Quando l’allora ministro della cultura italiano Gennaro Sangiuliano si è dimesso dall’incarico per uno scandalo sessuale, il 6 settembre 2024, al suo posto è stato nominato Alessandro Giuli. Un uomo con poca esperienza in politica, ma che da giovane ha fatto parte dell’organizzazione giovanile del Movimento sociale italiano (Msi), un partito neofascista, lo stesso in cui ha militato la presidente del consiglio Giorgia Meloni. Dopo aver vinto le elezioni, Meloni aveva nominato Giuli direttore del Maxxi, un importante museo di Roma. Giuli faceva parte del progetto di Meloni già molti anni prima di diventare ministro. Lo ha sempre considerato uno dei candidati più adatti per realizzare un progetto che le sta a cuore: costruire l’egemonia culturale della destra.

Il concetto di egemonia culturale era stato sviluppato dal filosofo comunista italiano Antonio Gramsci per spiegare come mai la rivoluzione dei lavoratori annunciata da Karl Marx non si fosse ancora realizzata. Secondo Gramsci il motivo è che la classe dirigente controlla le istituzioni, dalle scuole ai mezzi di comunicazione, e le usa per diffondere la propria ideologia, plasmando il sistema di valori della popolazione e quindi le sue azioni. Controllare la cultura significa governare gli sviluppi politici e sociali.

La madre di tutte le sfide

Meloni non è comunista, ma è convinta che la sinistra italiana sia riuscita dalla fine della seconda guerra mondiale a prendere il controllo delle istituzioni culturali, come le arti e il mondo accademico, creando una situazione che lei ha definito “egemonia di potere” contro la destra. Ora che è al governo è determinata a ribaltare la situazione. Giuli non potrebbe essere più d’accordo e pensa a Gramsci per indicare un percorso. Nel suo libro Gramsci è vivo (Rizzoli 2024) ha illustrato la sua visione: “Su questo crinale, oggi, a destra più che altrove, si gioca la madre di tutte le sfide: transitare dalla mentalità degli esclusi e dei ‘governati’ a una logica di sistema, che alla lettera significa ‘stare insieme’ e oltre la lettera vuol dire appunto autopercepirsi come una classe dirigente sorretta da una visione prospettica della società”.

Ciò che Giuli sostiene nel libro è che la destra, esclusa fino a poco tempo fa dal regno della cultura, dovrebbe abbracciare l’idea di Gramsci di egemonia culturale. In altre parole, per diventare una vera classe di governo non si può fare affidamento solo sul potere politico ma bisogna stabilire una narrazione dominante per mantenere il consenso attraverso un sistema di valori condivisi e prendere possesso delle istituzioni culturali, una cosa in cui la sinistra è stata tradizionalmente capace.

L’ammirazione della destra italiana per Gramsci non è un caso isolato: Martin Sneller, politico austriaco e figura di spicco dell’estrema destra di lingua tedesca, ha citato Gramsci nel libro intitolato “Cambio di regime da destra: una bozza strategica”. Tra gli ammiratori fuori dell’Europa ci sono l’ex stratega della Casa Bianca Steve Bannon e Olavo de Carvalho, ideologo conservatore brasiliano morto nel 2022. Ma Meloni, diversamente da loro, ha una visione e il potere per realizzarla.

Strappare la cultura alla sinistra

Il primo pensatore di destra ad appropriarsi delle idee di Gramsci è stato il filosofo francese Alain de Benoist, a metà degli anni settanta. Secondo Francesco Germinario, storico della fondazione Luigi Micheletti e studioso delle tendenze di estrema destra, de Benoist ha decontestualizzato Gramsci ignorando il suo marxismo e concentrandosi esclusivamente sull’idea di egemonia culturale e sull’importanza delle battaglie culturali per incrementare il proprio potere.

Il governo di Meloni è stato particolarmente attivo anche nel modellare la Rai

Questa reinterpretazione ha avuto particolare successo nell’Italia del dopoguerra, dove la destra si è trovata emarginata e ha abbracciato una mentalità difensiva e vittimistica: “Dal dopoguerra la destra ha cercato soprattutto di difendersi”, osserva Germinario. Poi, quando la sinistra italiana ha attraversato una crisi di identità dopo la caduta dell’Unione Sovietica, la destra avrebbe potuto contrattaccare, ma non aveva sviluppato le munizioni intellettuali necessarie. E così, “mancando di propri punti di riferimento, la destra ha cercato l’ispirazione culturale a sinistra”, ha aggiunto Germinario.

Per la verità, la percezione che la sinistra abbia esercitato un’egemonia culturale totale in Italia è sbagliata. La Democrazia cristiana, che ha governato il paese tra il 1948 e il 1992, ha avuto una forte presa sulle istituzioni culturali, a partire dalle scuole e dalla tv. Il Partito comunista, invece, ha mantenuto un’influenza rilevante sull’editoria e sul cinema. E allo stesso tempo Silvio Berlusconi, che è stato a più riprese presidente del consiglio tra il 1994 e il 2011, ha avuto un quasi monopolio sulla tv, anche se non ha esercitato il suo potere in altri ambiti culturali, nonostante possedesse due grandi case editrici (una delle quali, Einaudi, ha un chiaro orientamento a sinistra).

Berlusconi non era interessato alla cultura alta e non ne ha mai fatto mistero: “Aveva una concezione utilitaristica della cultura. Aveva capito con qualche anno di anticipo la crisi dei giornali e di un mondo di intellettuali legati ai giornali”, dice Giorgio Caravale, professore di storia moderna all’università Roma Tre e autore del libro Senza intellettuali. “Per Berlusconi era tutto legato alla televisione”, aggiunge Caravale. “Gli interessava più ciò che le persone di spettacolo dicevano davanti alla telecamera che le centinaia di editoriali sui giornali”.

In Italia la tv ha un ruolo centrale nella società. Dopo la seconda guerra mondiale ha contribuito all’alfabetizzazione e a diffondere l’italiano come lingua condivisa a scapito dei dialetti locali. Oggi l’Italia ha una popolazione particolarmente anziana che si affida soprattutto alla tv per informarsi e per l’intrattenimento. I lettori di quotidiani e libri sono pochi rispetto ad altri paesi sviluppati.

La destra di Meloni ha un approccio diverso. “Quando è diventata presidente del consiglio ha pensato di dover fare quello che Berlusconi non aveva fatto in vent’anni di carriera politica: investire nella cultura e strapparla alla sinistra”, sottolinea Caravale. Meloni ha assegnato quasi tutti gli incarichi culturali a persone fidate, che in molti casi avevano un trascorso all’interno dell’Msi.

Dall’Msi proveniva anche il predecessore di Giuli, Sangiuliano. In un’intervista alla New York Review of Books, l’ex ministro diceva di voler ribaltare quella che percepiva come un’egemonia culturale delle sinistra, dichiarando che “l’animo radical chic di certi salotti romani ha tentato di trasformare la cultura in Italia in un affare per pochi”. E ha aggiunto di sperare di regalare “al panorama culturale nazionale un orizzonte più vasto”.

Per riuscire nel suo intento Sangiuliano ha adattato la letteratura trasformando Dante Alighieri in un’icona della destra e organizzando a Roma una mostra molto pubblicizzata dedicata a John Ronald Reuel Tolkien, un autore amato dalla destra postfascista italiana (tra gli anni settanta e gli anni novanta l’organizzazione giovanile dell’Msi aveva organizzato una serie di “Campi Hobbit”). Sangiuliano aveva anche annunciato la creazione di una serie di nuovi musei, dal museo della lingua italiana al museo della cultura italiana, fino al museo delle foibe, il cui obiettivo sarebbe stato ricordare i crimini di guerra commessi dai partigiani jugoslavi contro gli italiani durante la seconda guerra mondiale. Nessuno di questi musei è stato ancora realizzato.

Un altro esponente dell’ex Msi, Pietrangelo Buttafuoco, è stato nominato da Meloni presidente della Biennale di Venezia. Buttafuoco è un giornalista e scrittore noto per le sue posizioni ultraconservatrici.

Giorgia Meloni negli studi di Porta a Porta. Roma 30 ottobre 2024 (Giorgia Meloni negli studi di Porta a Porta. Roma 30 ottobre 2024)

Il governo di Meloni è stato particolarmente attivo anche nel modellare la tv di stato, la Rai, al punto che dal 2022 chi è critico nei confronti della presidente del consiglio ha parlato di “tele-Meloni”. Questo impegno è ancora più intenso rispetto all’epoca di Berlusconi perché Meloni, nonostante abbia vinto le elezioni, sembra spaventata dall’idea che qualcuno possa parlare male di lei. Per cui le cattive notizie sono spesso censurate mentre le buone sono celebrate all’eccesso, anche se si tratta di un trafiletto favorevole in un quotidiano straniero.

Il direttore generale della Rai Giampao­lo Rossi, anche lui con un passato da attivista dell’Msi, proviene dalla stessa sezione del partito in cui Meloni ha mosso i primi passi in politica da adolescente, nel quartiere romano di Colle Oppio. Sotto la guida di Rossi, la Rai ha prodotto e trasmesso diverse miniserie a carattere storico, tra cui una che celebra l’occupazione della città croata di Rijeka (Fiume) da parte dei nazionalisti italiani e un racconto romanzato degli ultimi giorni del regime fascista nel 1943.

La morsa di Meloni sulla Rai è apparsa più evidente il 25 aprile 2024 quando Antonio Scurati, scrittore e autore di M – una biografia romanzata ed estremamente critica di Mussolini, all’origine della serie televisiva con lo stesso titolo prodotta da Sky – avrebbe dovuto recitare un monologo in occasione dell’anniversario della liberazione. Ma l’evento è stato cancellato all’ultimo minuto per “ragioni editoriali”, come si legge in un comunicato interno della Rai arrivato ai mezzi d’informazione. È probabile che le ragioni stessero nelle critiche a Meloni contenute nel monologo di Scurati, in cui l’accusava di sminuire il significato storico della resistenza.

Gli sforzi di Meloni di stabilire un’influenza culturale non derivano solo dall’ideologia, ma anche dalla necessità. Come presidente del consiglio Meloni è nella difficile posizione di dover portare avanti politiche di buoni rapporti con l’Europa che contrastano con le idee dei suoi elettori. In politica estera l’Italia ha dovuto schierarsi con l’Ucraina, nonostante molti suoi elettori siano filorussi, mentre in economia il governo è stato costretto a tagliare la spesa sanitaria e quella per gli enti locali, una mossa impopolare tra la sua base. Questo ha messo Meloni in una posizione vulnerabile. Al contrario di Berlusconi, Meloni non possiede un impero mediatico che possa difendere la sua immagine a prescindere da tutto. In questa situazione, nominare dei fedelissimi nei posti chiave dell’informazione e della cultura è indispensabile.

Il fatto che Meloni abbia una visione chiara sulla necessità di stabilire un’egemonia culturale e che ci stia provando non significa che avrà successo. Alcuni critici, infatti, sostengono che l’influenza della destra sia ancora debole. “Meloni e Fratelli d’Italia sembrano più interessati a occupare posizioni di potere che a creare una vera egemonia culturale”, dice Mario Ricciardi, editorialista del Manifesto.

Le politiche Meloni sono spesso descritte come di destra in Italia e moderate all’estero. Il governo ha introdotto una legge che favorisce la repressione delle proteste e degli scioperi, ma ha rapporti amichevoli con gli Stati Uniti e l’Unione europea. Dal punto di vista ideologico è difficile inquadrarla: nonostante abbia espresso un certo fascino per idee nostalgiche e identitarie, come la divisione dei ruoli di genere e le radici cristiane della cultura europea, difficilmente può essere descritta come una sorta di Vladimir Putin o Viktor Orbán.

Ricciardi sostiene che Meloni, per il momento, non è riuscita a costruire una visione del mondo coerente: “Ha un’idea chiara di chi siano i nemici, cioè la sinistra e i cosiddetti radical chic; è attaccata all’idea di patria ma a parte questo mi sembra tutto molto vago per fare presa sui cittadini”. Per spingere un’ideologia, dice Ricciardi, bisogna prima costruirla: “Alla fine, per avere un consenso, bisogna mettere radici”. ◆ as

Giorgio Ghiglione è un giornalista freelance. Vive a Milano e scrive per vari giornali tra cui The Guardian e Al Jazeera.

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Questo articolo è uscito sul numero 1597 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati