Il viso di papà era paffuto, morbido e liscio come un vetkoek ben fatto quando mi ha detto che il ragazzo si chiamava Solly e che sarebbe venuto a trovarci per il fine settimana. Ora sta lavando il nostro marciapiede con la pompa, papà intendo. Lo guardo dalla finestra della mia camera da letto. La manichetta si agita come un mamba nero e lui la insegue e la tiene ferma. Pulisce il marciapiede ogni fine settimana. La gente ci butta ogni genere di cose quando dormiamo di notte, così lui pulisce le loro malefatte. Una volta ho visto una scia di sangue proprio vicino all’erba; quando l’ho mostrata alla mamma, mi ha detto che era sangue di pollo. Noi non abbiamo polli.

Chiudo la tenda, mi giro e trovo Solly seduto sul letto che mi fissa. È caduto dal letto stamattina presto e sembra che la cosa lo abbia spaventato. Dorme nella mia stanza anche se ci sono camere libere. La mamma dice che è perché non è abituato a dormire da solo. Gli guardo la testa: ha sempre i capelli arruffati e non vuole pettinarli. Quando l’ho conosciuto, puzzava di sapone e sudore. La sua pelle è olivastra, a differenza della mia che è scura, e quando cammina, cammina con le ginocchia che battono l’una contro l’altra, e ha gambe lunghe e sottili. Non condivido il mio sapone da bagno, ma Solly lo usa lo stesso. La mamma gli ha anche dato le mie pantofole, quelle blu che mi piacciono tanto.

La mamma ci ha chiesto se volevamo andare nell’area giochi, ma siccome Solly non voleva, ha cambiato idea e ha detto che non dovevo andarci nemmeno io

Gli chiedo come ha fatto a cadere e lui parla lentamente, le parole sembrano lottare nella sua bocca, ma ieri, quando la mamma ci ha portato a pranzo in un ristorante in città, ha mangiato il pollo con foga, come se il cibo stesse per scappare. Ero molto in imbarazzo; ha perfino leccato il piatto. Ho guardato la mamma disgustato. Lei ha scosso la testa, come se fossi stato io a leccare il piatto, e poi ha fatto una faccia seccata, aggrottando le sopracciglia. Quando Solly ha finito di mangiare e di trangugiare la sua bibita, ha cominciato a masticare anche la cannuccia. La mamma ci ha chiesto se volevamo andare nell’area giochi, ma siccome Solly non voleva, ha cambiato idea e ha detto che non dovevo andarci nemmeno io. “Ma siamo venuti qui perché così potevo giocare dopo aver mangiato, me l’avevi promesso!”. Ho incrociato le braccia.

“Non vedi che tuo cugino è stanco?”.

Ho urlato, tirando un calcio alla gamba sotto il tavolo: “Allora non dovrebbe giocare lui, non io!”.

“Moshole, piantala subito”, ha sibilato lei, richiudendo il sacchetto con i miei avanzi. “Vuoi che quei bambini bianchi pensino che sei un attaccabrighe?”, disse, indicandoli con lo sguardo. Scrutai dietro le spalle il grande tavolo d’angolo, dove i bambini stavano cantando senza entusiasmo “tanti auguri a te, tanti auguri a te” a un ragazzo dai capelli rossi inginocchiato sul sedile di fronte a loro. Aveva il volto ricoperto di brillantini e batteva timidamente le mani. Un uomo in pantaloni corti color kaki, sicuramente il padre del festeggiato, era in piedi poco lontano dal tavolo e scattava fotografie. Sorrideva a denti stretti e salutava i bambini. Sembrava che avesse le lacrime agli occhi. Quanto vorrei che papà mi amasse abbastanza da piangere davanti ai miei amici. Anche i miei occhi erano pieni di lacrime.

“Non fare lo stupido e comportati come un adulto. Asciugati quelle lacrime!”, ha detto la mamma. Mi sono pulito il viso con la maglietta.

Solly ha dato un colpetto sul braccio alla mamma, chiedendo di andare in bagno. “Vai con lui”, mi ha ordinato lei.

“Ma io non voglio andare al gabinetto”, ho arricciato il labbro. Lei mi ha squadrato di nuovo, lo stesso sguardo che mi aveva rivolto una settimana fa quando aveva trovato un piatto di cibo sotto il mio letto.

Nxa!”, ha imprecato.

Mi sono diretto verso la porta con il cartello toilette, con Solly al seguito.

La casa di Solly è lontana dalla mia. Mentre andavamo a prenderlo, siamo passati davanti ad alberi e alberi e ancora alberi: alberi di banane, litchi, arance, manghi, alberi di limoni, alberi e alberi e alberi. Abbiamo guidato a lungo su strade sterrate che hanno lasciato rossa di polvere la macchina bianca di papà. Quando ho aperto il finestrino, il vento polveroso mi ha morso le orecchie. Quando finalmente siamo arrivati, abbiamo trovato Solly che giocava con i suoi amici fuori dalla casa, un rondavel con un tetto appuntito che toccava quasi il cielo. Il cortile era verde scuro con un pavimento di sterco di mucca decorato con quadrati, cerchi e zigzag. Era bello. La casa sembrava troppo piccola rispetto a tutto quel cortile. Quando Solly ha visto papà, è corso ad abbracciargli le gambe. Non avevo mai incontrato il ragazzo prima di allora, ma sembrava che lui avesse incontrato papà molte volte e che fosse felicissimo della sua presenza. Ero geloso, mentre li fissavo con un grosso nodo in gola.

A differenza della casa di Solly, casa mia è grande. La mia è la seconda casa più grande di Lenyenye, dopo quella del nostro assessore. Lui ha cinque macchine, mentre papà ne ha due e mamma una. La mia casa inghiotte il nostro cortile e sovrasta gli alberi di banane, ergendosi alta accanto alla recinzione di mattoni che ci divide dai nostri vicini, i Makwela, che non ci parlano anche se do da mangiare al loro cane macilento. La mamma mi ha detto che il signor Makwela una volta era un poliziotto, ma ha perso il lavoro perché voleva sparare a papà con la sua pistola quando papà ha voluto i soldi che gli doveva. Il signor Makwela nega tutto e dice che è stato papà che voleva sparargli. Oggi, quando la signora Makwela passa davanti a casa nostra, si gira dall’altra parte e quando fa caldo, come capita spesso, inclina l’ombrello per non doverci salutare.

La mamma la odia tantissimo, glielo leggo in faccia quando parla di lei. L’altro giorno ha detto a una sua amica al telefono che prima che la signora Makwela diventasse una strega era una buona vicina. Parlavano per ore al di là della recinzione, si scambiavano cibo, frequentavano la stessa chiesa e partecipavano insieme alle riunioni della comunità, ma ora la mamma dice che la signora Makwela si è trasformata in “un’infida serpe” e che una volta di notte l’ha vista volare su un manico di scopa attraverso la finestra della sua camera da letto.

“Hai fatto un brutto sogno? È per questo che sei caduto?”, chiedo a Solly. Scuote la testa.

“Ti ho spinto?”. La scuote di nuovo. “Allora come hai fatto a cadere?”.

“Il letto è troppo alto”.

La mamma grida dalla cucina: “Moshole, Solly, venite a mangiare che poi partiamo!”.

“Stiamo arrivando”.

Solly aggiunge a quello che stava dicendo: “A casa dormiamo sul pavimento”.

“Tu e chi?”.

“Io e mia zia, quando mio fratello non è a casa”.

“Dov’è tuo fratello ora?”.

“Lavora in una piantagione di arance a Tzaneen”.

“Siamo cugini, tipo veri cugini?”.

Lui strizza gli occhi e risponde: “Sì, non te l’ha detto lo zio? Tuo padre era cugino di mia madre”. Rifletto su ciò che ha detto. “E ha detto che posso venire a trovarlo quando voglio”.

“Dov’è tuo padre?”.

Fa un segno netto sul collo con il dito, girando il viso dall’altra parte.

“È morto?”, gli chiedo.

Tua madre?

Fa di nuovo il segno.

“Morta?”.

“Moshole!”, la mamma chiama di nuovo.

“Arrivo!”.

Solly mi segue in sala da pranzo. È triste che non abbia il padre e la madre, forse è per questo che non riesce a dormire. Ci sediamo a tavola uno accanto all’altro. Papà entra, con la camicia bagnata sul pancione. Quando la gente lo prende in giro, dice che ha quella pancia perché beve troppa birra.

“Vuoi un succo di frutta?”, domanda la mamma a Solly, che scuote la testa.

Esco dalla stanza continuando a origliare, appoggiandomi al muro per non cadere. Li sento, dicono qualcosa a proposito di coprire la testa di qualcosa con un sacco. Qualcosa sul trascinare quel qualcosa in strada dietro al furgone di papà

“Ti preparo del tè”.

Solly sorride senza mostrare i denti. Papà si siede sulla sedia a capotavola e si schiarisce la gola.

C’è uno scambio di sguardi tra lui e la mamma.

“Voglio i cereali”, dico.

“Lo so”, risponde la mamma, senza guardarmi.

“Dove stiamo andando?”.

“Stiamo andando a prendere altri vestiti per Solly a casa sua, vivrà con noi ancora per un po’”, dice lei, sempre senza guardarmi.

Papà prende il suo bicchiere di succo di mela e ne beve un sorso. Non parla molto, soprattutto a tavola. Quando la mamma gli ha detto del cibo sotto il mio letto, mi ha dato sette frustate sulla schiena, senza dire nulla. Quando mi picchia, ogni volta che faccio qualcosa di stupido, penso che hanno ragione i bambini che lo chiamano mostro. Assassino. Fanno bene a non voler essere miei amici. Che non dovrei giocare con nessuno. Che quando giocano a palla in strada, dovrei guardarli dalla finestra e piangere. Ma poi, quando le frustate e i pianti sono finiti e papà la mattina dopo mi dà cinquanta rand per la scuola, vorrei che sapessero chi è veramente. Vorrei che i bambini smettessero di lanciare oggetti sul nostro marciapiede dicendo che lui ha minacciato i loro genitori. Una volta ho chiesto a mamma perché papà fosse andato a casa della vecchia in fondo alla strada, avesse sfondato la porta d’ingresso e si fosse preso la televisione, il divano, il materasso, la salsa di pomodoro nel frigorifero, perfino il bastone da passeggio, e mamma ha risposto: “Gli restituiranno mai quello che gli devono? Cosa mangerai o indosserai se non gli restituiranno i soldi? Quando vengono qui a chiedere un prestito con le lacrime agli occhi, come se lui fosse l’unico strozzino di questa township, lo chiamano forse assassino? Lo fanno? Moshole, la gente è ipocrita!”.

Le cose della vecchia signora sono state restituite la sera stessa, dopo che lei ha finalmente pagato quanto dovuto. La mamma domanda a Solly: “Hai mangiato abbastanza, vuoi altro pane?”. Sul volto di mamma c’è qualcosa che cerca di nascondere, ma non riesco a capire cosa.

“No, ghe’ dya di slice dje tre fela”, risponde Solly con il suo forte accento khelobedu. Devo riascoltare il suono della sua voce nella testa per capire cosa vuole dire: mangia solo tre fette.

“Mangia, ora dobbiamo andare”, dice la mamma a nessuno in particolare. Porto la ciotola dei cereali alla bocca, bevo il latte rimasto e rutto. Rido, sperando che la mamma mi sgridi, ma non lo fa. Comunque, anche Solly ride, è la prima volta che sento la sua risata. Non ride con la bocca aperta, ma ridacchia con le guance, si vede che le viscere lo solleticano.

“Vai ad aprire il cancello, Moshole”.

La mamma domanda a Solly: “Hai mangiato abbastanza, vuoi altro pane?”. Sul volto di mamma c’è qualcosa che cerca di nascondere, ma non riesco a capire cosa

Corro fuori e faccio scivolare il cancello a rotelle. C’è un uomo in piedi sul marciapiede, lo sguardo perso, un giornale sotto il braccio destro. Mi squadra da capo a piedi. “Mamma!”, la chiamo, fissando lo sconosciuto.

“Moshole, come sei cresciuto”, dice. Mia madre non risponde.

“Posso aiutarla?”.

“Sono qui per i tuoi genitori e verrò con voi a GaModjadji”.

Detesto questa cosa. Non sopporto che le persone chiedano passaggi. Mi mettono a disagio, ci rubano la privacy in macchina e a volte anche i soldi se non facciamo attenzione.

Ricordo la signora di bell’aspetto a cui mamma ha dato un passaggio un anno fa, che non solo parlava troppo, ma rubava anche troppo, tutti i soldi dal portafoglio di mamma, le carte di credito, il computer e le noccioline che teneva sempre accanto al sedile.

L’uomo mi segue in casa. Nella sala da pranzo non c’è più nessuno. “Mamma, c’è un signore per te!”.

Lei non risponde, ma scende le scale. Noto che i suoi occhi sono un po’ arrossati, non del suo colore abituale, i suoi sono marroni e bianchi con piccole macchie come se qualcuno avesse preso un pastello appuntito e li avesse punzecchiati. Si accorge del mio sguardo e mi ordina di andare in camera da letto, ma io quasi non mi muovo. Mia madre e l’uomo cominciano a bisbigliare, poi si tengono le mani come in preghiera. Il giornale che l’uomo tiene in mano cade a terra. Leggo il titolo della prima pagina: “Agricoltore bianco del posto spara a lavoratore nero”.

Stefano Ricci

Apro la porta di camera mia e trovo Solly e papà seduti sul mio letto. La testolina di Solly è sulle ginocchia di papà, la sua schiena si agita e trema. Papà mi guarda e dice: “È morto suo fratello”.

Sono le prime parole che mi ha detto oggi.

Dicono che sia stato un omicidio, ma il contadino sostiene che è stato un incidente. Dicono che l’uomo bianco aveva una pistola, ma l’uomo bianco sostiene che il fratello di Solly aveva la pistola. Al funerale, la gente guarda Solly con occhi pieni di pietà, li vedo bisbigliare tra loro. Si dice che il fratello di Solly sia stato ucciso perché andava a letto con la moglie del suo capo bianco. Altri dicono che gli hanno sparato perché stava difendendo la moglie dall’uomo bianco che la maltrattava. Altri ancora, che sento al cimitero e che a stento aprono le labbra, suggeriscono che l’uomo bianco stava difendendo sua moglie da Solly, che stava tentando di violentarla. È un disastro. Nessuno conosce la vera verità, soprattutto dal momento che la donna non ha detto nulla.

Quando Solly ha visto papà, è corso ad abbracciargli le gambe. Non avevo mai incontrato il ragazzo prima di allora, ma sembrava che lui avesse incontrato papà molte volte e che fosse felicissimo della sua presenza

La sera dopo il funerale, mia madre, mio padre, Solly e io guardiamo il telegiornale alla televisione, c’è una protesta fuori dalla casa del contadino. Ci sono tante grida e rabbia. L’uomo bianco è stato rilasciato su cauzione. La donna che parla alla telecamera si avvicina a uno dei manifestanti, un uomo con i capelli spettinati come quelli di Solly, che dice spesso la parola “razzismo”. Non so cosa significhi, ma ha un suono terribile perché l’uomo è arrabbiato quando la pronuncia: razzismo, razzismo, razzismo, razzismo. Le persone dietro di lui cominciano a cantare e l’uomo si unisce a loro. Mentre cantano, alcuni riescono a penetrare nella fattoria e li guardiamo mentre si arrampicano sugli alberi e raccolgono le arance, le infilano nelle magliette e scappano via. Altri marciano in strada con cartelli e bloccano il passaggio delle auto. Tutti e quattro guardiamo, in silenzio, senza dire nulla.

Il giorno dopo, degli uomini sconosciuti vengono a casa nostra in gruppo per vedere mio padre. Quando arrivano, papà mi lancia uno sguardo affilato che significa: vai via. Questi uomini non sono come quelli che di solito vengono a farsi prestare denaro, madri con bambini sulle spalle, vecchi con le gambe sporche, giovani che hanno bisogno di soldi per la birra e di soldi per viziare le fidanzate. Questi hanno l’aria di chi fa cose brutte, soprattutto quello che ha una cicatrice sul sopracciglio sinistro e un cerino all’angolo della bocca. È di colore molto chiaro, come Solly, e i suoi occhi mi dicono che ha visto cose che lo tengono sveglio la notte.

Esco dalla stanza continuando a origliare, appoggiandomi al muro per non cadere. Li sento, dicono qualcosa a proposito di coprire la testa di qualcosa con un sacco. Qualcosa sul trascinare quel qualcosa in strada dietro al furgone di papà. Qualcosa sul fatto di lasciare quel qualcosa alla discarica di Slurban. Qualcuno mi dà un colpetto sulla spalla, facendomi trasalire. Quasi lo colpisco in faccia. “Solly, mi hai spaventato”.

“C’è una ragazza fuori che ti cerca”.

“Chi?”.

“È la tua ragazza?”.

“Chi?”.

“La ragazza”.

“Che aspetto ha?”.

“‘Occhi grandi… bella. Color cioccolato”.

“Si chiama Ntsiki e no, non è la mia ragazza”.

“Mmm…”.

“Non lo è”.

“Ok, ti sta aspettando”.

Mi segue fuori e trovo Ntsiki seduta sul portico. Sorride timida quando mi vede, poi distoglie lo sguardo quando si accorge che Solly ci sta osservando. Ora si vergognerà troppo a chiedere qualcosa da mangiare. Ha sempre fame, la sua famiglia è povera. E, come Solly, non ha genitori. Metto le mani in tasca e faccio una smorfia, come se il mio stomaco stesse brontolando. “Vado a farmi un panino”. Solly mi guarda confuso, abbiamo appena mangiato.

“Lo vuoi anche tu, Ntsiki?”. Lei annuisce lentamente.

Solly guarda i capelli della ragazza, poi le sue labbra secche e mi dice: “Vengo anch’io. Ho fame anch’io”.

Giochiamo a un videogioco nella mia stanza. Ntsiki non chiama Solly per nome, come se avesse paura di sbagliare. Si vede che non è a suo agio con lui, di solito a questo punto sarebbe seduta sul mio letto a mangiare e a sfogliare i miei vecchi album di foto.

Quella sera Solly cade di nuovo, con un doloroso tonfo sul pavimento. Mi sporgo nel buio e lui non si muove, i suoi occhietti che scrutano mentre il sonno lo sommerge. Gli lancio il cuscino e la coperta e torno a dormire.

Il giorno dopo Ntsiki torna a casa mia presto, chiama Solly per nome e non ha paura di mostrargli le sue fossette. Giochiamo a kgati per strada, io e Solly teniamo la corda e Ntsiki salta come una professionista. Non facciamo i turni perché lei è l’unica tra noi brava in questo gioco. Non ci fermiamo nemmeno quando il mio polso comincia a stancarsi, perché Solly e io ci godiamo le sue risate mentre salta in aria, gira, volta la testa, ruota i fianchi, le trecce si alzano e si abbassano. Anche noi cominciamo a ridacchiare. Gli altri bambini della mia strada cominciano a uscire dalle loro case a causa delle nostre risate. Ci sfidiamo tutti a correre giù dalla collina fino alla strada. Mi chiedono chi sia quello così veloce. Dico che è mio cugino. Non dico cosa è successo alla sua famiglia. Non racconto dei suoi incubi. Non gli dico nemmeno che è stato mio padre a vendicare l’omicidio di suo fratello. Per una volta, solo per oggi, non voglio essere il figlio dell’assassino. ◆

Keletso Mopai è una scrittrice e geologa nata a Tzaneen nel 1992. La sua raccolta di racconti If you keep digging è stata scelta come uno dei migliori debutti del 2019 dal sito di letteratura africana Brittle Paper. Questo racconto è uscito sulla Johannesburg Review of Books con il titolo The boy and other disasters. La traduzione è di Sarah Victoria Barberis.

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Questo articolo è uscito sul numero 1492 di Internazionale, a pagina 60. Compra questo numero | Abbonati