Il 10 gennaio a Caracas presterà giuramento il presidente Nicolás Maduro, salvo sorprese clamorose e nonostante il leader dell’opposizione Edmundo González Urrutia abbia dichiarato che tornerà in Venezuela per prendere in mano le redini del paese. Il 20 gennaio toccherà a Donald Trump insediarsi alla Casa Bianca. Durante il suo primo mandato il leader repubblicano aveva adottato una politica di pressione estrema verso il governo di Maduro, riconoscendo come presidente legittimo l’oppositore Juan Guaidó. Quella decisione, adottata anche dall’Unione europea, dal Canada e da altri paesi, non aveva impedito a Maduro di continuare a governare. Invece l’inasprimento delle sanzioni statunitensi ha impoverito ancora di più il Venezuela, incrementando il flusso migratorio verso gli Stati Uniti e altri paesi. Dal 2013 circa otto milioni di abitanti hanno lasciato il paese a causa della crisi economica. Tra loro, circa 700mila hanno raggiunto gli Stati Uniti.

Durante il mandato di Joe Biden Wash­ington ha scelto una linea più morbida. Ha cancellato alcune sanzioni e ha permesso alle aziende statunitensi come la Chevron di commercializzare il petrolio venezuelano, ottenendo in cambio un impegno da parte di Maduro all’organizzazione di elezioni libere.

Gli Stati Uniti speravano di arginare il flusso migratorio, ma Maduro non ha rispettato i patti e alle elezioni presidenziali dello scorso luglio si è dichiarato vincitore anche se i dati forniti dall’opposizione dimostrano che González ha ottenuto molti più voti. L’amministrazione Biden l’ha riconosciuto come “presidente eletto” e all’inizio di dicembre ha imposto un nuovo pacchetto di sanzioni contro 21 esponenti del governo di Caracas. Oggi sono 180 i funzionari vicini a Maduro sanzionati dagli Stati Uniti. Un primo indizio sugli sviluppi nei rapporti tra Washington e Caracas arriva dalla scelta di Trump di nominare il senatore della Florida Marco Rubio come segretario di stato, un “falco” favorevole alla linea dura verso Cuba, Venezuela e Nicaragua. Lo stesso vale per il futuro consigliere per la sicurezza nazionale Michael Waltz.

“Queste nomine sembrano indicare un ritorno alla politica di Trump del 2019, cioè di massima pressione senza concessioni a Maduro”, spiega al telefono Phil Gunson dell’International crisis group, un’ong che si occupa di risoluzione dei conflitti.

Più pragmatismo

L’approccio, però, si è già rivelato fallimentare una volta. “Alla fine del suo primo mandato Trump aveva perso interesse per il Venezuela”, ricorda Gunson, sottolineando che alla fine il leader repubblicano ha applicato una politica abbastanza simile a quella dell’amministrazione Biden. “È possibile che Trump non sia più interessato al Venezuela e voglia lasciare il paese e il resto dell’America Latina in mano ai conservatori, con la probabile eccezione del Messico. Di certo all’inizio ci sarà molto chiasso su Maduro e il suo governo autoritario”, aggiunge Gunson, ma con il tempo il clamore si trasformerà in “un atteggiamento più pragmatico.

Trump, che si considera abile nelle trattative, potrebbe accordarsi per comprare petrolio dal Venzuela in cambio di una riduzione dell’emigrazione”.

L’accordo favorirebbe entrambi i governi: gli Stati Uniti hanno bisogno di greggio a buon mercato e sarebbero contenti di sottrarlo agli avversari geopolitici, soprattutto la Cina; a Caracas servono gli introiti della vendita. Se il governo venezuelano accetterà i voli di rimpatrio degli immigrati, potrebbe favorire l’amministrazione Trump in una delle sue priorità. Secondo Gunson sul lungo periodo “il cambiamento di regime non è un’opzione realistica. Serve un accordo negoziato tra le forze politiche. In questo momento è difficile, perché Maduro ha chiuso ogni canale di comunicazione con l’opposizione, ma in futuro il dialogo è inevitabile. Il Venezuela vive da dieci anni in emergenza umanitaria. Non ha senso continuare ad aggiungere sanzioni peggiorando la vita dei cittadini”. L’opposizione venezuelana ha accolto con entusiasmo la nomina di Rubio, che considera un alleato. González Urrutia ha vinto le elezioni con un ampio margine di voti e questo gli dà una legittimità che nessuno ha mai avuto dopo la prima vittoria di Hugo Chávez nel 1999.

L’opposizione afferma che il 10 gennaio González s’insedierà alla presidenza, ma non c’è nessun meccanismo che possa permetterlo. Secondo l’analista politico Luis Vicente León sarà “un giorno che farà discutere”, anche se Maduro non corre “un pericolo reale” di non essere riconfermato. Riguardo ai rapporti con gli Stati Uniti, molto dipenderà dall’impostazione che il successore di Chávez darà al suo nuovo governo: “Potremo avere un leader radicalizzato e pronto a tutto per conservare il potere, anche a polverizzare il suo avversario (con il Nicaragua o l’Iran come possibili modelli), oppure un presidente che seguirà una strategia più moderata, sperando che Washington non revochi le licenze petrolifere e lasci aperto uno spiraglio per una trattativa futura”, aggiunge.

Cambiamento interno

Secondo Víctor Álvarez, esperto di economia e politica ed ex ministro dell’industria nel governo di Chávez, è del tutto improbabile che il 10 gennaio González Urrutia si presenti in Venezuela, come ha annunciato: “Possibile che i partiti dell’opposizione vogliano sfidare il sistema repressivo dello stato e chiamare la popolazione in piazza per impedire l’insediamento di Maduro?”, si chiede. E si risponde subito da solo: “Non facciamoci illusioni, una leadership di opposizione senza capacità di mobilitazione non ha modo di soffiare sul malcontento per esercitare una pressione interna”.

Álvarez accetta di affrontare anche un tema scomodo, quello di un ipotetico intervento militare straniero. “Molti sognano un’azione chirurgica di Erik Prince, il fondatore della compagnia di mercenari Blackwater. Ma la verità è che il cambiamento politico in Venezuela non può arrivare da fuori, deve partire dall’interno. Invocare un intervento straniero, magari ricorrendo ai mercenari, significherebbe andare incontro a una violenza che farebbe sprofondare il paese nell’ingovernabilità e nell’anarchia. Si aggraverebbe anche la crisi migratoria e nessuno lo vuole, né i paesi latinoamericani vicini né gli Stati Uniti”.◆as

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Questo articolo è uscito sul numero 1594 di Internazionale, a pagina 24. Compra questo numero | Abbonati