Prima di essere cartone era carta marrone grezza; prima di essere carta era un fiume di polpa rovente; prima di essere un fiume era un albero. Probabilmente un pinus taeda, o pino loblolly, un’affusolata conifera originaria del sudest degli Stati Uniti. “La cosa meravigliosa del loblolly”, mi ha detto il guardaboschi Alex Singleton, scrutando tra le fronde di una piantagione in Georgia, “è che cresce velocemente e attecchisce praticamente ovunque, anche nelle paludi”. Da cui il nome loblolly, che significa pozza di fango. “Vedi quelle querce laggiù?”, continua Singleton. “Hanno un legno duro, con fibre corte. Vanno bene per la carta, per le pagine di un libro. Ma non per l’imballaggio, perché per quello servono fibre lunghe. Il pino ce le ha, la quercia no”.

Singleton, 54 anni, testa rasata e barba grigia, da qualche anno è il responsabile dell’approvvigionamento di materiali a base di fibra per l’International Paper (Ip), un’azienda di Memphis che fa imballaggi (gli addetti ai lavori sorridono quando mi sentono parlare di “cartone”, lo considerano un termine inappropriato e un po’ rozzo). Tra le imprese che dominano il mercato nordamericano, l’International Paper è la più grande: fornisce un terzo delle scatole prodotte negli Stati Uniti. Il lavoro di Singleton consiste nel procurarle abbastanza pini loblolly per mandare avanti le linee di produzione.

“È sempre una corsa”, dice. “S’impara a diventare creativi”. I guardaboschi dell’International Paper passano buona parte del tempo ad attraversare il sudest in furgone, usando un’app per monitorare i tratti boschivi sfruttabili. Molte di queste zone sono curate da aziende arboricole legate all’International Paper. Altre si trovano su terreni di proprietà di amministrazioni locali o statali. “Poi ci sono le famiglie che fanno la raccolta una volta in tutta la loro vita”, spiega Singleton. “Magari per comprare la macchina o per mandare i figli all’università”. Il prezzo è stabilito in base al tonnellaggio totale, all’ubicazione e alla qualità del legname. Una squadra di boscaioli abbatte gli alberi, li carica su un camion e li porta alla cartiera.

Se gli alberi vengono dall’ovest della Georgia o dall’est dell’Alabama, la loro destinazione più probabile è l’impianto dell’International Paper a Rome, in Georgia, dove vive Singleton. Questa fabbrica è il punto d’arrivo della maggior parte degli alberi a legno morbido abbattuti nel raggio di 150 chilometri. Quando ho visitato la struttura, sul viale d’ingresso c’era una fila di camion sporchi di fango con i cassoni carichi di pini. “Ogni giorno entrano ottomila tonnellate di alberi, e siamo aperti 24 ore al giorno, sette giorni alla settimana”, dice Kevin Walls, il responsabile della produzione. “Non vai mai in vacanza, eh?”, suggerisce Singleton dal sedile del camion. “Insomma, posso anche andarci”, dice Walls. “Ma devo essere sempre reperibile”.

Costeggiamo il lato dell’impianto e raggiungiamo l’area di deposito, dove una gru preleva i tronchi e li scarica nella bocca dentata di una macchina cilindrica chiamata scortecciatrice a tamburo. Fa un frastuono assordante anche a quasi duecento metri di distanza. Questa macchina vibra, mastica e sputa gli alberi denudati dalla corteccia. Poi c’è un’altra macchina, una cippatrice metallica: entrano i tronchi senza più la corteccia ed esce una nuvola di pino loblolly. Vederla all’opera è davvero ipnotizzante. Potrei starmene seduto qui tutto il giorno.

Nella cartiera vera e propria l’aria ha un’umidità tropicale, c’è un odore di cartone strappato lasciato a marcire sotto la pioggia. In una serie di cisterne i trucioli prodotti dalla cippatrice entrano nel cosiddetto processo kraft (forza, in tedesco), grazie al quale dal legno sminuzzato si estrae una poltiglia viscosa usando un cocktail di sostanze chimiche. “Vogliamo le fibre di cellulosa”, grida Walls da una cuffia con microfono. “Quelle lunghe e forti”.

Più tardi le sostanze chimiche sono lavate via e riciclate, mentre il legno rimasto è usato come combustibile. La polpa, invece, è incanalata nella “macchina della carta”, una definizione stranamente prosaica per una cosa davvero imponente. Questo macchinario occupa quasi tutta la superficie della cartiera e trema come una navicella spaziale prima del decollo. A intervalli irregolari, folate di vapore incandescente escono dalle sue viscere. La polpa cola sulla “formatrice”, dove prende una consistenza simile alla carta.

Continuiamo a piedi lungo il fianco della macchina della carta e raggiungiamo la stazione per la calandratura, che serve a rimuovere l’acqua dal prodotto. Poi Walls indica delle grosse bobine su cui la carta gira in un apparecchio marrone indefinito. Questi pesantissimi rotoli sono scaricati sul pavimento e spostati per essere tagliati a misura e mandati nell’area di carico. Da lì sono trasportati in impianti separati per la corrugazione, il procedimento di piegatura e stratificazione da cui viene fuori il cartone.

Ogni giorno, mi dice orgoglioso Walls, il processo è ripetuto tante volte che la carta prodotta basterebbe a coprire un’autostrada a due corsie dalla cartiera fino a El Paso, in Texas: 2.172 chilometri. È un numero impressionante già così, ma per farvi un’idea delle dimensioni dell’industria del cartone, aggiungete la produzione delle altre 25 cartiere della International Paper tra la Georgia e lo stato di Washington. E poi sommate la produzione delle decine di cartiere della concorrenza. Arriverete a milioni di chilometri di carta, che bastano appena a soddisfare la domanda: nel 2021 i produttori di cartone hanno battuto tutti i record, e da quel momento ogni trimestre fa segnare un nuovo primato. Secondo una stima, nel 2025 le dimensioni del mercato internazionale raggiungeranno i 205 miliardi di dollari, pari al pil della Nuova Zelanda o della Grecia.

Completa sudditanza

La maggior parte delle persone ha un rapporto con il cartone che va dalla dipendenza riluttante alla completa sudditanza, spesso in base alla frequenza degli acquisti su Amazon. È difficile trovare dati precisi, ma secondo la Fibre box association, un’associazione di settore, nel 2020 le fabbriche statunitensi hanno prodotto 37 miliardi di metri quadrati di cartone, il 3,4 per cento in più dell’anno precedente. Il consumo di scatole di cartone si è impennato nei primi giorni della pandemia, quando tutto quello di cui avevamo bisogno arrivava a casa avvolto in imballaggi di carta marrone. Da allora la tendenza non si è mai invertita.

Poco dopo l’ondata della variante delta del virus, ma prima dell’arrivo di omicron, ho cominciato a contare il numero di imballaggi di cartone che entravano a casa mia ogni settimana. Per facilitare l’esperimento, ho escluso il container­board, il materiale non ondulato o leggermente ondulato usato per i succhi di frutta e il latte. Sono arrivato a una media di diciotto scatole alla settimana, tra cui quelle per le consegne di Amazon Prime e i cartoni di frutta e verdura recapitati dalla cooperativa agricola locale. Mi sembrava tantissimo, ma era comunque molto meno del cartone consumato da alcuni vicini: ogni lunedì trascino sul marciapiede due grossi secchi azzurri pieni di cartone; un tizio in fondo alla strada ne porta almeno quattro.

Da un lato, c’è qualcosa di vagamente surreale nel fatto che il cartone sia un settore in espansione: una scatola, in fondo, è un oggetto la cui unica funzione è quella di contenere altri beni di maggior valore. Dall’altro, è perfettamente sensato. “L’imballaggio ondulato è un classico esempio del principio di Goldilocks”, dice Tim Cooper, delle società di ricerche Smithers. “È facile da produrre, è robusto ed è sostenibile, perché a differenza della plastica viene da una fonte rinnovabile”. È anche più riciclabile rispetto ad altri metodi di spedizione: secondo l’Environmental protection agency, dei 69 milioni di tonnellate di rifiuti riciclati ogni anno negli Stati Uniti, più del 65 per cento sono a base di fibre. “Esito a usare per qualsiasi settore l’espressione ‘a prova di recessione’”, aggiunge Cooper, “ma l’imballaggio ondulato ci va molto vicino. Praticamente tutti – produttori e consumatori – ormai lo considerano vitale”. Il cartone è il collante che tiene insieme intere industrie ed economie regionali.

Storicamente il tasso di produzione del cartone è calato nei periodi di recessione o depressione, ma ha continuato a crescere in modo lento e inesorabile fino agli anni 2010, quando la curva si è impennata. “Il commercio online è stato come benzina sul fuoco”, osserva Cooper. “Quando ha preso piede, la produzione di cartone ondulato è schizzata alle stelle”. Volevamo sempre più cose, le volevamo subito e le volevamo senza uscire di casa. I rivenditori al dettaglio e l’industria dell’imballaggio sono stati felici di adeguarsi.

Nel 2021 Amazon ha consegnato 470 miliardi di oggetti in tutto il mondo, usando 7,7 miliardi di imballaggi. In realtà nessuno conosce davvero il numero totale di pacchi che Amazon spedisce ogni anno, e l’azienda non ha voluto darmi questa informazione. Ecco però quello che sappiamo: Amazon sta recapitando molti più pacchi rispetto al passato – e con una frequenza esponenzialmente più alta – a tutti i suoi clienti, in particolare a quelli statunitensi. Nel 2019 Amazon Logi­stics, il servizio di spedizione interno da cui dipende l’onnipresente esercito di furgoncini dell’azienda, ha portato 1,9 miliardi di pacchi solo negli Stati Uniti. L’anno successivo ne ha consegnati più del doppio, tanto che ora ha una quota di mercato superiore a quella della FedEx.

La Ecovative Design sta sperimentando degli imballaggi a base di funghi

Piantare e abbattere

Negli Stati Uniti le maggiori beneficiarie di questa nuova dipendenza dal cartone ondulato sono le big five, le cinque grandi aziende della carta che dominano il mercato nazionale. Di queste, la International Paper è la più grande, seguita dalla WestRock e poi dalla Georgia Pacific, dalla Packaging Corporation of America e dalla Pratt. Sono tutte “integrate verticalmente”, cioè raccolgono i tronchi, producono polpa di cellulosa, hanno impianti per fabbricare le scatole e reti di distribuzione.

Più o meno tutte sono cresciute divorando i loro concorrenti più piccoli, come pesci predatori in un acquario. “Mi ricordo che quando sono stato assunto alla Smithers, nel 2021, ho visto un foglio dati con due colonne”, racconta Cooper. “Sulla colonna di sinistra c’era la situazione di dieci anni prima, sulla destra lo stato attuale. Da mille aziende eravamo scesi alla metà. Ecco come la International Paper o la West­Rock sono arrivate dove sono oggi: hanno comprato tante imprese regionali. E dopo ogni nuova acquisizione sono diventate più forti”. Cooper stima che nel 2022 la quota di mercato complessiva delle big five sia arrivata al 70 per cento dell’industria nazionale.

A livello globale il mercato dell’imballaggio tende a essere più frammentato, specialmente in Europa, dove si usa praticamente la stessa quantità di cartone degli Stati Uniti. In Africa e in Medio Oriente i consumi sono nettamente più bassi (in gran parte della regione il servizio Amazon Prime non è ancora disponibile). Ma diamo tempo al tempo: un anno fa la Smurfit Kappa, un’azienda cartaria irlandese, ha investito 35 milioni di dollari in un impianto da 25mila metri quadrati in Marocco. La struttura rafforzerà una rete nascente di cartiere che, secondo gli analisti, porterà il mercato africano e mediorientale a un fatturato di 1,9 miliardi entro il 2029.

Il mercato più ampio e più in crescita per il cartone ondulato, però, è la Cina, forte di una classe media in espansione e sede del colosso del commercio online Alibaba. Il paese asiatico non produce polpa di cellulosa, perché non ha abbastanza alberi adatti. L’industriale del cartone più famosa del mondo è la cinese Zhan Yin, 65 anni, la “regina della spazzatura”: è proprietaria di una multinazionale che ha mosso i primi passi raccogliendo carta straccia in Nordamerica e inviandola in Asia per trasformarla in cartone. “Quello cinese è stato per decenni un mercato della carta riciclata”, spiega Oskar Lingqvist, capo della divisione carta, prodotti forestali e imballaggi della McKinsey. Poi, a causa della guerra commerciale con l’occidente, nel 2017 Pechino ha vietato l’importazione di tutti i rifiuti, dalle plastiche al cartone usato. “Perciò ora abbiamo un’industria che cerca faticosamente di trovare il modo di reinventarsi, per esempio importando polpa di cellulosa dalla Russia o investendo in piantagioni di legname in Vietnam e nel Laos. Oppure sperimentando nuovi usi della polpa ricavata da fibre native come il bambù”, dice Lingqvist.

Con la sua fame di cartone ondulato, la Cina sta rimodellando l’economia globale, probabilmente in modo profondo e duraturo. “Abbiamo assistito a un’esplosione di aziende brasiliane che si sono riconvertite al comparto del container­board, piantando e abbattendo pini con l’obiettivo esplicito di esportare la polpa in Cina”, dice Bruno Kanieski da Silva, docente di economia forestale alla Mississippi state university. Gran parte della polpa esportata è ricavata dagli eucalipti e dai pini loblolly, che non sono alberi nativi del Sudamerica ma hanno risposto straordinariamente bene al clima locale, umido, caldo e piovoso.

Negli ultimi cinque anni tutta questa nuova attività – in Sudamerica, in Russia, nei bacini forestali degli Stati Uniti sudoccidentali e del sudest asiatico – ha contribuito a un aumento colossale della produzione. Nel 2020 le fabbriche di carta e cartone di tutto il mondo hanno sfornato più di quattrocento milioni di tonnellate di materiale. Secondo gli analisti, nel 2032 si arriverà a 1,6 miliardi di tonnellate, pari al peso di sedicimila portaerei. Possiamo tranquillamente dire che mai nella storia ci siamo affidati a un materiale d’imballaggio prodotto in serie per tanto tempo, e certamente non in questa misura. C’è qualcosa di sbalorditivo, nel vero senso della parola, ma anche d’inquietante. Se ci fermiamo a riflettere, scopriamo cosa c’è davvero dietro il boom delle scatole: la voglia di comprare sempre più cose e, soprattutto, la gratificazione istantanea. Pazienza se questa gratificazione prevede che prima di arrivare a destinazione una bottiglia di balsamo per capelli passi per tre porti diversi, un centro di distribuzione e centinaia di chilometri di autostrada.

Salto di qualità

Data questa relazione simbiotica con il commercio, non sorprende che il progenitore della scatola di cartone prodotta in serie, il migrante scozzese Robert Gair, fosse anche lui un industriale. Arrivò negli Stati Uniti nella metà dell’ottocento, combatté nella guerra civile dalla parte dell’Unione e nel 1864 aprì la sua prima fabbrica di sacchetti di carta a New York. Probabilmente non avrebbe mai fatto il salto di qualità se un giorno una delle sue macchine non fosse impazzita, squarciando i sacchetti con una serie di tagli orizzontali. Eureka! Se per sbaglio una macchina poteva essere programmata per tranciare un sacchetto di carta, pensò Gair, poteva anche essere programmata di proposito per tagliare e piegare pile di carta. “Poco dopo”, scrisse il New York Times, “realizzò le sue prime scatole pieghevoli, e l’idea ebbe subito successo”.

Il quotidiano aveva ragione a metà. Gair non fu il primo a sperimentare la scatola di carta pieghevole: le scatole di “cartone incollato”, fatte con avanzi di carta straccia, erano in circolazione fin dal settecento, anche se in quantità limitata. Fu però il primo ad automatizzare il procedimento. E come spesso succede con le invenzioni di successo, la chiave fu il tempismo: negli Stati Uniti e in Europa era l’epoca dell’industrializzazione e della produzione di massa, e le aziende cercavano un modo economico e sicuro di spedire e presentare i loro prodotti. Gair aprì una fabbrica più grande nel nord di Brooklyn, vicino all’imbocco dell’omonimo ponte (il suo dominio sul quartiere era tale che per un periodo la zona fu chiamata informalmente Gairville). Poi, nel 1884, si sparse la voce che un chimico tedesco, Carl Dahl, aveva perfezionato il processo kraft, migliorando notevolmente la lunga e faticosa lavorazione manuale della polpa. Ancora una volta, Gair si trovava nel posto giusto al momento giusto. Investì in taniche kraft, e quando la tecnologia di corrugazione arrivò negli Stati Uniti, investì anche in quella, riuscendo così a produrre scatole più grandi e più robuste, in grado di trasportare merci più pesanti, come lo zucchero e i chicchi di caffè. Quando morì, nel 1927, Gair aveva sei fabbriche e migliaia di dipendenti. Era “multimilionario”, scrisse il New York Times nel suo necrologio. Un’impresa non da poco, considerando che un milione di dollari nel 1927 equivaleva a quasi diciassette milioni di dollari di oggi.

Rome, Stati Uniti, luglio 2022 (Esto)

La cosa più impressionante del successo di Gair, però, è la sua longevità. Ai nostri giorni la tecnologia di produzione delle scatole è indubbiamente più raffinata, “ma il processo fondamentale, i princìpi scientifici di base sarebbero familiari anche a chi lavorava nel settore venti, trenta, quaranta o cinquant’anni fa”, mi ha detto Troy McDaniel, un veterano dell’imballaggio. “Lo scheletro è sostanzialmente lo stesso. La differenza è che oggi è tutto più veloce, più efficiente, più sicuro. Si produce di più e si personalizza di più”.

Quando visito l’impianto della International Paper diretto da McDaniel a Lithonia, in Georgia, mi ritrovo davanti a uno scaffale di scatole ordinate di recente dai clienti dell’azienda: Amazon e Procter & Gamble sono entrambe ben rappresentate, ma tra i maggiori acquirenti c’è anche una pizzeria locale. Le scatole variano per colore, forma e resistenza. Alcune sono stampate semplicemente con un logo e un codice a barre, altre hanno elementi grafici elaborati e fotorealistici. “Dico sempre che abbiamo un milione e mezzo di modi di fare una scatola”, afferma McDaniel. “In realtà anche di più, perché sul catalogo dell’International Paper ci sono un milione e mezzo di modelli di scatole, ma i clienti possono sempre ordinarne di nuovi. Torna tra un paio d’anni, probabilmente saremo arrivati a due milioni”. Mi dà una pacca sulla spalla e aggiunge: “Dai, forza. Andiamo a vedere come avviene la magia”.

Proseguiamo a piedi verso il lato ovest dell’impianto e raggiungiamo una zona di carico piena fino al soffitto di rotoli di containerboard. Come la cartiera di Rome, la struttura è dominata da un unico, costosissimo macchinario: in questo caso, una piegatrice da vari milioni di dollari che inghiotte il containerboard a una velocità di 365 metri al minuto. “Ogni ordine che riceviamo è accompagnato da un elenco di specifiche”, spiega McDaniel. Un produttore di smartphone può chiedere cinquemila scatole da sessanta centimetri con un basso grado di robustezza. Se invece l’ordine arriva da un’azienda avicola, le scatole dovranno essere più grandi, molto più robuste nella composizione e nell’ondulazione e rivestite, per prevenire le perdite.

Probabilmente, nello strappare una scatola di cartone, avrete notato la somiglianza tra un pannello di carta ondulata e un panino. C’è un sopra e un sotto, e in mezzo una farcitura zigrinata e rinforzata diagonalmente chiamata scanalatura (fluting), che dà all’imballaggio la sua qualità protettiva. Senza le scanalature, l’ondulato sarebbe un semplice containerboard. I clienti dell’International Paper scelgono il tipo di scanalatura da un catalogo che va dalla più spessa, tipo A, alle microscanalature, come E e F.

Rome, Stati Uniti, luglio 2022 (Esto)

“Le scanalature si creano qui in alto”, dice McDaniel, indicando una serie di rumorosi ingranaggi che danno alla carta minuscole pieghe, come una specie di origami su scala industriale. “E qui”, continua raggiungendo la postazione successiva, “è dove si applica il rivestimento interno”. Prima la scanalatura, poi il rivestimento interno e infine la superficie esterna, detta ponte. I tre strati sono sigillati insieme con l’amido di mais, che è fatto bollire e applicato dalla macchina piegatrice con un dosatore. L’amido viene versato ancora umido; poi è asciugato, o “curato”, da una serie di piastre di metallo riscaldato. E il panino è servito.

Velocità ottimale

McDaniel si volta per guardare un tabellone a led appeso al soffitto, che indica il metraggio rimanente dell’ordine in corso e la velocità di lavorazione della piegatrice. “Novanta metri al minuto”, dice McDaniel annuendo con il capo. “Esattamente quello che vogliamo”. A una velocità ottimale, la macchina può arrivare fino a trecento metri al minuto. Più andiamo avanti lungo la linea di assemblaggio più la tecnologia è avanzata. Ci sono gru robotizzate con artigli ricurvi. C’è il flexo, abbreviazione di dispositivo di stampa flessografico, un apparecchio capace di applicare un logo e un codice a barre su una dozzina di scatole nel tempo che ci vuole per pronunciare “dispositivo di stampa flessografico”. E c’è il magnifico e ipnotico fustellatore rotativo, che risucchia il cartone e lo punzona in superficie.

Quelle che mancano, nell’impianto, sono le persone: ce ne sono poche. Come nella cartiera di Rome. All’epoca di Robert Gair, la fabbricazione delle scatole era affidata in gran parte a squadre di operai. Anche le prime macchine automatizzate avevano bisogno di una supervisione costante. Il processo attuale è notevolmente più snello, molto meno soggetto a blocchi e molto più adatto alle dimensioni dell’industria: un fustellatore rotativo è in grado di svolgere il lavoro di un’intera squadra di operai per 24 ore al giorno.

Dopo che l’ondulato esce dal flexo o dal fustellatore, è accatastato e spostato su una serie di rulli nel retro del magazzino: spedire le scatole già assemblate sarebbe inefficiente, quindi è il compratore che in genere provvede alla costruzione finale. Guardo le cataste sparire una dopo l’altra nell’oscurità. Arrivo a duecento, poi smetto di contare.

Rome, Stati Uniti, luglio 2022 (Esto)

Nel 2021 è stato riciclato il 5 per cento dei rifiuti plastici consumati negli Stati Uniti; il resto è stato depositato nelle discariche sparse per il paese, dove quasi certamente si trova ancora oggi. Il tasso di riciclo del vetro è un po’ più alto, il 31 per cento, e per l’alluminio le cose vanno ancora meglio: la metà delle lattine consumate ogni anno dagli statunitensi rientra nella catena di distribuzione. Nessun materiale di largo consumo per la spedizione o l’imballaggio, però, può competere con il tasso di riciclabilità del cartone, che oscilla tra il 90 e il 91 per cento.

I consumatori sono molto sensibili a questi aspetti, anche se non sono in grado di recitare a memoria i dati di riciclo di ogni singolo tipo d’imballaggio. “È vero che non compriamo mai la confezione, compriamo quello che c’è dentro”, osserva Cooper, l’analista della Smithers. “Ma ormai ci aspettiamo la sostenibilità in tutto quello che consumiamo. Quindi per un’azienda ricorrere di più al cartone è una scelta saggia”. Al negozio di alimentari vicino a casa mia, i pomodori ciliegini che prima erano sigillati nella plastica ora si vendono in scatole di ondulato leggero; nel reparto delle bevande, accanto alle lattine in confezioni da sei ci sono scatole di cartone d’acqua. Il mio ristorante da asporto preferito ormai usa solo la carta al posto del polistirolo.

Gli osservatori più attenti dell’industria dell’imballaggio prevedono che questa tendenza si estenderà ad altri settori e regioni. “Questo non vuol dire che la plastica o altri materiali non avranno spazio”, dice Lingqvist, della McKinsey. “Ma in tante applicazioni, e in tanti mercati, i materiali a base di fibre si stanno imponendo, e presto potrebbero diventare dominanti”.

Un aiuto dalle alghe

Tuttavia, un tasso di riciclabilità del 91 per cento non è ancora il 100 per cento. Negli ultimi anni l’industria dell’imballaggio ha investito milioni di dollari per ridurre ulteriormente gli scarti del processo di fabbricazione delle scatole. Nel 2021 l’azienda britannica Notpla ha lanciato una linea di scatole rivestite di un materiale compostabile a base di alghe. La statunitense Ecovative Design sta sperimentando degli imballaggi a base di funghi. Con il tempo le scatole a base vegetale potrebbero sostituire quelle in cartone.

Ma come mi spiegano gli scienziati dell’imballaggio Tom Corrigan e Marcia Popa quando visito il loro laboratorio nel campus della multinazionale statunitense 3M a Saint Paul, nel Minnesota, il principale ostacolo è la scala: gli alberi sono grandi, i funghi sono piccoli. Bisognerebbe raccogliere un numero esorbitante di miceli per raggiungere i livelli di produzione di una fabbrica di cellulosa. “Semplicemente, la carta è molto più disponibile”, dice Popa. “L’infrastruttura c’è già”, concorda il suo collega.

Corrigan è alto e snello. La sua cordialità spontanea e senza filtri e i capelli biondi spettinanti fanno pensare a un professore di scienze delle medie. Qualche anno fa, mi racconta, ha cominciato a essere “ossessionato dall’idea di usare la carta per realizzare imballaggi più adattabili”: essenzialmente una versione a base di fibre del pluriball, o millebolle (il foglio di polietilene con bolle d’aria), che potesse ridurre lo spazio morto in un imballaggio. Il materiale doveva essere abbastanza sottile per la spedizione ma allo stesso tempo espandibile, in modo da riempire il vuoto all’interno della scatola e impedire al contenuto di muoversi. Alla fine, ha trovato l’ispirazione in un libro sull’arte giapponese del kirigami, una forma di origami che prevede anche il taglio della carta. “Il 4 luglio”, ricorda, “mi sono steso sull’amaca in giardino e ho buttato giù un po’ di idee”, basando quei bozzetti sui modelli che aveva visto nel libro sul kirigami. “Mi sono reso conto che con le giuste perforazioni si possono realizzare imballaggi in carta che si espandono e si contraggono esattamente come una fisarmonica”.

Per mesi Corrigan, Popa e un piccolo gruppo di ricercatori hanno lavorato a un prototipo del materiale, che è stato prodotto l’anno scorso dalla 3M con il nome di cushion lock. “A volte usavo un taglierino di precisione, a volte un programma Cad. Facevo tagliare la carta al laser qui in laboratorio”, dice Corrigan. “Si trattava di perfezionare il modello e il grado di protezione”. Durante queste prove, i collaboratori di Corrigan hanno avvolto degli oggetti a caso nel cushion lock e li hanno fatti cadere da varie altezze. Corrigan mi passa un rotolo del materiale. Si comprime con una tale fluidità che sembra fatto d’acqua. “È distribuito come un rotolo compatto di carta, giusto?”, dice Corrigan. “Ma si espande sessanta volte il suo volume, perciò si risparmia tantissimo spazio di stoccaggio”.

Ufficialmente la 3M definisce il cushion lock un supporto per l’imballaggio più che un imballaggio vero e proprio; il materiale non può essere accatastato e non è rigido, quindi non protegge dallo schiacciamento. Corrigan e Popa, però, hanno immaginato altre applicazioni. Con l’aggiunta di un rivestimento in containerboard, il cushion lock potrebbe diventare un sacchetto o una busta da lettere leggera e riciclabile, capace di adattarsi a oggetti non frangibili (come i capi di abbigliamento) con una precisione impensabile per una scatola.

Da sapere
Una grande varietà
Produzione di carta e cartone, tipi di materiale, milioni di tonnellate (Fonte: Allianz trade)

C’è un’espressione usata nel settore per questa tecnica: right sizing (corretto dimensionamento). “Le scatole di cartone sono fantastiche, ma tendono a essere troppo grandi e anche rigide”, dice Pat Lindner, vicepresidente della divisione imballaggio e innovazione di Amazon. Se non s’imballa in modo intelligente, il cliente si vede arrivare una scatola con una percentuale del 90 per cento di aria e il 10 per cento di prodotto, che è uno spreco e un danno: è successo a tutti di aprire uno scatolone e di trovarci dentro un oggetto singolo, libero di vagare come una pallina da flipper e rotto in mille pezzi.

Negli ultimi tempi Amazon ha realizzato un algoritmo per capire qual è la dimensione ottimale della scatola per ogni prodotto. È usato nell’85 per cento delle spedizioni globali, sostiene l’azienda. “Siamo in grado di adattare la scatola all’oggetto in modo da non spedire più aria”, dice Lindner. “Non c’è bisogno di aggiungere altri imballaggi”. E poi precisa: “Direi che in generale, la nostra preoccupazione principale è ridurre l’imballaggio ovunque possiamo e limitarlo al minimo indispensabile, in modo che il cliente riceva il prodotto come l’ha ordinato e come si aspetta di averlo”. In aggiunta al right sizing, Amazon ora permette ai clienti di scegliere come devono essere imballati – o non imballati – i prodotti che hanno ordinato.

Se aggiungete articoli al carrello Amazon, vi accorgerete che possono essere spediti insieme in un’unica scatola, a patto che siate disposti ad aspettare. In alcuni casi i prodotti arrivano senza scatola, come mi è successo ultimamente con il tè in lattina: fino a un anno fa il tè, preconfezionato in involucri di cartone con il logo del produttore, mi arrivava a casa all’interno di un secondo imballaggio di cartone ondulato con il logo di Amazon; ora il secondo imballaggio non c’è più. Amazon dice che nel 2021 sono stati spediti più di due milioni di prodotti senza imballaggi aggiuntivi.

