**◆ **Teniamoci a distanza. È be- ne scansarci ancora più di quanto già ci scansavamo. Ba- sta con i blandi tentativi di co- munità, comunanza, comu- nione, perfino comunella. Par- larsi sì, ma dopo aver preso be- ne le misure. Sedere sì, ma senza nessuno a lato. E niente stretta di mano, aboliamo que- sto vecchio segnale che pare servisse a dire: fidati, non sono armato. Se prima del corona- virus “fidarsi è bene” aveva ancora una sua forza, ora trionfa la seconda parte del proverbio: “non fidarsi è me- glio”. E intanto tutto si muove in modo imprevedibile. Fino a poco fa, arroccarci tra noi ita- liani, temere l’estraneo specie se migrante, pareva la soluzio- ne vincente. Ora, nell’immagi- nario, la nazione, il nazionali- smo e perfino l’orgoglio regio- nale o di campanile, davanti al virus paiono ridotti ai cubicoli domestici o d’ospedale. Bene dunque? Sì, se si potesse ipo- tizzare che la minaccia di con- tagio e di rovina economica ci modificherà la testa al punto da spingerci a riconoscere il nostro prossimo nei milioni di profughi che sperimentano terrori ben più significativi dei nostri. Ma non va così, basta dare un’occhiata ai greci. Se la disperazione spinge i migranti ad accorciare le distanze, noi, che ormai le distanze le mar- chiamo con connazionali, con- domini, amici e familiari, an- cora di più le vogliamo marca- re con loro, evitando di tende- re la mano e caso mai sparan- dogli addosso.

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Questo articolo è uscito sul numero 1367 di Internazionale, a pagina 12. Compra questo numero | Abbonati