Di rinascimento psichedelico si parla da anni, e la letteratura generata da modi per percepire la realtà in maniera meno automatica è sterminata. Era inevitabile che questo spirito arrivasse anche nella scena musicale. Questo vale per Māyā, terzo disco del produttore Mace, nato dalla coabitazione con quindici musicisti e strumentisti – tra cui Gemitaiz, Marco Mengoni ed Enrico Gabrielli, per dare un’idea delle variazioni all’interno del disco – in un casale in Toscana, durante un arco di tempo in cui alcune persone andavano e altre venivano. L’idea di ripristinare session meno militarizzate rispetto alla produzione nostrana, richiamando l’esperienza dei collettivi anni settanta, sembra quasi un’evoluzione necessaria per una figura come Mace, che ha fatto delle collaborazioni una cifra del suo lavoro.
Confesso che ogni volta che sento l’espressione “il velo di Maya” una parte di me attiva uno stato d’allarme, come se stessi per assistere a una dichiarazione di falsa profondità rispetto al mondo che abitiamo, in cui un’ispirazione cosmologica si scioglie in tante banalità. O meglio, riflette una delle mie angosce: cosa succede se quando facciamo un passo al di là del realismo, le nostre visioni si rivelano ripetitive e non ci danno l’illuminazione desiderata? Concepire un disco come Māyā significa dialogare con questo rischio, e forse c’è qualcosa di liberatorio nel mettere insieme dei brani che non sono pienamente trasformativi, ma orientati a un benessere momentaneo, fatti di tanti codici senza una personalità prevaricante. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1566 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati