Claudia Apablaza
Storia della mia lingua
Edicola, 136 pagine, 13 euro

Diranno che è un romanzo, un memoir, un’autobiografia, ma a noi non importano le definizioni, anche perché la voce narrante mette subito in chiaro le cose: le è stato detto che non sa scrivere romanzi, ma antefatti (“esperimenti, balbettii”). La protagonista è una donna che si trasferisce da un paese del Sudamerica in Spagna, una migrazione che provoca degli slittamenti anche nella lingua, nonostante la comune ispanofonia. Mi viene in mente Gabriela Wiener in Sanguemisto, quando scrive: “La prima volta che mi hanno detto che non stavo scrivendo in spagnolo. Che non parlavo correttamente lo spagnolo. Voi è vosotros, non ustedes. Le correzioni sono estirpazioni”. Storia della mia lingua evoca, in maniera poetica e introspettiva, una serie d’immagini proiettate nei testi di autrici ispanofone che scrivono in Spagna. Al di là delle riflessioni teoriche sul rapporto linguistico tra madrepatria e colonie, la parte che trovo più originale del testo dell’autrice cilena è la sua capacità di far convergere la lingua (come sistema di suoni, sintassi, accento) con il suo lato più anatomico (la saliva, i denti, le gengive). Storia della mia lingua è un libro bellissimo, forse perché ha fatto vibrare alcune corde (vocali) tirate, che da un po’ di tempo sono particolarmente sensibili all’intreccio tra bocche e denti, lingue e potere. Ne parlerò con l’autrice sabato 9 marzo al Book pride di Milano.

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Questo articolo è uscito sul numero 1552 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati