovo ad ascoltare i suoni. “Un altro uccello del genere Grallaria”, ha detto. È sceso in una gola a forma di V, dove i sedimenti di sabbia indicavano che una volta lì scorreva un fiume. Resti di rami e foglie formavano una strada che risaliva la contropendenza, ma in fondo alla rampa scivolosa e piena di sassi il sentiero s’interrompeva. Wiebe si è guardato intorno e si è fatto strada nella boscaglia fino a un’altura, ma la vegetazione gli sbarrava la strada. Anche se poche decine di metri lo separavano dalla vetta, non ha potuto raggiungerla, almeno non in quella spedizione. Era come se la montagna si rifiutasse di svelare definitivamente il suo mistero. Non è chiaro cosa avvenga davvero su in cima: se non ci sono più le condizioni giuste, gli uccelli potrebbero disperdersi, ha ipotizzato Wiebe, magari lungo la cresta o forse raggiungendo le Ande. Oppure non trovando da mangiare a sufficienza per nutrire i piccoli, potrebbero smettere di deporre le uova e alla fine morire. Per il ritorno sono servite doti da equilibrista. Quando la pioggia gli ha dato un po’ di tregua, Wiebe si è fermato a un’altitudine di mille metri. “Non me lo aspettavo”, ha detto riferendosi alla scalata della Grallaria guatimalensis, che si era stabilita sulla cresta. Più su di così non si può. Questa specie è candidata all’estinzione? “Sì”, ha detto, poi si è messo a pensare ad alta voce. Probabilmente, da quando lui è nato in questa zona sono già scomparse alcune specie, come il quetzal crestato e il Momotus aequatorialis e l’averla formichiera variabile. Nel 2016 Benjamin Freeman non aveva più trovato in vetta otto specie. “Sarebbe bello se ci fossero ancora”, ha detto Wiebe tra sé e sé. “Magari da qualche parte sulle Ande ci sono ancora, ma qui con ogni probabilità si sono estinte. È un evento che puoi immaginare quando un’area viene disboscata”, ha detto. “Ma questa montagna è ricoperta da una foresta pluviale praticamente vergine”. Il cambiamento climatico insomma sta costringendo le specie tropicali a spostarsi e ha provocato le prime vittime. Il processo era stato studiato e dimostrato in altre zone del mondo solo per singole specie – per esempio la farfalla Euphydryas editha quino in California – ma non per intere comunità di animali, come sulla catena del Pantiacolla. Wiebe ha capito che quello sconvolgimento non era più un’ipotesi. “Si vede qui, proprio ora, ce l’abbiamo davanti”, ha detto alzando le mani e guardando le chiome degli alberi. u sk
Sull’ascesa degli alberi, oltre alla temperatura, intervengono anche altri fattori, come l’umidità atmosferica e il grado di nuvolosità
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Questo articolo è uscito sul numero 1367 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati