Eravamo appena usciti da Tbilisi, in Georgia, quando ci è venuto naturale chiedercelo. Come chiamare gli uomini che avremmo incontrato e che, al ritmo di diecimila al giorno, stavano attraversando il confine tra Russia e Georgia per sfuggire alla mobilitazione militare ordinata dal presidente russo Vladimir Putin? “Ieri ho usato la parola ‘rifugiato’, ma poi mi sono ricordata di quand’ero andata a filmare i profughi siriani in una tendopoli in Ungheria. E ho pensato: no, questi non posso chiamarli rifugiati”, ha detto la videoperatrice Sasja.

La sua condizione era molto meno problematica, proprio come quella delle migliaia di giornalisti, attivisti e intellettuali come lei fuggiti dalla Russia poco prima o subito dopo l’inizio della guerra: i cosiddetti martovskie (da marzo, mart in russo, il mese in cui c’è stato il grosso delle partenze). Tra loro c’erano anche quelli che, in lunghi post sui social network, si autoflagellavano chiedendosi se non erano corresponsabili degli orrori di Buča. Nonostante la sincerità dei sentimenti, quei mea culpa mi sono sempre sembrati irreali, i morsi della coscienza retorici e la sofferenza in un certo senso fuori luogo. Perché in fondo quelle persone avevano fatto tutto il possibile. Avevano organizzato o raccontato le proteste contro il regime di Putin, pur sapendo di essere una piccola minoranza e consapevoli che ad aspettarle, in piazza e a volte perfino sotto casa, avrebbero trovato la polizia. Eppure hanno continuato a parlare pubblicamente, hanno tenuto in piedi giornali e ong in cambio di stipendi spesso poco più che simbolici. Hanno rischiato di finire in carcere o ci sono finite. L’ultimo sacrificio è stato abbandonare case e famiglie, per poi essere bollate dal loro presidente come feccia, traditrici della patria. Dall’esilio si attribuivano anche le colpe dell’esercito russo in nome di una collettività a cui erano estranee da tempo, formata da tutti quelli che erano rimasti a casa, passivi e remissivi come sempre. Un atteggiamento nobile e assurdo allo stesso tempo.

Ma poi, nelle ultime settimane di settembre, dopo l’annuncio della mobilitazione militare, sono stati proprio i russi rimasti a casa a dar vita a una seconda ondata di emigrazione: quella dei cosiddetti sentjabrskie (da sentjabr, settembre). L’esercito russo – ha detto Putin – aveva bisogno di trecentomila uomini, ma i primi battaglioni a formarsi sono stati quelli dei fuggiaschi. Decine di migliaia di giovani si sono rifugiati nelle ex repubbliche sovietiche (Armenia, Georgia e Kazakistan), in Turchia e, i più fortunati, in Europa. È il più grande esodo della storia russa recente. E solleva un vero dilemma morale per i paesi verso i quali si dirigono, che devono stabilire se questa massa di persone rappresenti o meno un cavallo di Troia del Cremlino; per l’Unione europea, che deve decidere se concedere i visti; e per la stessa opposizione russa, che deve capire che posizione prendere rispetto a un gruppo sociale con cui condivide il passaporto e le circostanze di vita ma non il bagaglio ideologico.

Dovremmo quindi chiamarli dezertiry, disertori? No, suona propagandistico ed è scorretto, considerato che molti non sono (ancora) stati chiamati alle armi. Uklonisty, deviazionisti? Otkazniki, renitenti? E se si tratta di renitenti, a cosa si oppongono di preciso? Alla guerra, alla morte, alla prigione o a Putin?

Il nostro autista, Nikre, un robusto georgiano che negli anni novanta aveva combattuto contro i russi in Abkazia, abituato a parlare senza sosta, era insolitamente silenzioso. Stavamo già percorrendo la Strada militare georgiana, la via che da secoli collega il Caucaso del sud con Vladikavkaz, in Russia, quando gli ho chiesto cosa ne pensava dei russi che cercavano rifugio nel suo paese.

“Ho perso dei compagni in guerra”, ha risposto Nikre. “Ma non ho mai avuto niente contro i russi, né allora né oggi. Sono i governi che fanno le guerre. Le persone e i loro governi non sono la stessa cosa”. Le sue parole, però, non hanno convinto del tutto né me né Sasja, paladine della morale che non hanno mai fatto la guerra.

Difendere i privilegi

Le proteste contro la mobilitazione militare hanno rivelato l’esistenza di un profondo malcontento, soprattutto nelle regioni più lontane da Mosca come il Daghestan, a sud, e la Jacuzia, a est. Diversi politologi hanno parlato della fine del patto sociale tra Putin e il popolo russo. Il concetto è stato coniato nei primi anni 2000 dall’economista russo Aleksandr Auzan. A grandi linee si tratta di un accordo implicito tra Putin e la società russa, in base al quale il presidente garantisce ai cittadini un certo livello di benessere e stabilità in cambio della rinuncia alla libertà politica. Il frigo pieno come massima aspirazione.

Una settimana dopo l’inizio della mobilitazione, sulle pagine della rivista Foreign Affairs, Michael Kimmage e Maria Lipman annunciavano la fine della “società atomizzata e remissiva che, al sicuro nella sua apoliticità, non doveva disturbare le azioni del Cremlino”.

Oltre alle manifestazioni, si stava delineando anche un’altra reazione: se prima della mobilitazione molti vivevano in uno stato individuale di negazione della realtà, ora cercavano, sempre individualmente, un modo per sopravvivere. Proprio come in epoca sovietica, la difesa dei propri privilegi aveva la meglio sulle ragioni della protesta collettiva.

Per capire questo cambiamento è utile ricordare la teoria dell’economista tedesco-statunitense Albert Hirschman, secondo il quale il cittadino insoddisfatto ha tre scelte: essere fedele (loyal) adeguandosi alla situazione, esternare (to voice) le proprie opinioni o andarsene (exit).

Il giorno dopo l’annuncio della mobilitazione, ho passato in rassegna il mio giro di amici e conoscenti in Russia: i fedeli. Solo in quel momento mi sono resa conto di quanti ne conosco. E anche di quanto sia traballante l’idea che si sente ripetere dall’inizio della guerra, secondo cui i russi fuori dalla Russia sono “i russi buoni” mentre quelli rimasti a casa sono “i cattivi”, sostenitori di Putin e della guerra.

Tra i miei conoscenti nessuno sosteneva la guerra, anche se tutti avevano colleghi, familiari o amici che lo facevano. Ma ognuno di loro aveva qualche motivo per non emigrare: una moglie malata, genitori anziani, debiti, nessuna conoscenza dell’inglese né prospettive di lavoro.

Presto le loro storie sono arrivate sulla mia scrivania, attraverso telefonate e messaggi cifrati. Se a febbraio, quando era cominciata la guerra, era ancora possibile condurre una vita normale, ora le cose erano cambiate. Nell’ufficio di un conoscente che lavorava nell’informatica, dopo l’annuncio della mobilitazione si erano presentati sei dipendenti su 64.

La doppia vita dei sovietici

Il miglior amico del mio amico Dima è stato chiamato alle armi e ha deciso di nascondersi in una casa di campagna isolata. La notte prima della mia partenza dalla Russia, all’inizio di marzo, Dima mi aveva mostrato sull’iPad una lettera che invocava la resistenza contro il regime: l’aveva scritta lui stesso e l’avrebbe cancellata poco dopo. Alla fine è rimasto a Mosca. L’idea di lasciare il lavoro lo spaventava. Ma soprattutto si sentiva perso. La stragrande maggioranza dei suoi conoscenti erano i cosiddetti patrioti Z, come lui stesso chiama i seguaci di Putin, sempre pronti a sfoggiare la lettera diventata simbolo della guerra. Non capiva perché avrebbe dovuto rinunciare alla sua tranquillità per dare un piccolo segnale morale che all’interno della sua cerchia non avrebbe avuto alcun effetto e all’esterno non sarebbe stato neanche notato.

Come sempre, Dima aveva scelto la soluzione meno conflittuale: non fare niente e aspettare. La guerra era arrivata al suo migliore amico. Ma non ancora a lui: non faceva parte del gruppo di riservisti che sarebbero stati convocati per primi. L’aggettivo “parziale” che Putin aveva affiancato a “mobilitazione” serviva proprio come rassicurazione e diversivo.

Anche gli altri miei amici e conoscenti s’immaginavano troppo vecchi per essere chiamati. E pensavano che neanche i figli sarebbero finiti al fronte: troppo giovani, senza esperienza militare, con i piedi piatti, l’asma o qualche altro problema di salute. Una persona che conosco è stata esonerata perché lavorava per l’ufficio che gestisce il sistema pubblico d’identità digitale. Ognuno si è aggrappato a qualcosa.

Un coscritto russo in un centro di reclutamento a Mosca, 11 ottobre 2022 (Nanna Heitmann, The New York Times/Contrasto)

I mezzi d’informazione, indipendenti e statali, hanno raccontato in dettaglio le violazioni delle procedure per il reclutamento. In Buriazia è stato mobilitato un padre di cinque figli. “Capisco che la nostra repubblica debba arruolare quattromila soldati. Ma certi diritti vanno rispettati”, ha detto la moglie in un video diffuso su internet. A Mosca un informatico di trentadue anni altamente specializzato è stato spedito al fronte praticamente senza preavviso. “Che farà ora?”, gli ha chiesto una giornalista prima della partenza. “Vado, che altro posso fare? Se non mi presento mi arrestano”.

In questa situazione sono venute fuori le piccole bugie del potere, non quelle grandi. E il Cremlino ne ha approfittato. Sulla scia di Stalin, che scaricò sui suoi sottoposti le colpe per gli eccessi della campagna di collettivizzazione, Putin ha promesso che “tutti gli errori” saranno corretti.

Mi hanno scritto anche molte donne, frustrate o disperate. “È come se gli uomini russi non volessero salvarsi”, mi ha detto la mia amica Ira. A Voronež era stato convocato il marito di sua sorella. In preda al panico, la donna si è adoperata per cercare una soluzione, continuando a occuparsi del bambino di due anni, mentre il marito ha cominciato a bere. Tornato in sé, ha deciso di ignorare la convocazione, sperando che nel frattempo la quota di arruolati per la loro città fosse raggiunta e che i militari lo lasciassero in pace.

Il fratello della mia amica Julija, invece, non ha dato ascolto alle donne della famiglia che lo pregavano di scappare. Sapeva che la guerra non rappresentava niente di buono, ma doveva rimanere in Russia per proteggere il paese da un’invasione della Nato. La decisione di Putin di puntare sulla retorica della mascolinità russa, militarista per definizione, evidentemente ha successo.

In Russia l’equivalente della festa della donna per gli uomini è la giornata del difensore della patria, il 23 febbraio. In quell’occasione chi non indossa la maglia a righe della marina militare o dimostra di non sapere in quanti secondi si assembla un kalashnikov è considerato un rammollito. Cosa che per l’ego maschile russo equivale a una pugnalata. Per tutta la vita ai maschi russi s’insegna che il loro valore è dato dal ruolo di potenziali difensori della terra russa e delle madri, mogli e figlie che la abitano. Oggi quel compito va onorato, anche se sono proprio le madri, mogli e figlie a fare di tutto affinché i loro uomini non vadano al fronte.

“Ho anch’io una parte di responsabilità collettiva, ma non so in che misura”

Quando ho chiesto a mia madre, scappata dall’Unione Sovietica all’inizio degli anni ottanta, cosa le dava più fastidio della vita di quegli anni, mi ha risposto così: “Era un’esistenza dissociata. Anche da bambina sapevi che si pensava una cosa ma che ad alta voce se ne diceva un’altra”. Queste parole mi sono tornate in mente al confine tra la Russia e la Georgia, nella località di Verkhnij Lars. La differenza è che oggi si fa una cosa ma si dice che se ne sta facendo un’altra. I giovani che percorrevano la strada per entrare in Georgia avevano spesso con sé solo una borsa. I volti erano ingrigiti dal lungo viaggio. Molti erano in bici.

Per raggiungere la Georgia bisognava andare in aereo a Vladikavkaz, procurarsi una bici per percorrere gli ultimi quattordici chilometri fino al confine e aggirare così le code infinite di auto. Ogni secondo contava: il confine poteva essere chiuso da un momento all’altro.

Eppure molti degli uomini con cui ho parlato mi hanno assicurato che la loro presenza al confine con la Georgia non aveva nulla a che fare con la politica. Cercavano di convincermi che stavano andando in vacanza, a trovare un amico o che erano appassionati di ciclismo. Altri parlavano in codice. Erano fuggiti a causa della “situazione”, per una “vacanza che avrebbe potuto prolungarsi a lungo”. Avevano già scelto di andarsene (exit) ma non riuscivano ancora a dirlo (voice). All’estremo opposto c’erano quelli felici come i maratoneti che hanno appena tagliato il traguardo. “Voglio essere libero, sono stufo del dittatore!”, mi ha detto un archeologo di Archangelsk, con il parka bagnato appiccicato alla pelle e uno schizzo di fango sul viso. Non è stato l’unico a confessare di essersi preparato per mesi alla partenza. La mobilitazione è stata solo il segnale del via.

E poi c’era anche un terzo gruppo: quelli che non avevano mai pensato di partire e che si erano adattati, anche se disillusi o insoddisfatti, a una vita da loyal. Come Michail, 28 anni, che lavorava al porto di una piccola cittadina nella regione di Krasnodar. Aveva ricevuto la convocazione il giorno del funerale del padre. Il lutto non era neanche cominciato che già doveva salutare la madre e il suo paese.

Una settimana dopo l’incontro al confine, l’ho visto di nuovo in un bar di Tbilisi. Sembrava dimagrito, con gli zigomi sporgenti e gli occhi grandi. Ogni volta che la conversazione cadeva sui genitori, distoglieva lo sguardo per darsi un contegno. Come i due terzi dei russi, non era mai stato all’estero. “E ora sono un immigrato”, ha detto scherzando. Poco distante, sui muri delle case, si leggevano scritte contro i russi: “Fuck Putin”, “Fuck russians”, “Get out of Georgia”.

Nella vita di Michail c’era già stata una svolta, anche se dalle conseguenze meno drammatiche. Due anni fa, quando era in vacanza a San Pietroburgo, grazie a una guida locale si era interessato alla storia russa. A forza di leggere e studiare, da Aleksandr Solženitsyn era arrivato ad Aleksej Navalnyj. Secondo lui tra Putin e il popolo non c’è più nessun patto ormai da tempo: “Ma quale stabilità? Ognuno è sommerso dai problemi quotidiani, gli stipendi ci bastano appena per sopravvivere e moriamo prima di aver raggiunto l’età della pensione. I russi sono moralmente stanchi”. Troppo stanchi per ribellarsi.

Michail non aveva mai partecipato alle manifestazioni. Perché credeva che il movimento fosse troppo marginale e composto da persone con cui aveva poco in comune, poi per paura di essere arrestato e infine – ammette – anche per pigrizia. “Per prendere parte a una protesta devi metterti le scarpe”, ha detto, ridendo. “E poi io non volevo cambiamenti radicali, volevo solo una vita normale”. Così per anni Michail si è limitato a esercitare la sua resistenza in casa, cercando di convincere la madre contabile e il padre camionista degli errori del putinismo. Ma le sue tesi erano bollate come assurdità e sovrastate dalla propaganda dei programmi di Zvezda, l’emittente tv del ministero della difesa russo, sempre accesa in casa, anche dopo l’invasione russa dell’Ucraina del 24 febbraio.

La televisione è stata spenta solo dopo che, ad aprile, i genitori di Michail avevano parlato al telefono con un vecchio amico che abitava a Cherson, in Ucraina. Cosa gli abbia raccontato di preciso, Michail non lo sa. Ma quest’anno il 9 maggio, il giorno in cui si celebra la vittoria sul nazismo, a casa loro l’atmosfera era diversa. Tutt’a un tratto era suo padre a spiegare ai conoscenti che la missione di “liberazione” in Ucraina non era poi così eroica.

Poi è arrivato il 22 settembre, il giorno dopo il funerale di suo padre e il discorso di Putin sulla mobilitazione, quando Michail ha ricevuto la cartolina. Al contrario dei ragazzi ricchi di città, che trovano sempre un modo per evitare l’arruolamento, lui aveva fatto il servizio di leva, dettaglio che lo faceva rientrare nel gruppo che sarebbe finito al fronte per primo. “Più che servizio militare è stata una prova di sopravvivenza”, mi ha raccontato. “Per la maggior parte del tempo cercavamo di stare al caldo. Vivevamo in un campo abbandonato nei dintorni di Astrachan. In tutto l’anno avrò sparato sei pallottole, quasi tutte durante il giuramento”.

Insieme con la madre, è andato al commissariato per chiedere un rinvio per motivi familiari. Ma si è scontrato con un muro. “Non c’è stata alcuna comprensione”, mi ha detto Michail. La patria gli stava chiedendo il sacrificio estremo e non era disposta a cedere di un millimetro. “A mia madre è crollato il mondo addosso. Ha detto che avrei fatto meglio ad abbandonarla piuttosto che andare a combattere”. Michail avrebbe potuto fare come il suo migliore amico, che si era ferito per farsi esonerare. Invece ha preparato la borsa.

Di solito le persone che scappano dalle grandi città riescono a continuare a lavorare online anche dall’estero. Ma per i tecnici come Michail in Georgia non c’è lavoro. Avrebbe voluto andare in Germania, ma non aveva il visto Schengen. Ora sta pensando al Messico, per poi raggiungere gli Stati Uniti e fare il camionista, come il padre. Il piano è irrealistico, ma non ho il coraggio di dirglielo. Ha già prenotato il biglietto aereo con i risparmi della famiglia. Gli chiedo cosa sarebbe successo se al commissariato avesse trovato un impiegato più comprensivo e avesse ricevuto una proroga di un mese. “Non ci ho pensato. Forse sarei partito comunque”.

La ricetta universale

La mattina del 25 settembre, controllando il telefono, ho visto che il mio amico Sergej mi aveva mandato un messaggio all’una di notte: “Sto cercando un modo per far uscire mio figlio dal paese”. Solo qualche giorno prima mi aveva assicurato che il ragazzo non aveva nulla da temere perché studiava ancora. Anche il mio amico Jurij, inizialmente convinto che la mobilitazione non lo riguardasse, era partito per il Kazakistan. Con i voli diretti già pieni, doveva prendere l’aereo, il treno e la macchina. “Non avrei mai immaginato di trovarmi in questa situazione”, mi ha scritto.

Lo stesso giorno mi ha contattato anche Dima. Il giorno dopo sarebbe partito per la Finlandia, per la quale si era procurato il visto già da tempo. “Mi sono reso conto che qui non c’è futuro”. Nelle nostre precedenti conversazioni aveva definito la società europea ipocrita, malata e prossima al collasso. Ora cercava rifugio lì. Anche a lui era chiara l’ironia della situazione. “Per molti versi mi sbagliavo. Ero alla ricerca di una sorta di ricetta sociale universale. E ora l’ho trovata: niente violenza e istruzione di buona qualità. So di aver assunto posizioni sbagliate. Ma ero disposto a cambiare. La responsabilità la sento. Anche per l’annessione della Crimea. Ora comincia un altro periodo della mia vita”.

Riflessioni nuove

Secondo i difensori dei confini aperti, ogni uomo che lascia la Russia per rifugiarsi all’estero è un soldato in meno. Ma le immagini dei bus strapieni diretti al fronte suggeriscono che l’immensa Russia avrà abbastanza uomini anche dopo la fuga di qualche centinaio di migliaia di persone. Se non nelle città, li recluterà nelle province più povere. Secondo un’altra idea molto diffusa, i russi che oggi scappano saranno l’opposizione di domani. Ma se l’obiettivo è questo, un cinico potrebbe obiettare che una certa consapevolezza politica forse si acquista più rapidamente al fronte. Per dirla con le parole di un soldato russo raccolte dal sito indipendente Meduza: “Al fronte ti svegli la mattina che sei una persona e la sera sei già qualcun altro. Sei sottoposto a tali metamorfosi da averne paura. Ti rendi conto di quanto sei stato cieco fino a quel momento. E sordo”.

Alla fine queste persone possono essere definite rifugiati politici. Secondo lo scrittore russo Boris Akunin, che ha lasciato la Russia nel 2014 dopo l’annessione della Crimea, la fuga è “la forma di protesta più forte e radicale nella storia russa recente. Certo, la prova che devono affrontare gli ucraini è infinitamente più tragica, ma c’è da dire che tutti gli espatriati russi sostengono gli ucraini, mentre nessuno sostiene loro. E poi c’è una differenza molto importante: per un russo l’esilio è una scelta personale”.

Queste parole Akunin le ha scritte sulla sua pagina Facebook cinque giorni prima dell’annuncio della mobilitazione. La sua posizione non è cambiata. Anche dopo l’inizio del reclutamento si poteva continuare ad “adattarsi, fingere, seguire la massa”. Vale a dire: rimanere leali.

Le persone con cui ho parlato hanno ammesso apertamente che non sarebbero scappate se non fosse stata una questione di vita o di morte. “Ho fatto quello che potevo. Ho firmato petizioni, partecipato a manifestazioni. Ma la mia vita a Mosca non era brutta. Forse ero ingenuo, credevo che l’autoritarismo sarebbe rimasto entro certi limiti. O magari sono stato troppo passivo”, mi ha confessato Aleksandr, un informatico di 34 anni, su una panchina di Tbilisi.

“Ultimamente cerco di leggere di più sulla Germania del dopoguerra e di capire se sono colpevole o no”, mi ha detto. “Evidentemente ho anch’io una parte di responsabilità collettiva, ma non so in che misura. È come se andando via ti scrollassi di dosso la colpa. Ma la cosa paradossale è che la vita è più pesante per chi rimane. Cercano di continuare a fare il loro lavoro, magari provano a far cambiare idea a chi hanno accanto. Ma in un modo o nell’altro la colpa si accumula sulle loro spalle”.

Si tratta di riflessioni nuove per i russi, cresciuti con l’idea che il terrore sovietico fosse inevitabile, nato dal nulla e poi scomparso improvvisamente, con tante vittime ma nessun colpevole. Gli uomini che ho incontrato non combattono per la libertà. Ma non sono neanche patrioti Z, che sostengono segretamente i piani del Cremlino. Per lo più sono persone normali che si sono aggrappate alla loro vita il più a lungo possibile, e nonostante tutto. Oggi pagano il desiderio di questa normalità con enormi cambiamenti personali. Forse “persone senza speranza” è l’espressione migliore per descriverle. La mobilitazione di Putin le ha private della speranza che un giorno le cose si sarebbero sistemate da sole. E questo è già un inizio. ◆ vf

Eva Hartog è una giornalista olandese, collaboratrice di De Groene Amsterdammer e Politico Europe. Tra il 2017 e il 2019 ha diretto il quotidiano The Moscow Times.

Da sapere
L’evacuazione di Cherson
Fonti: Financial Times, Liveuamap

◆ In previsione di una possibile controffensiva ucraina su Cherson, le forze russe stanno proseguendo l’evacuazione della città e preparando nuove linee di difesa sulla sponda orientale del fiume Dniepr. Secondo le autorità di occupazione almeno 22mila persone sarebbero già state trasferite. I russi inoltre avrebbero completato la costruzione di un ponte di barche sul Dniepr per sostituire quelli distrutti dai bombardamenti ucraini. Kiev sostiene che Mosca ha intenzione di far saltare la diga di Khakhovka per rallentare l’avanzata delle sue forze. Per il momento però non ci sono segni che l’offensiva sia imminente: il ministero della difesa ucraino ha affermato che negli ultimi giorni il maltempo ha ostacolato le operazioni militari.

◆ Il 22 ottobre la Russia ha lanciato una nuova ondata di bombardamenti contro le infrastrutture civili ucraine, in particolare la rete elettrica che sarebbe ormai in gran parte fuori uso. Secondo fonti russe però questi attacchi non sono bastati a placare i più convinti sostenitori dell’invasione, sempre più insoddisfatti per la gestione del conflitto da parte del Cremlino e per le ripetute sconfitte subite nelle ultime settimane.

◆ Il 23 ottobre il ministro della difesa russo Sergej Soigu ha accusato l’Ucraina di voler inscenare una provocazione facendo esplodere una “bomba sporca”, un ordigno composto da esplosivo convenzionale e materiale radioattivo. L’Agenzia internazionale dell’energia atomica ha annunciato un’indagine.
Institute for the study of war


Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1484 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati