Zaynab ha lo sguardo che a tratti si spegne mentre racconta quello che le è successo negli ultimi due anni. È la fine di aprile e siamo in una pensione a Islamabad, la capitale del Pakistan. Lei è seduta su una sedia e tiene in braccio la figlia Helal, che ha poco più di un anno. È insieme alla madre Sima Namah, al fratello Mohammed e al nipote Ali Omar, un bimbo di quattro anni dalla vivacità contagiosa. Sono qui da tre giorni, ma il loro viaggio è cominciato molto prima: vivono braccati da otto mesi, con il terrore di essere trovati e arrestati dai taliban.
La parabola del Bastan
Zaynab Mehrzad è l’ex portiera del Bastan, la squadra di calcio femminile di Herat, città vicino alla frontiera con l’Iran, nell’Afghanistan occidentale. Ha giocato cinque anni in questa squadra, sfidando ogni giorno le minacce dei taliban. Da quando sono tornati al potere in Afghanistan, dopo il ritiro delle truppe statunitensi nell’agosto 2021, hanno imposto rigidi divieti a tutte le donne, e Zaynab è finita nel loro mirino. Insieme a lei le sue compagne di squadra, oltre alle migliaia di attiviste, giornaliste e avvocate che negli ultimi vent’anni hanno lavorato per creare una società più aperta. Ma la situazione di Zaynab era ancora più pericolosa. Perché nel 2019 ha sposato un uomo che nel frattempo è diventato un dirigente del nuovo governo taliban.
Zaynab è riuscita comunque a ottenere un visto per ragioni sanitarie ed è scappata in Pakistan. Da qui aspetta di prendere un volo per Roma: attraverso uno dei corridoi umanitari che il governo italiano ha garantito agli afgani in pericolo. Dopo aver trascorso mesi nascosta in una località segreta a Kabul e i due anni precedenti in balia del marito, che la segregava in casa picchiandola regolarmente, è finalmente al sicuro. Per la prima volta può esprimersi liberamente, raccontare la sua vita, rimettere in fila tutti quegli eventi che sembrano segnarle il volto come tante cicatrici invisibili.
Con Zaynab ci conosciamo da sei anni. La prima volta che l’ho incontrata era il 2016. Ero in Afghanistan per seguire dei progetti di sostegno alle donne che il Cospe, una ong di Firenze, stava portando avanti con alcuni partner locali. Insieme a Pamela Cioni, la responsabile della comunicazione dell’organizzazione, avevo intervistato avvocate minacciate di morte, deputate che vivevano nascoste in bunker, ex spose bambine violentate dai mariti. Poi, pochi giorni prima del nostro rientro in Italia, la direttrice di un’associazione di Herat ci aveva chiesto se volevamo incontrare delle giovani calciatrici. Abbiamo detto subito di sì e di lì a breve un gruppo di ragazze poco più che adolescenti aveva fatto irruzione nell’ufficio dell’organizzazione. Erano guidate dal loro allenatore, Najibullah Nawrozi, un uomo di poche parole, dall’espressione grave e dagli occhi di ghiaccio, che trattavano come un padre. Le ragazze ci hanno raccontato entusiaste della squadra, delle difficoltà che affrontavano a praticare uno sport tradizionalmente maschile in una società ancora fortemente patriarcale, del sogno di giocare all’estero. Poi ci hanno invitato ad assistere a uno dei loro allenamenti, convocandoci allo stadio alle cinque del mattino del giorno successivo.
Si allenavano così presto un po’ per non dare nell’occhio, un po’ per godere del fresco e sopportare meglio l’inconveniente di dover giocare tutte coperte. Avevano il velo in testa, magliette a maniche lunghe, calze fin sopra le ginocchia. Era un compromesso, avevano tenuto a spiegarmi, che avevano dovuto accettare per non indispettire una società conservatrice. La squadra era alle prime armi: le calciatrici non avevano né divise né scarpini ed erano costrette a giocare in una parte laterale dello stadio, perché non avevano il permesso di usare il campo principale. Eppure correvano su e giù, sotto lo sguardo vigile e compiaciuto dell’allenatore. Nawrozi ci ha raccontato come aveva fatto a mettere in piedi il gruppo, convincendo uno a uno i genitori delle calciatrici. E come quest’esperienza irritasse le frange più conservatrici della società, tra cui i taliban. “Ricevo continuamente lettere e telefonate anonime con minacce di morte, ma, vedendo l’entusiasmo che hanno queste ragazze quando si allenano, so che non mi posso fermare. Anche se mi dovessero uccidere, sono pronto a morire”. L’allenatore interpretava il suo ruolo come una missione e così facevano le giocatrici. Ripetevano che i loro allenamenti e lo stare insieme erano un modo per opporsi alla violenza fisica e psicologica che le donne subivano in Afghanistan, un modo per affermare il sogno di una società più aperta e ugualitaria.
La storia della squadra femminile amatoriale di Herat minacciata dai taliban mi pareva così interessante, e per certi versi così eroica, che ho pensato di farne il soggetto di un documentario. Così nel 2017, sempre con il supporto del Cospe, sono tornato in Afghanistan con il collega e videomaker Mario Poeta, e abbiamo trascorso una decina di giorni a riprendere ora per ora la quotidianità del Bastan.
Rispetto all’anno prima, la squadra era cresciuta: alcuni finanziamenti avevano permesso l’acquisto di divise e scarpe da calcio. Le giocatrici potevano finalmente allenarsi nel campo principale e si erano iscritte al campionato femminile afgano, nel quale stavano inanellando una serie di vittorie. Tutte raccontavano con orgoglio i progressi fatti e sottolineavano che avevano affrontato tre volte in incontri amichevoli le soldate italiane di stanza a Herat. Nelle tre partite, disputate nella base di Camp Arena, avevano sempre prevalso, infliggendo sconfitte anche umilianti alle militari italiane. “Abbiamo vinto sette a due contro quelle donne che erano alte il doppio di noi”, dicevano ridendo.
Abbiamo passato molto tempo con le calciatrici, in particolare con quelle che avevamo scelto come protagoniste del film. Tra loro c’erano Zaynab, che giocava in porta, e Maryam, che stava in difesa. Maryam e Zaynab sono sorelle. E nonostante i quattro anni di differenza, vivono in una specie di simbiosi e stanno sempre insieme. Poiché Maryam parla inglese, stavamo spesso con lei e quindi anche con Zaynab, a cui la sorella faceva da interprete. Ci raccontavano la loro vita, come si erano trovate a giocare a pallone e come non avrebbero rinunciato per nulla al mondo a quei tre allenamenti settimanali e alle partite di campionato.
Un giorno Maryam ci ha detto: “Per me lo sport è come l’aria, se non lo praticassi soffocherei”. Zaynab insisteva sull’aspetto simbolico del calcio, su quanto poter giocare tra donne in un paese come l’Afghanistan fosse un atto di emancipazione dal forte significato politico.
Durante le partite era lei, la più grande della squadra, a trascinare le compagne. In campo urlava, incitava le attaccanti, esultava a ogni gol. Con la sua maglietta gialla e la sua risata travolgente era un punto di riferimento per tutte le altre. Quando, alla fine delle riprese, abbiamo chiesto alle nostre protagoniste cosa si auguravano per il futuro, Maryam aveva intonato la canzone We shall overcome. Zaynab invece aveva lanciato un appello a tutti i genitori che impedivano alle ragazze di praticare sport: “Non infrangete i sogni delle vostre figlie. Lasciate che queste bambine e queste ragazze crescano. Quando tua figlia cresce, anche tu, come genitore, cresci con lei”.
Non sapeva ancora che di lì a poco i suoi sogni sarebbero stati infranti. Non dalla sua famiglia di origine, ma dall’uomo che aveva scelto di sposare.
Zaynab racconta le violenze fisiche subite dall’ex marito
Negli anni successivi abbiamo mantenuto i contatti con le giocatrici, soprattutto con quelle che parlavano inglese come Maryam. Noi raccontavamo l’accoglienza che il film Herat football club riceveva nei festival in cui lo presentavamo. Loro ci aggiornavano sui progressi del Bastan. La squadra macinava successi su successi. Nel 2020 ha vinto il campionato femminile afgano. Su Messenger abbiamo ricevuto una serie di foto in cui le calciatrici esultavano insieme a Nawrozi con una grande coppa in mano. Si apriva la possibilità di andare a giocare all’estero, di coronare un sogno che molte di loro coltivavano da tempo. Ma parallelamente ai trionfi del Bastan, la situazione in Afghanistan si faceva ogni giorno più difficile.
L’accordo di Doha, il trattato di pace siglato tra gli Stati Uniti e i taliban nel febbraio 2020, aveva di fatto legittimato il movimento armato, spianando la strada degli estremisti verso la conquista del potere. In teoria i negoziati dovevano portare a un governo di unità nazionale che avrebbe incluso anche i taliban. In realtà l’obiettivo principale dell’allora presidente Donald Trump era chiudere la parentesi della missione militare in Afghanistan, che dal 2001 al 2020 era costata agli statunitensi la cifra record di 2.300 miliardi di dollari.
Ad agosto del 2021, qualche mese dopo rispetto alla data prevista dall’accordo, la nuova amministrazione guidata da Joe Biden avviava il ritiro delle truppe. E nel giro di pochi giorni, con una rapidità inaspettata, i taliban conquistavano le principali città. Herat cadeva il 12 agosto. Il 15 agosto i taliban entravano a Kabul. Nel primo pomeriggio dello stesso giorno i ribelli occupavano il palazzo presidenziale e sostituivano tutte le bandiere afgane rosse, verdi e nere con i vessilli bianchi dell’emirato islamico, mentre il presidente Ashraf Ghani fuggiva ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti. Vent’anni dopo che il loro regime era stato rovesciato dai bombardamenti statunitensi, i taliban tornavano al potere, imponendo fin da subito i loro divieti: le donne non potevano studiare, lavorare o andare in giro da sole. Meno che mai potevano praticare sport.
Caos all’aeroporto
È in quei giorni che si fanno vive le calciatrici di Herat. Sia io sia Mario riceviamo diverse richieste d’aiuto su Messenger e Instagram. “Please help us, we are in trouble”, per favore aiutateci siamo nei guai. “They will kill us”, ci uccideranno. Le giocatrici temono che i taliban mettano in atto le minacce lanciate nel corso degli anni. Che le puniscano per aver osato giocare a calcio e rivendicare così un ruolo nella società al pari degli uomini. Sono terrorizzate: bruciano le divise e i certificati dei tornei a cui hanno partecipato. Cercano di cancellare ogni traccia della loro attività sportiva. Rimangono chiuse in casa, paralizzate dalla paura che da un momento all’altro i taliban vengano a prenderle. Ogni giorno scrivono per chiedere aiuto. All’inizio non sappiamo che fare. Poi, parlando con il Cospe e con alcuni deputati italiani, decidiamo che forse si può cercare di tirarle fuori da quella situazione di pericolo. Il governo ha avviato una missione di evacuazione per chi ha collaborato con l’esercito italiano e per gli attivisti e le attiviste che rischiano la vita sotto il nuovo regime dei taliban.
L’operazione si chiama “Aquila omnia” e prevede che le persone inserite su apposite liste siano evacuate con voli militari. Il fatto che le calciatrici del Bastan abbiano giocato a più riprese contro le soldate italiane garantisce loro un’attenzione particolare da parte dei vertici militari. Sia dal ministero degli esteri sia da quello della difesa arriva l’approvazione: le calciatrici e le loro famiglie sono inserite nella lista delle persone da evacuare. Ma c’è un problema: possono partire solo dall’aeroporto di Kabul, 850 chilometri a est di Herat. Le giocatrici devono raggiungere la capitale con i loro mezzi, sobbarcandosi un viaggio lungo e pericoloso. Gli chiedo chi se la sente di assumersi il rischio. Dopo qualche ora arrivano i nomi. Ci sono l’allenatore Najibullah Nawrozi e ci sono quattro ragazze. C’è Maryam, ma non c’è Zaynab.
Scrivo a Maryam e le chiedo perché la sorella non vuole partire. Sapevo che nel frattempo si era sposata e che, essendo rimasta incinta, aveva temporaneamente smesso di giocare. Immaginavo che la sua situazione familiare, e in particolare la necessità di badare alla figlia neonata, la spingesse a rimanere in Afghanistan. Ma non sapevo con chi si fosse sposata. Maryam scrive che la situazione di Zaynab è “complicata”. Dice che il marito la tratta male. Mi manda una foto in cui si vede il volto della sorella pieno di lividi. Le chiedo se Zaynab se la sente di andare a Kabul e di venire in Italia. In giornata arriva la risposta: sì. Anche Zaynab e la figlia Helal, di quattro mesi, sono inserite nella lista.
Un paio di giorni dopo, completamente coperte dal burqa, Maryam e Zaynab partono di nascosto in autobus da Herat, insieme alla piccola Helal. Hanno i telefoni spenti e l’indicazione di non usarli fino a quando non saranno a Kabul. Dopo ventiquattro ore arriva il messaggio. “Siamo in aeroporto”. Ma nel frattempo la situazione precipita: i taliban annunciano che non è più permesso ai cittadini afgani di lasciare il paese. E cominciano a mettere dei posti di blocco sulla strada che conduce all’aeroporto. Migliaia di persone si dirigono così verso l’Abbey gate, l’ingresso dello scalo in cui si trovano i militari stranieri, per approfittare dell’ultima possibilità. Maryam manda delle foto: c’è una folla mostruosa. Scrive: “Pare che tutto l’Afghanistan si sia riversato qui”. Nell’immagine si vede un canale d’acqua di scolo e, al di là del canale, un muro di cinta in cima al quale ci sono dei soldati britannici.
Nel frattempo sono arrivati Nawrozi e le altre ragazze. Sono insieme ma non riescono a raggiungere il muretto. “È impossibile avanzare”, scrivono. Io seguo la situazione dall’Italia via WhatsApp. Abbiamo creato una specie di cabina di regia virtuale, insieme al Cospe e a Mauro Berruto, ex allenatore della nazionale maschile di pallavolo e oggi dirigente del Partito democratico. Berruto fa da raccordo con i militari italiani del reggimento Tuscania all’interno dell’aeroporto. Per tutto il giorno rimaniamo in contatto: le ragazze mi mandano le loro posizioni, io le giro a Berruto, che a sua volta le inoltra ai vertici del Tuscania. La direttiva è andare a cercare le calciatrici, ma il caos fuori è tanto. I militari assicurano che usciranno, ma devono aspettare il momento opportuno.
Cala la notte su Kabul. Le ragazze scrivono: “Non ce la faremo mai, rinunciamo”. Le esortiamo a resistere, gli diciamo che tutto andrà bene. Continuiamo a parlare, ma nulla accade. Arriva l’alba.
Dopo qualche ora Maryam mi manda un messaggio: “Zaynab è dovuta tornare a Herat”.
Dopo la fuga della moglie e della figlia, il marito di Zaynab e i taliban hanno deciso di rivalersi sulla famiglia di lei. Hanno arrestato due dei suoi fratelli e hanno cominciato a picchiarli. A quel punto la madre ha chiamato la figlia e le ha detto: “Ti prego torna, altrimenti li uccidono”. Con il cuore in gola, le due sorelle si sono divise. Zaynab ha preso un autobus verso casa. Maryam è rimasta all’Abbey gate nel tentativo di fuggire in Italia. Nonostante il caos, ha deciso di restare, di tentare il tutto per tutto. Insieme all’allenatore e alle compagne cerca di farsi spazio tra la folla, per farsi identificare dai soldati stranieri. Poche ore dopo, verso il tramonto, i militari italiani escono, trovano le calciatrici e le portano dentro lo scalo.
Dopo più di 36 ore passate lì fuori, Maryam, Nawrozi e le compagne di squadra Susan e Fatema sono al sicuro. Sono tutti accompagnati dai familiari, eccetto Maryam, che è sola. È in salvo ma è preoccupata: la sorella è tornata a Herat nelle mani del marito violento, i fratelli sono in quelle dei taliban. Dirà mesi dopo: “In quei momenti non ragionavo, ero come un robot. Guardavo il muro e pensavo: che ne sarà di me e della mia famiglia?”.
Passano poche ore e dall’interno dell’aeroporto si sente un boato tremendo: un attentatore suicida si è appena fatto esplodere proprio di fronte all’Abbey gate, causando una strage. A terra rimangono i cadaveri di centosettanta cittadini afgani e di tredici militari statunitensi. È il 26 agosto. L’evacuazione finisce così. Nessuno entrerà più nello scalo. Maryam e le altre ce l’hanno fatta in extremis. Due ore dopo sono imbarcate su un volo diretto all’aeroporto di Roma Fiumicino.
La casa protetta
Maryam arriva in Italia ed è portata all’hub della Croce rossa di Avezzano, in Abruzzo. Grazie all’interessamento del Cospe, oltre che del comune di Firenze e della Caritas locale, le calciatrici, l’allenatore e i loro familiari sono accolti nel capoluogo toscano. Maryam va a vivere in un monolocale messo a disposizione dall’Istituto universitario europeo di Fiesole. È contenta di essere al sicuro, ma teme per la sua famiglia e per Zaynab in particolare. Si sentono tutti i giorni: la sorella ha chiesto il divorzio, ma sa che non è facile ottenerlo, anche perché il marito è diventato una persona influente nella nuova amministrazione taliban. Alla fine, lei gli promette di non lasciare il paese e lui acconsente alla separazione. Zaynab va a vivere dalla madre. E pochi giorni dopo comincia la seconda e più delicata fase del suo piano di fuga.
Dopo l’interruzione dei voli, il governo italiano ha garantito che attiverà dei corridoi umanitari per le persone che erano nelle liste di agosto. Ma poiché lo scalo di Kabul è in mano ai taliban, questi corridoi partiranno dai paesi vicini, dal Pakistan e dall’Iran. Zaynab sa che il marito la tiene d’occhio. È infuriato con lei, la vuole punire. L’ex portiera teme per la sua incolumità, oltre che per quella della piccola Helal. Vuole scappare, ma non vuole ripetere l’errore della prima volta. Non vuole lasciare a Herat i suoi familiari in balia della rabbia di suo marito e dei taliban.
Grazie a Pangea, un’ong di Milano molto attiva in Afghanistan, Zaynab e i suoi familiari hanno la possibilità di ricevere protezione in una casa a Kabul. Così una mattina, approfittando della momentanea assenza da Herat dell’ex marito di Zaynab, partono per la capitale. Dovranno restare chiusi nella casa rifugio finché non avranno ottenuto il visto per il Pakistan. È il settembre 2021. Nella casa sono in otto: oltre a Zaynab e a Helal, ci sono la madre Sima Namah, il suo secondo marito Ghulam Farooq, i due fratelli Mohammed e Hamed, la cognata Parasto e il piccolo Ali Omar, figlio di Parasto e Hamed. Hanno l’ordine tassativo di non uscire di casa, per nessun motivo. Anche se non possono andare fuori, sono contenti: si sentono più al sicuro che a Herat. Ma un giorno Zaynab riceve un messaggio dall’ex marito: “So che sei a Kabul, l’ho visto dalla tua sim. Ti vengo a prendere”.
Solo una cosa sembra rincuorare Zaynab. Il pensiero di rivedere presto Maryam, la sorella con cui è “un’anima e due corpi, due facce e un cuore”
Tutta la famiglia è immediatamente trasferita in un’altra casa, e la sim buttata. Rafforzate anche le misure di sicurezza: divieto di usare il telefono e WhatsApp. Zaynab riesce a comunicare con Maryam su Telegram, più difficile da intercettare. Ha paura, teme di essere scoperta. Kabul è grande ma i taliban sono ovunque. L’ex marito è in città e la cerca senza sosta. Passano le settimane, i mesi. Non succede nulla. Lei vive nel terrore costante di essere scovata. Gli otto nella casa sono sospesi in un limbo. Non possono tornare a Herat, perché lì li aspetterebbe l’incarcerazione o qualche pena peggiore. Né possono andare in Pakistan, come previsto, perché l’autorizzazione tarda ad arrivare.
Poi improvvisamente la svolta: alla fine di aprile 2022 i visti arrivano. Non tutti, però, ne mancano quattro. Ma i responsabili di Pangea assicurano che anche per gli altri non manca molto. Così Zaynab, la figlia Helal, la madre Simi Namah, il fratello Mohammed e il nipotino Ali Omar, si preparano a partire. Lasceranno Kabul nel cuore della notte per raggiungere dopo quattro ore di macchina Torkham, il valico al confine con il Pakistan.
Con Mario decidiamo di tornare in Afghanistan e seguire il loro viaggio. Due giorni dopo siamo a Kabul. Ma non ci incontriamo subito, perché la posizione della casa di Zaynab deve rimanere segreta e l’arrivo di due occidentali non passerebbe inosservato. Le istruzioni date da Pangea sono che viaggeremo con due auto, a debita distanza. Ci troveremo sulla strada non appena le condizioni di sicurezza lo permetteranno. Non potendo vederci di persona, facciamo una videochiamata a tre. Ci colleghiamo con Zaynab, che è nella casa segreta a poca distanza da noi, e Maryam, che ci fa da interprete da Firenze. Sono entrambe visibilmente emozionate , ma anche preoccupate. Dopo sette mesi, Zaynab uscirà dal suo rifugio. È una fuga verso la libertà, ma è il momento in cui si esporrà di più al rischio di essere scoperta. Il tragitto da Kabul al confine è disseminato di posti di blocco. Chi ci assicura che non sarà intercettata dall’ex marito o da qualche pattuglia dei taliban? Chi le garantisce che non sia stata segnalata e al confine non la fermino?
La partenza è fissata per il giorno dopo, alle quattro del mattino. Un autista ci viene a prendere in hotel nel cuore della notte. Zaynab e gli altri sono già partiti e sono davanti a noi. I due autisti comunicano per telefono. Dopo aver superato Jalalabad, l’ultima grande città prima del confine di Torkham, il nostro autista rallenta. C’è una macchina ferma sul bordo della strada. Dentro ci sono Zaynab, la madre, il fratello, il nipote e la piccola Helal. Ci rivediamo di persona dopo cinque anni. Zaynab ha un niqab che le copre tutto il corpo e lascia visibili solo gli occhi. Mentre ci salutiamo, passa un’auto piena di taliban. La guardano. Ci guardano. Passano oltre. Il suo volto si aggrotta in un’espressione di ansia. Dice una sola parola: “Andiamo”.
Ripartiamo immediatamente e dopo un’altra ora siamo a Torkham. Il confine brulica di camion stracarichi di merci, incolonnati in una coda che avanza a passo d’uomo. In fondo, c’è l’ingresso per i pedoni. È un piazzale pieno di gente, venditori, facchini, cambiavalute, tassisti. Appena scendiamo dalla macchina, una folla si accalca intorno a noi e a loro, offrendo servizi di vario genere, dal cambio di valuta al trasposto bagagli. Tiriamo dritto, facendo finta di non conoscerci, fino ad arrivare al valico di frontiera.
Zaynab vorrebbe tornare a giocare a calcio
È un lungo corridoio circondato da una rete con una fila di persone interminabile. Zaynab si fa spingere da un facchino su una sedia a rotelle insieme a Helal. È esausta. Continuiamo a ignorarci per non suscitare sospetti. Dopo più di due ore, e diversi controlli di documenti e bagagli, attraversiamo tutti il confine. Zaynab non è stata riconosciuta, i taliban l’hanno fatta passare. Arrivando nella parte pachistana, ha l’aria decisamente più rilassata. Ritrova il sorriso che conoscevamo. Ci abbracciamo e cominciamo a chiacchierare.
Siamo in una grande sala con centinaia di afgani che aspettano di farsi validare il visto. Il fratello Mohammed si mette in fila e dopo una mezz’ora ottiene l’autorizzazione: possono passare. Noi no: per un intoppo burocratico non possiamo entrare in Pakistan attraversando il valico di Torkham. Gli agenti di confine ci dicono che con quel visto dobbiamo necessariamente entrare per via aerea. Protestiamo un po’, ma alla fine non possiamo far altro che tornare a Kabul e prendere un volo per Islamabad. Ci separiamo da Zaynab e dagli altri, dicendogli che ci vedremo presto in Pakistan.
Tornati in Afghanistan, dopo alcune vicissitudini, riusciamo a prendere un volo per Islamabad. Dopo tre giorni siamo di nuovo riuniti in una pensione della capitale pachistana. La famiglia di Zaynab occupa tutta un’ala sotterranea dell’edificio: ci sono due stanze e una grande sala piena di giochi che è presa d’assalto da Helal e Ali Omar. Sarà questa la loro residenza temporanea in attesa che siano organizzati i voli per l’Italia.
Qui Zaynab racconta nei dettagli quello che le è successo: la progressiva trasformazione dell’ex marito, che prima le aveva garantito tutte le libertà e poi l’ha chiusa in casa; le violenze fisiche, che sono continuate anche quando era incinta. “Mi impediva di vedere i miei. Se gli dicevo che avevo nostalgia, mi picchiava. Quando ero al sesto mese di gravidanza, mi ha riempito di pugni sulla testa. Mi è uscito il sangue dagli occhi e sono svenuta. Per un mese non sono riuscita a vedere bene”. Zaynab non dimentica il terrore fisico che ha provato quando ad agosto del 2021 i taliban hanno conquistato Herat. “Ho pensato: ora è davvero tutto finito. Non avrò più alcun modo di scappare da lui”.
Ricorda la fuga verso Kabul per salire sul volo insieme a Maryam e lo sconforto quando è dovuta tornare indietro perché il marito aveva preso in ostaggio i fratelli. “Li aveva già condannati a morte quando sono tornata e in quel preciso momento ho capito che non potevo più stare con lui. Allora ho detto ai mullah che volevo il divorzio e gli ho mostrato le foto che dimostravano le sue violenze. Lui ha tirato fuori le immagini di me che giocavo a pallone. Mi hanno puntato le armi contro e a quel punto ho detto: ‘Se volete, uccidetemi. Ma io voglio il divorzio’”. Le hanno detto: “Sei testarda”. Ma alla fine la separazione è stata concessa, dopo che Zaynab aveva promesso al marito di non lasciare il paese. “Ma non potevo restare. Era troppo pericoloso. Così sono fuggita e ora sono qui”.
Zaynab parla lentamente, in modo quasi meccanico, descrivendo tutte le disgrazie che le sono capitate negli ultimi due anni. Non è più la ragazza di ventidue anni che trascinava con il suo carisma il Bastan, la portiera spensierata che ti travolgeva con le sue risate improvvise. È una donna di ventisette anni con una figlia di poco più di un anno, in fuga dall’ex marito e con la prospettiva di doversi costruire una vita da zero, in un paese diverso da quello di origine, nel quale presumibilmente non tornerà per molto tempo. Un’unica cosa sembra rincuorarla: il pensiero di poter rivedere e riabbracciare Maryam, la sorella con cui è “un’anima e due corpi, due facce e un cuore, dio solo sa quanto ho nostalgia di lei”.
In attesa di un lieto fine
Tutto questo accadeva alla fine di aprile. Dopo sei mesi Zaynab è ancora a Islamabad. L’attesa doveva essere di qualche settimana ma si è prolungata. I corridoi umanitari per i rifugiati afgani accolti dall’Italia procedono a rilento. Alla fine di luglio è partito il primo volo, ma Zaynab non era a bordo. Nel frattempo è stata raggiunta dai familiari che erano rimasti a Kabul e sono stati tutti trasferiti in una casa insieme a decine di afgani che aspettano di partire. Sono previsti altri voli, ma non si sa quando né per quante persone. Sono centinaia gli afgani in attesa di salire su un aereo per trovare quella sicurezza e quella pace che nel loro paese non possono più avere, anche a causa delle attività svolte per il governo precedente sostenuto dagli occidentali.
Zaynab è preoccupata. Comincia a temere di rimanere in Pakistan, che tutti gli sforzi fatti, i rischi che ha corso, si rivelino inutili. Vive nel terrore costante che l’ex marito la raggiunga e la costringa a tornare in Afghanistan. Dice che lui sa che sono tutti oltreconfine e che potrebbe avere agganci a Islamabad. Dal suo monolocale in cima alle colline di Fiesole, Maryam cerca di tenerle su il morale, ma a volte anche lei si fa prendere dallo sconforto. Le due sorelle, separate ormai da un anno e due mesi, si sentono sempre, anche cinque volte al giorno.
“Aspetto un lieto fine. Ho tanto bisogno di una buona notizia”, dice Maryam con un’espressione affranta. Ma il lieto fine tarda ad arrivare e la paura che non arriverà mai aumenta ogni giorno di più. ◆
Il reportage pubblicato in queste pagine è accompagnato da un podcast in cinque puntate e da due video, online su internazionale.it.
Stefano Liberti è un giornalista italiano. Il suo ultimo libro è Terra bruciata (Rizzoli 2020).
Mario Poeta è un videomaker italiano che collabora con giornali stranieri.
◆ Zaynab è il nuovo podcast di Internazionale scritto e narrato da Stefano Liberti, con la direzione creativa di Jonathan Zenti e la collaborazione di Mario Poeta. A partire dal 3 novembre i cinque episodi sono disponibili sul sito di Internazionale, su Apple, Spotify, Spreaker, Google podcasts o sulle altre piattaforme. Qui il link per ascoltarlo.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1485 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati