25 maggio 2021 11:23

Il luogo ormai conosciuto come George Floyd square, attualmente inaccessibile alle automobili, è diventato un memoriale. Chi lo raggiunge a piedi da Powderhorn park trova cartelli che consigliano di comportarsi in modo appropriato, come quegli avvisi fuori da una chiesa che vietano di indossare pantaloni troppo corti o scattare fotografie con il flash.

A pochi passi dal supermercato Cup Foods, l’ultimo luogo visitato da Floyd prima di essere assassinato, un centro artistico è stato trasformato in un museo che raccoglie tutti gli striscioni e i cartelli di protesta esibiti durante le manifestazioni. In un parco poco distante sono state piazzate circa 150 lapidi di plastica, ognuna con il nome di un afroamericano ucciso dalla polizia, la data di nascita e di morte, il pugno delle Pantere nere e le parole “rest in power”. La combinazione di impegno sociale e simboli ripresi dal radicalismo nero crea un’atmosfera da anni sessanta.

Powderhorn non somiglia per niente alla zona ovest di Baltimora, al South Side di Chicago, alla zona orientale di Cleveland e a tutti gli altri quartieri segnati dalla povertà, dalla crisi abitativa e dalla presenza massiccia della polizia. Qui i residenti sono per metà bianchi, il 30 per cento è ispanico e il 15 per cento afroamericano.

Modello improbabile
È un mosaico difficile da trovare, nella stessa Minneapolis come in altre città. I ristoranti di carne alla griglia gestiti dagli afroamericani convivono con i chioschi di tacos e i locali vegani. Questo miscuglio nasce dall’alleanza tra bianchi liberali, afroamericani e ispanici che mantiene i democratici al potere in quasi tutte le grandi città degli Stati Uniti. Il sindaco di Minneapolis, Jacob Frey, è un ebreo progressista. Il capo della polizia, Medaria Arradondo è afroamericano. A volte questa alleanza può essere complicata – Nakima Levy Armstrong, docente di diritto e attivista, accusa l’amministrazione di essere ossessionata dalle “piste ciclabili e dalle cose che interessano ai bianchi” – ma in generale funziona.

Dentro questa utopia progressista esistono aree dove si concentra la povertà

Minneapolis è un simbolo piuttosto improbabile del razzismo statunitense. La città dove Floyd si era trasferito da Houston è stata fondata da immigrati scandinavi che decisero di sfruttare una ripida diga naturale sul Mississippi per creare il futuro centro mondiale della macinatura di cereali.

Quegli immigrati portarono con sé una forma di capitalismo tipicamente scandinava. Qui è normale che le grandi aziende donino il 5 per cento dei loro introiti, e la camera di commercio stila una lista di tutte quelle che lo hanno fatto. “La lista è lunga, e restarne fuori non è una buona idea”, spiega David Mortenson, capo dell’omonima impresa edile, fondata dal suo bisnonno svedese e attualmente inserita nella lista Fortune 500. Una parte di quei soldi è usata per l’accoglienza dei rifugiati. Il Minnesota ospita molti profughi hmong e somali in fuga dalle guerre civili. Entrambe le comunità hanno prosperato ben oltre le aspettative, tanto che spesso delegazioni del governo svedese visitano Minneapolis per capire come mai i somali si siano ambientati molto meglio qui che a Malmö.

Ereditare la povertà
Tuttavia, dentro questa utopia progressista esistono aree dove si concentra la povertà, dove gli abitanti vivono in quartieri divisi in base all’appartenenza razziale e dove un ragazzo ha più probabilità di finire in carcere che di comprare una casa o sposarsi. Spostandosi a nord di Powderhorn Park, verso il centro, dove i vecchi mulini e i magazzini sul Mississippi sono stati trasformati in appartamenti e uffici, si arriva a Phillips. L’analisi dei dati condotta da Raj Chetty e dai suoi colleghi dell’università di Harvard indica che un nero nato 35 anni fa in questo quartiere oggi vive in una famiglia con un reddito annuale di appena 23mila dollari. La cifra è leggermente più bassa per gli uomini rispetto alle donne.

Questa povertà, tramandata di generazione in generazione, è una caratteristica di molte grandi città. Floyd era cresciuto nelle case popolari di Houston, ma sembrava aver trovato una via d’uscita attraverso una borsa di studio per meriti sportivi in un college della Florida. Sfumata la possibilità di una carriera sportiva, aveva alternato impieghi saltuari, periodi in carcere e consumo di droghe, finché aveva ritrovato la speranza nella religione e si era trasferito a Minneapolis per cominciare una nuova vita. In città aveva fatto vari lavori, anche in un locale notturno dove lavorava Derek Chauvin, il poliziotto che lo ha ucciso. In pratica Floyd aveva lasciato un quartiere segnato dalla povertà per trasferirsi in un altro simile.

La persistenza della povertà in uno stesso luogo, generazione dopo generazione, riflette il modo con cui sono stati creati i centri urbani. Il sud, dove vive ancora la maggioranza degli afroamericani, ha vissuto una segregazione formale. Ma qualcosa di simile è successo anche nel nord tra il 1916 e il 1970, dopo la grande migrazione di sei milioni di neri dal sud al nord, in fuga dalle leggi che imponevano la segregazione e alla ricerca di posti di lavoro migliori. Arrivati a Minneapolis, i neri che cercarono di stabilirsi nelle aree popolate dai bianchi furono cacciati dalla folla o dagli avvocati.

Anche nel nord la violenza era sempre in agguato. Tra la fine dell’ottocento e gli anni quaranta del novecento negli Stati Uniti ci furono più di 4.400 linciaggi, secondo il National memorial for peace and justice di Montgomery, con sede in Alabama. La maggior parte si verificò nel sud, ma succedeva anche al nord. A Duluth, città del Minnesota settentrionale, nel 1920 sei afroamericani che lavoravano per un circo furono accusati di aver stuprato una donna bianca. Un esame medico non riscontrò nessuna prova della violenza, ma i sei furono comunque linciati. Una fotografia in bianco e nero mostra due uomini a petto nudo impiccati a un palo, con un terzo cadavere steso per terra, circondati da un nutrito gruppo di uomini bianchi in vestiti eleganti e cappello, alcuni sorridenti. Duluth ha deciso di affrontare il proprio passato e nell’ottobre 2020 ha creato un memoriale per le vittime di quell’episodio.

La deindustrializzazione si abbatté sulle città del nord, nella regione che presto sarebbe stata ribattezzata rust belt, cintura della ruggine

I confini razziali furono spesso imposti attraverso contratti immobiliari che escludevano i neri. Il progetto Mapping prejudice dell’università del Minnesota ha permesso di scoprire migliaia di contratti che crearono un anello intorno al centro di Minneapolis. In uno dei contratti si legge: “Questa proprietà non potrà essere venduta, affittata o occupata da nessuna persona che non sia di razza caucasica”. Queste clausole riflettevano una classificazione razziale molto comune all’epoca. Alcune fanno riferimento agli ariani, la categoria prediletta dalla società di eugenetica del Minnesota gestita da Charles Fremont Dight, convinto che la chiave per il progresso fosse un misto tra il socialismo e la sterilizzazione delle persone mentalmente disabili finanziata dallo stato. Tra i corrispondenti di Fremont Dight c’era Adolf Hitler.

Quando la Federal housing administration, creata nell’ambito del new deal, cominciò a coprire i mutui, negli anni trenta, le limitazioni razziali contribuirono a determinare dove finiva il denaro. I bianchi ricevettero sussidi per comprare nuove case, i neri no. Nel 1948 la corte suprema stabilì che quel tipo di contratti, che erano usati in molte città, non dovevano essere rispettati. Tuttavia, chi vendeva una casa a una famiglia nera poteva essere citato in giudizio per aver ridotto il valore delle proprietà vicine.

Questa pratica è stata proibita dal Fair housing act del 1968. Ma dopo l’approvazione della legge molti bianchi si spostarono nei sobborghi ai margini delle grandi città, a volte lungo le nuove autostrade federali costruite attraverso i quartieri neri o progettate per circondarli. L’amministrazione di Chicago costruì un’autostrada a 14 corsie che separava un quartiere a maggioranza nera con molte case popolari dal resto della città. A Montgomery, in Alabama, l’autostrada federale segue un percorso tortuoso apparentemente insensato, ma che risulta perfettamente logico considerando dove vivevano i neri e dove vivevano i bianchi.

Nessun progresso economico
Nonostante tutto questo, la prima metà del ventesimo secolo e il Civil rights act del 1964 segnarono un grande passo avanti per gli afroamericani. Nel 1900 l’aspettativa di vita per un nero era di 33 anni, contro i 48 per un bianco. Nel 1960 il divario si era ridotto a sette anni. Ma da quel momento la tendenza si è fermata. Uno degli aspetti più inattesi è che il progresso economico degli afroamericani abbia accelerato in buona parte prima che fossero approvate le leggi sui diritti civili degli anni sessanta. Nel 2021 il tasso di proprietà degli immobili intestati ai neri è più basso di quanto fosse quello dei bianchi nel 1870. A Minneapolis tre quarti delle famiglie bianche possiedono una casa, contro un quarto delle famiglie nere. Il divario è il secondo più grande del paese. Uno studio condotto da Robert Putnam e Shaylyn Romney Garrett per il libro The upswing ha stabilito che per i maschi neri, dopo il 1970, “non c’è stato nessun progresso economico relativo”.

Sembra paradossale, perché anche il pessimista più estremo ammetterebbe che rispetto al 1968 – quando fu assassinato Martin Luther King – la società statunitense è meno razzista. Ma allora perché le prospettive di vita per gli afroamericani, soprattutto dei maschi, non sono migliorate? Secondo gli attivisti si tratta comunque di razzismo, in una forma più nascosta e insidiosa. È vero, ma la realtà è più complessa di quanto lasci pensare la parola “razzismo”.

Poco tempo dopo l’approvazione del Voting right act, la legge per il diritto di voto introdotta nel 1965 grazie agli sforzi del presidente Lyndon Johnson e di una coalizione di parlamentari democratici e repubblicani, la grande migrazione si concluse. La deindustrializzazione si abbatté sulle città del nord, nella regione che presto sarebbe stata ribattezzata rust belt, cintura della ruggine. Più che il razzismo, però, le cause di questa crisi furono la recessione, il cambiamento delle tendenze commerciali, i mutamenti tecnologici e il fatto che molte aziende si spostarono a sud, dove i lavoratori erano meno sindacalizzati. Tuttavia, come sottolinea il sociologo Julius Wilson, le politiche abitative razziste avevano spinto gli afroamericani verso le aree dove la perdita di posti di lavoro è stata più marcata, e le pratiche razziste nel mondo del lavoro in atto da generazioni avevano privato i neri delle qualifiche necessarie per competere con i lavoratori bianchi. Decenni dopo le cicatrici sono ancora visibili. Oggi solo il 60 per cento degli uomini afroamericani ha un lavoro, contro il 66 per cento dei bianchi e il 73 per cento degli ispanici.

Allo stesso tempo due fenomeni hanno colpito i quartieri neri. Per prima cosa l’aumento della criminalità, le cui cause sono ancora dibattute. La percentuale di uomini afroamericani è sproporzionata sia tra le vittime sia tra i colpevoli. In alcuni contesti è quasi normale che gli uomini neri senza un diploma finiscano in carcere prima o poi. Naturalmente i trascorsi carcerari hanno compromesso le prospettive dei giovani neri e hanno reso meno stabili le famiglie afroamericane. A metà degli anni duemila due neri su cento erano in prigione (da allora la percentuale si è ridotta). Il vortice di illegalità ha cominciato a rallentare negli anni novanta, per ragioni non del tutto chiare. Ma nelle aree popolate soprattutto dagli afroamericani il tasso di criminalità resta molto alto. Il 40 per cento dei neri riferisce di aver paura di camminare dopo il tramonto, contro il 30 per cento dei bianchi. Questo è uno dei motivi per cui la proposta di ridurre i fondi della polizia è poco popolare nei quartieri neri.

Il secondo cambiamento sostanziale è che i sobborghi delle grandi città sono stati presi d’assalto non solo dai bianchi ma anche dai neri della classe media che avevano i mezzi per trasferirsi. Allo stesso tempo è cominciata una contromigrazione verso il sud. Nelle città del nord dove la popolazione si è ridotta è più difficile risolvere il problema della segregazione nel settore immobiliare, perché al momento si costruisce poco. A Minneapolis, dove negli anni settanta la maggior parte dei progetti abitativi popolari si concentrava nei sobborghi, oggi l’attività si è spostata nelle aree più depresse, dove inevitabilmente si concentra la povertà. L’amministrazione comunale e quella statale hanno messo in pausa un progetto politicamente delicato per l’integrazione scolastica. Il risultato è che, nonostante le città diventino sempre più varie e abitate da nuovi ricchi, al livello di quartiere esiste una segregazione tra bianchi e neri simile a quella degli anni settanta.

Le persone rimaste indietro ne hanno sofferto le conseguenze. I ragazzi neri nati trent’anni fa nell’area che oggi è conosciuta come George Floyd square vivono con un reddito annuale di 17mila dollari. Uno su dieci finisce in prigione. Questo è il quartiere dove Floyd si è ritrovato fuori da Cup Foods, quella sera di maggio del 2020, con il ginocchio di un agente di polizia sul collo.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannicoThe Economist.

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