Ci incanta da sempre – è storia antica – trovare qualcosa di umano in ciò che umano non è. È la ricerca degli alieni, il filo rosso della fantascienza o della nostra descrizione di dio, ed è anche il modo con cui oggi proviamo a spiegare l’intelligenza delle piante o degli animali. È celebre la storia del cavallo Hans, che secondo alcuni sapeva contare: messo davanti al “suo padrone”, che gli chiedeva di sviluppare una radice quadrata o un’addizione, Hans batteva gli zoccoli fino ad arrivare alla quantità che corrispondeva alla risposta. Una scoperta incredibile! A un certo punto però qualche esperto osservatore si accorse che Hans non rispondeva alle domande, ma smetteva di battere le zampe quando percepiva che il padrone sperava lo facesse. Come non detto, ecco un altro stupido cavallo! La domanda sorge spontanea: non è stato più rilevante scoprire che Hans leggeva le emozioni di un suo amico umano tanto da cercare di non tradirne le aspettative? Al punto da accontentarlo in compiti per lui incomprensibili, come in fondo facciamo noi nell’amore puro verso i nostri figli? Spesso guardiamo l’altrove così: ci stupiamo solo se troviamo animali o alieni parlanti o pensanti come noi. Se scopriamo qualcosa di loro invece ce ne disinteressiamo. Strano modo di procedere: come se provassimo a capire il talento di un calciatore obbligandolo a giocare a tennis o a biliardino. Eppure sarebbe semplice stupirsi della diversità, basterebbe smetterla di osservare il mondo sperando di trovarci specchi ovunque. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1491 di Internazionale, a pagina 104. Compra questo numero | Abbonati