Dopo essere stato dichiarato colpevole di 34 reati da una giuria di Manhattan, Donald Trump ha annunciato che resterà candidato alla elezioni e che, se vincerà, farà il presidente pure dal carcere. In realtà la situazione è già abbastanza folle di per sé, anche senza uno scenario così estremo. Trump è il primo presidente degli Stati Uniti (in carica o meno) a essere giudicato colpevole di un crimine, nonché il primo pregiudicato a essere candidato da uno dei grandi partiti del paese. Il peso della vicenda va ben oltre le elezioni. Anche i critici più spietati, infatti, riconoscono che gli Stati Uniti sono un modello di società ricca e libera, capace di attirare milioni di immigrati. Di conseguenza il caos generato da un’elezione di Trump non solo avvicinerebbe lo spettro di una guerra civile, ma innescherebbe un cambiamento nell’ordine globale.

Voglio affrontare questo argomento attraverso una lettura tardiva del film Civil war di Alex Garland. La finzione, d’altronde, ci permette di osservare tendenze sociali che possono sfuggire nella confusione degli eventi reali. Il film di Garland si svolge nel contesto di una guerra civile tra il governo federale, gestito da un presidente dispotico al suo terzo mandato, e alcuni movimenti secessionisti, tra cui il più solido è quello delle Forze occidentali (Wf), guidate dal Texas e dalla California. La storia finisce con la Casa Bianca occupata dalle Forze occidentali, che uccidono il presidente.

Il film è raccontato dalla prospettiva di un gruppo di giornalisti che viaggia da New York a Washington per intervistare il presidente assediato, tra cui l’esperta fotografa di guerra Lee Smith e la giovane Jessie Cullen, aspirante fotoreporter. Jessie si rimprovera di essere troppo spaventata per fare al meglio il suo lavoro, ma gradualmente, diventando sempre più insensibile alla violenza, acquisisce sicurezza. Quando le due giornaliste entrano nella Casa Bianca semiabbandonata, Jessie si avvicina a uno scontro a fuoco per scattare le sue foto. Lee interviene per proteggerla, ma viene raggiunta da una pallottola fatale. Jessie fotografa la morte della collega mentre la trascina via. Poi, impassibile, si dirige verso lo studio ovale, dove un gruppo di soldati delle Wf sta per uccidere il presidente, e ottiene il permesso d’immortalare l’omicidio, prima che i soldati si mettano in posa con i piedi sul cadavere del presidente.

Subito dopo aver visto il film mi sono venute in mente due cose. Prima di tutto Civil war può essere letto come un romanzo di formazione estremizzato in cui Lee e Jessie si scambiano i ruoli. All’inizio Lee è una reporter imperturbabile interessata solo a scattare foto, mentre Jessie prova troppa compassione per essere del tutto neutrale. Alla fine, però, Lee resta uccisa mentre cerca di salvare Jessie, che invece diventa l’incarnazione del distacco e addirittura scatta una foto dell’amica morente.

In realtà si tratta di una presunta neutralità, nonché di una trappola da evitare a ogni costo. Scegliere da che parte stare oggi è assolutamente necessario, ed essere insensibili davanti alla violenza significa stare dalla parte del sistema violento. In Ucraina, a Gaza, in Cisgiordania e in centinaia di altri luoghi, l’unico modo per trovare la verità che cerchiamo è osservarla sapendo da che parte stare.

La seconda osservazione riguarda un elemento sottolineato da altre recensioni: nel film le divisioni politiche sono confuse. L’alleanza tra la California liberale e il Texas conservatore è un’assurdità; il presidente autoritario abbina le caratteristiche di un Biden progressista a quelle di un Trump populista; i soldati che i giornalisti incontrano durante il viaggio a Washington non dicono nulla in grado di spiegare perché combattono, a parte qualche frase razzista. Sarebbe sbagliato, però, considerare questo aspetto come il frutto di una strategia commerciale per non perdere gli spettatori che potrebbero non apprezzare una particolare linea politica. In poche parole, il film rappresenta la prospettiva di una guerra civile che perseguita la vita pubblica americana da almeno dieci anni, con una progressiva disintegrazione sociale.

Trump è il primo presidente degli Stati Uniti (in carica o meno) a essere giudicato colpevole di un crimine, nonché il primo pregiudicato a essere candidato da un grande partito

Questa realtà è sempre più attuale. Oggi non assistiamo solo allo scontro tra il centro progressista e la destra populista, condita da una spruzzata di nuova sinistra (le proteste degli studenti), ma anche a una serie di strane alleanze (per dirne una, sia l’estrema sinistra sia l’estrema destra si oppongono al sostegno all’Ucraina) e a nuove spaccature (la sinistra filopalestinese è divisa tra pacifisti contrari al terrorismo e chi sostiene Hamas come gruppo di resistenza). La mia premessa è che tutti questi dibattiti siano in realtà pseudoconflitti, e non dovremmo schierarci passivamente e a priori.

Il populismo di Trump è una reazione al fallimento del welfare. Dunque, pur dovendo sostenere alcuni valori proposti dal centro progressista (diritto all’aborto, antirazzismo), non possiamo dimenticare che proprio il centro progressista è alla radice della nostra crisi. Questo ci porta alla frase scritta da Gramsci nei Quaderni del carcere: “La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. Le battaglie di oggi, dalla destra populista alla cancel culture, sono fenomeni morbosi.

In una situazione così ingarbugliata possiamo reagire in modi diversi. Ricordate Serpico, il film del 1973 di Sidney Lumet? L’eroe della storia non è solo un poliziotto onesto che combatte la corruzione nelle forze dell’ordine. Il suo approccio morale è più sottile: Serpico vuole semplicemente stare fuori dal giro della corruzione, rifiuta di accettare la sua parte di bustarelle e chiede di tornare a lavorare nelle strade, dove la corruzione è quasi assente. È importante non sottovalutare questa scelta: tenendosi lontano dalle mazzette, e agendo come se il sistema funzionasse bene, per i poliziotti corrotti Serpico è una spina nel fianco ancora più fastidiosa di chi combatte apertamente la corruzione.

Come si comporterebbe Serpico in una guerra civile? Il personaggio di Lumet è forse l’equivalente della piccola città di Civil war in cui le giornaliste si fermano per comprare provviste, dove le persone fanno finta che la vita vada avanti come sempre e perfino i negozi di abiti di lusso sono aperti? (Sui tetti si vedono uomini armati che proteggono la città). Molti elettori agiscono così: vogliono sopravvivere alla tempesta trovando un rifugio sicuro, continuando la loro vita come se niente fosse.

Ma quando uno stato e le sue istituzioni sono coinvolte in un crimine, la strategia di Serpico non funziona più. Ricordate lo scandalo che ha coinvolto l’ex presidente sudafricano Jacob Zuma? Dopo essere stato condannato al carcere nel 2021, Zuma ha ignorato l’invito a presentarsi nel penitenziario, e le autorità non erano pronte a farlo arrestare. All’epoca i nostri mezzi d’informazione erano pieni di commenti sull’inefficienza dello stato di diritto in un paese del terzo mondo. Ma come potremmo definire uno stato dove c’è la possibilità concreta che un uomo faccia il presidente da dietro le sbarre?

Se Trump vincerà, sarà la fine dello stato di diritto. Se perderà, potrebbe essere peggio: buona parte della popolazione si considererebbe esclusa dallo spazio pubblico

Subito dopo aver lasciato il tribunale, Trump ha dichiarato: “La vera sentenza arriverà il 5 novembre, e la emetterà il popolo”. Il messaggio è chiaro. Citiamo il sondaggista Doug Schoen: “Certo, essere condannato non è una buona cosa, ma a novembre gli elettori penseranno all’inflazione, al confine meridionale, alla rivalità con Cina e Russia e ai soldi spesi per aiutare Israele e l’Ucraina”. Vero, “essere condannato non è una buona cosa”, però la condanna rende Trump un pregiudicato, e di sicuro è una pessima cosa quando un pregiudicato può essere eletto presidente del paese più potente del mondo. Non esiste una via di mezzo, nessun compromesso tra le due opzioni disponibili. Viene perfino il dubbio di non poter rinviare all’infinito una guerra totale.

La tesi di Schoen, naturalmente, riguarda l’effetto della condanna sugli elettori. In questa prospettiva, entrambe le opzioni sono catastrofiche. Se Trump vincerà, sarà la fine dello stato di diritto per come lo concepiamo oggi, compresa la separazione dei poteri. Lui ha già annunciato che in caso di vittoria imporrà una serie di riforme talmente radicali da rendere inadeguata la nostra idea condivisa di democrazia, per non parlare delle conseguenze sul piano internazionale (nessun sostegno all’Ucraina e pieno appoggio a Israele, per cominciare) che trasformerebbero gli Stati Uniti in uno dei paesi dei Brics. Se Trump perderà, le cose potrebbero andare ancora peggio: buona parte della popolazione si considererebbe esclusa dallo spazio pubblico e questo avvicinerebbe il paese a una guerra civile.

C’è una speranza? In una lettera a Max Brod, Franz Kafka scrisse: “C’è infinita speranza, ma nessuna per noi”. Una dichiarazione ambigua, che però può essere letta anche come “nessuna per noi se restiamo come siamo oggi, dunque dobbiamo cambiare radicalmente”. Parlando della rivoluzione di ottobre, Kafka notava: “Il momento decisivo per l’evoluzione umana è permanente. Per questo i movimenti intellettuali rivoluzionari che dichiarano irrilevante tutto ciò che è accaduto in precedenza sono nel giusto, perché ancora nulla è successo”.

Oggi il fatto che non sia ancora successo niente significa che tutte le opzioni principali – nuovo populismo di destra, centro progressista, vecchio welfare, fondamentalismo religioso – sono nate morte. La vera utopia è l’idea che dalle opzioni sul tavolo possa emergere un nuovo ordine mondiale capace di affrontare le nostre crisi, dal clima alla guerra. Decenni fa Theodor Adorno scrisse: “Nient’altro che la disperazione può salvarci”, un concetto più condivisibile che mai. Questo non significa rimanere seduti e sperare: dovremmo disperatamente agire in ogni modo possibile. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1566 di Internazionale, a pagina 43. Compra questo numero | Abbonati