Dopo aver finito di rivedere l’edizione 2020 dell’antologia The best American travel writing – circa cinque settimane dopo l’inizio del lockdown deciso dallo stato in cui vivo – ho avuto molto tempo per pensare al futuro della letteratura di viaggio. Durante le prime settimane di confinamento, sono stato invitato a partecipare a un podcast con altri scrittori di viaggi sul tema: “Il coronavirus e il futuro della letteratura di viaggio”. In quel momento vedevo tutto nero e immaginavo già che le riviste avrebbero sospeso le pubblicazioni, quindi ho confrontato la situazione attuale con i cambiamenti “irrevocabili” che c’erano stati dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, e alla fine ho dichiarato che questo evento avrebbe determinato “l’estinzione” di un certo tipo di letteratura di viaggio. A essere sinceri, non avevo idea di quello che sarebbe successo, e ancora non ce l’ho.
Durante le giornate in isolamento ho pensato molto a cose stranamente divergenti (e convergenti) tra loro: l’Islanda, un classico della letteratura di viaggio come _La via per l’Oxiana _di Robert Byron e lo stagno davanti a casa mia nel New Jersey dove, secondo una leggenda locale, forse vive un alligatore.
In un articolo che fa parte dell’antologia, Kyle Chayka riflette sull’eccessivo aumento del turismo in Islanda e si dichiara a favore dei viaggi “inautentici”, sostenendo che quando “una destinazione è considerata morta, quello è il momento migliore per andarci, perché è il riflesso più preciso del nostro mondo impuro”. Scrive Chayka: “Meno l’esperienza in Islanda era autentica, più mi divertivo e più ero consapevole delle conseguenze del modo di viaggiare nel ventunesimo secolo”.
Pur essendo una riflessione divertente e profonda su come si viaggia oggi, il racconto di Chayka mi ha fatto rimpiangere la mia Islanda della fine degli anni novanta e dei primi anni duemila, quando passavo lì molto tempo, vivendo per alcuni periodi a Reykjavík e visitando l’isola in lungo e in largo. Sarebbe fuorviante e insincero chiamare quell’epoca precedente a Instagram “autentica”, anche se quando arrivai lì per la prima volta molti islandesi credevano ancora nell’esistenza degli elfi, non c’erano ristoranti di lusso e capitava di incontrare Björk che mangiava un hot dog in un chioschetto. Ero tanto affascinato dal muschio islandese che come uno sciocco ne portai qualche campione negli Stati Uniti (prima che fosse vietato) per cercare di coltivarlo nel mio giardino. A quei tempi, quando viaggiavi nelle campagne islandesi non era necessario prenotare un albergo in anticipo. Airbnb non esisteva. Nelle minuscole cittadine in fondo ai fiordi azzurro ghiaccio aleggiava un forte odore di pesce e, oltre al porto, c’erano solo una piscina geotermale pubblica, qualche negozio, una stazione di servizio della Esso che faceva anche da panetteria, bar e chiosco per gli hot dog, e un ristorante della catena Pizza 67 specializzato in pizza “hawaiana” con ananas e prosciutto cotto.
Una volta nel villaggio settentrionale di Siglufjördur visitai il Museo delle aringhe, dedicato al boom dell’industria delle aringhe all’inizio del ventesimo secolo, e passai un pomeriggio a chiacchierare con una delle guide del museo, una ragazza bionda con la camicia di flanella e grossi stivali di gomma, la divisa che le cosiddette ragazze delle aringhe indossavano durante il boom. Dopo il suo turno andammo a fare una passeggiata. Ci arrampicammo fino a una cascata, cogliemmo fiori viola e poi facemmo una nuotata in una sorgente calda. Quando le chiesi se credeva agli elfi scoppiò in una risata isterica. Mentre si toglieva la divisa da lavoro per scivolare nell’acqua fumante, mi mostrò il suo tatuaggio di Tupac Shakur e si lamentò di essere intrappolata in quella cittadina lontana da tutto. Avrebbe voluto trasferirsi nella capitale, tingersi i capelli di nero e trovare lavoro in una boutique di moda o in un cocktail bar. Andare a caccia di autenticità quando si viaggia è sempre stata una questione scivolosa, un nodo gordiano, una matrioska, una cipolla.
Rivoluzioni
Ho pensato molto agli strani libri di viaggi che gli scrittori inglesi produssero tra le due guerre mondiali. In un periodo di grandi sconvolgimenti, costituirono una vera rivoluzione rispetto a quelli che erano stati i paradigmi di questo genere letterario. La grande scrittura di viaggio di quell’epoca, come Mare e Sardegna di D.H. Lawrence, Viaggio senza mappe di Graham Green e Viaggio in Jugoslavia di Rebecca West, cominciava a esplorare nuove forme. Gli itinerari – l’Italia, l’Africa o i Balcani – erano simili a quelli delle generazioni precedenti, ma gli autori usavano le tecniche moderniste prese in prestito dalla narrativa e dalla poesia: la frammentazione, il collage, la giustapposizione, il dialogo. Era un periodo in cui, come ha scritto il critico Paul Fussell, “scrivere un diario di viaggio non era considerato affatto incompatibile con una carriera letteraria seria”.
Uno dei libri più strani di quell’epoca è La via per l’Oxiana di Robert Byron. Apparentemente è un diario di viaggio che segue il percorso dell’architettura islamica attraverso il Medio Oriente, l’Iran e l’Afghanistan, ma ben presto cambia rotta e diventa una miscela di pagine di diario, piccoli saggi, lunghe tirate sulla politica e la storia dell’arte, venti dialoghi comici, ritagli di giornale e appunti frammentari. In certi punti, il libro appare quasi slegato, e sembra che stia per scivolare nel romanzo. Non c’è da meravigliarsi se è stato considerato un testo sacro da scrittori come Chatwin quando, negli anni ottanta, la forma della letteratura di viaggio sarebbe stata di nuovo rivoluzionata.
Nei mesi che sono passati dalla mia pessimistica partecipazione al podcast, ho cambiato idea sul futuro di questo genere letterario. Naturalmente sopravvivrà, anche se i modelli di pubblicazione cambieranno. Gli scrittori di viaggio troveranno nuove forme, sperimenteranno, prenderanno in prestito da altri generi. Molti dicono che al centro della scena ci saranno viaggi più modesti a livello locale, piuttosto che le grandi avventure esotiche del passato.
Quando penso ai viaggi a livello locale, mi viene in mente Hopkins pond, un piccolo stagno nel parco alberato vicino a casa mia, a Haddonfield, nel New Jersey, dove vado a passeggiare. Non lontano dallo stagno c’è il luogo in cui, nel 1858, fu scoperto il primo scheletro completo di un dinosauro. Una targa lo definisce un luogo storico di importanza nazionale. Quando trovarono lo scheletro, i mezzi d’informazione vittoriani dell’epoca impazzirono per la scoperta, e a Haddonfield arrivarono giornalisti da tutto il mondo.
Un secolo e mezzo dopo ci fu un’altra scoperta, accompagnata da un po’ di panico, quando i miei vicini e un poliziotto videro quello che pensavano fosse un alligatore nuotare nelle acque del laghetto. Accolsi con molto entusiasmo l’idea che un grande rettile vivesse nel laghetto del mio quartiere. Speravo che un po’ di paura e di mistero animassero una cittadina normalmente tranquilla. Si diceva che l’alligatore fosse lungo circa un metro e venti, e che il sergente di polizia lo aveva visto mangiare un’oca. Per qualche giorno i nostri boschi furono recintati da nastri gialli, e gli elicotteri dei telegiornali sorvolavano lo stagno. Un giornale riportò la dichiarazione di un esperto dello zoo di Filadelfia: “Non andrà in giro per i quartieri, ma io non porterei il mio barboncino a spasso intorno allo stagno”. Avevo sperato che l’alligatore di Hopkins pond si stabilisse definitivamente lì, e che crescesse fino a diventare un vero mostro. Dopotutto, più o meno in quel periodo, nel lago Machado di Los Angeles era stato avvistato un altro sfuggente alligatore soprannominato Reggie. Quando finalmente erano riusciti a catturarlo, era diventato lungo più di due metri e mezzo. Ma Hopkins pond non era Los Angeles. Dopo quei primi avvistamenti, se un rettile c’era stato era semplicemente scomparso. Nel giro di qualche anno, quasi tutti pensarono che la storia dell’alligatore nello stagno fosse stata solo un’invenzione e la polizia cominciò a definire gli avvistamenti “infondati”. Circa cinque anni dopo, ne sarebbe stato avvistato un altro a qualche chilometro di distanza, nel fiume Cooper. Ma neanche l’alligatore del fiume Cooper è mai stato catturato, e nessuno l’ha mai più visto.
Antiche vie
Era un po’ di tempo che non pensavo ai nostri rettili locali, ma durante il lockdown l’unico viaggio che potevo fare era la mia passeggiata quotidiana intorno allo stagno ammirando i primi fiori primaverili, le anatre e il nostro noioso muschio non islandese. Così mi è venuto in mente che avrei potuto scrivere un racconto di viaggio sullo stagno. Ma proprio quando mi ero deciso a farlo, il governatore del New Jersey ha chiuso i parchi. A quel punto, l’unico racconto di viaggio che potevo scrivere sull’Hopkins pond avrebbe dovuto esistere nello stesso spazio nostalgico dell’Islanda e dell’Oxiana.
Durante il breve periodo delle mie passeggiate nella natura vicino a casa, mi è venuto in mente Robert MacFarlane, che negli ultimi dieci anni ha reinventato la letteratura naturalistica (stretta parente di quella di viaggio) e le ha dato nuovo vigore: era la persona ideale per collaborare come guest editor all’antologia di quest’anno. Nel suo Le antiche vie, MacFarlane afferma che troppo spesso pensiamo all’effetto esercitato da un paesaggio su di noi quando ci siamo immersi. “Ma”, scrive, “esistono anche i paesaggi che portiamo con noi in absentia, i posti che continuano a vivere a lungo nella nostra memoria quando non siamo più lì, e questi luoghi – nei quali ci ritiriamo tanto più spesso quanto più ne siamo lontani – sono tra i paesaggi più importanti che abbiamo dentro”. Essere costretti a rimanere a casa isolati potrebbe essere l’esempio estremo dei cosiddetti viaggi “inautentici”. Ma ci offre un riflesso spaventosamente preciso del nostro mondo e delle conseguenze dei nostri viaggi. Ora che mi tiene compagnia la nostalgia dei luoghi dove sono stato prima della pandemia, forse quei paesaggi che mi porto dentro diventeranno l’unica autenticità che vale la pena di esplorare. ◆ bt
è il direttore di The best american travel writing, un’antologia annuale dei migliori articoli di viaggio usciti sulla stampa statunitense.
Jason Wilson è il direttore di The best american travel writing, un’antologia annuale dei migliori articoli di viaggio usciti sulla stampa statunitense.
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Questo articolo è uscito sul numero 1369 di Internazionale, a pagina 11. Compra questo numero | Abbonati