Il colosso del commercio online ama collegare le sue iniziative di sostenibilità alla questione della responsabilità aziendale: il più dissoluto speditore di scatole dev’essere consapevole del suo impatto ambientale. In realtà, riconosce Lindner, di qui a qualche anno l’azienda non avrà altra scelta. Su trenta paesi presi in esame da un recente studio sugli imballaggi della McKinsey, 24 hanno normative collegate alla riduzione o alla limitazione dei materiali di trasporto. Ventidue hanno introdotto regole sulla raccolta e lo smistamento dei rifiuti industriali e normative sulla cosiddetta responsabilità estesa del produttore, che premiano chi dà priorità ai metodi di spedizione più sostenibili. Negli Stati Uniti molti stati offrono consistenti incentivi fiscali alle aziende che privilegiano imballaggi in cartone ondulato delle dimensioni giuste.

Da sapere
Un’industria globale
Produzione di carta e cartone, per regione, milioni di tonnellate (Fonte: Allianz trade)

Livello mondiale

Alla fine del 2021 l’International Paper ha annunciato la costruzione di un nuovo impianto ad Atglen, in Pennsylvania. La struttura avrà più di 130 dipendenti e farà da ponte tra la rete delle cartiere dell’azienda nel sud e i mercati del nordest. Quello di Atglen non è l’unico impianto nuovo: la WestRock sta ultimando una fabbrica di scatole di cartone ondulato nell’ovest dello stato di Washington, mentre l’azienda di imballaggi Rand Whitney ha avviato i lavori per quello che definisce un impianto “di livello mondiale” in Massachusetts, in grado di produrre trecento milioni di scatole all’anno.

L’apertura di nuove fabbriche è il segno della convinzione diffusa che la domanda di imballaggi in cartone ondulato continuerà a crescere, anche se i grandi rivenditori al dettaglio stanno testando iniziative di riduzione e right sizing. Una scatola di cartone con le dimensioni corrette è sempre una scatola, e per farla serve comunque un produttore, una cartiera e un responsabile dell’approvvigionamento dei materiali, come Alex Singleton. Aggiungiamo la sostituzione graduale di altre forme d’imballaggio con il cartone, ed è facile capire perché il settore è così ottimista.

Mentre l’industria cresce, anche l’ambiente che ci circonda probabilmente cambierà, sebbene più lentamente e meno drasticamente di quanto sta succedendo in paesi come il Brasile, che si stanno dedicando anima e corpo a servire il mercato asiatico del cartone. Il modo migliore per immaginare questo cambiamento, dice Robert Abt, che insegna scienze forestali e risorse ambientali alla North Carolina state university, è vedere quello che sta succedendo nel sud degli Stati Uniti. In Georgia e in Alabama le imprese a gestione familiare hanno ceduto il passo a piccoli imperi di piantagioni di alberi, create in gran parte su terreni privati e quasi sempre piantando pini in zone dove prima crescevano altri tipi di alberi (o altre colture, come il cotone). “Per molta gente è una questione di adattamento”, dice Abt, che è cresciuto nel settore: suo padre lavorava per una cartiera in Georgia. “Ti sposti dove ci sono i profitti”.

Nella primavera del 2022 insieme a Singleton partiamo in auto da Rome e ci addentriamo sul tratto collinoso di un terreno boschivo che appartiene a una famiglia. Jamie Jordan, uno dei proprietari, ci aspetta all’ingresso della piantagione con suo figlio Jesse.

“Abbiamo sempre fatto gli agricoltori, da che ci ricordiamo”, dice Jordan. “Prima c’era mio padre, prima di lui mio nonno e così via; adesso ci sono io e presto ci sarà Jesse”, continua. “Abbiamo coltivato di tutto: verdure, mais, cotone”. Oggi i Jordan coltivano soprattutto pini, e inviano gran parte della cellulosa alla cartiera dell’International Paper a Rome.

Risaliamo sul furgone e prendiamo una strada sterrata, che si trasforma prima in sentiero dissestato e poi una serie di depressioni sul terreno. La foresta si chiude intorno a noi, un cervo si agita nella boscaglia. Uno scoiattolo rosso ci fissa da un cumulo di argilla.

Ma intorno ci sono soprattutto pini, pini a perdita d’occhio. ◆ fas

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Questo articolo è uscito sul numero 1504 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati