10 agosto 2021 15:35

La capitale della provincia di Nimruz è stata la prima a cadere, il 6 agosto. Il giorno dopo è toccato a Sheberghan, capitale della provincia di Jawzjan. Kunduz, Sar-e-Pol e Taloqan, tre dei 34 capoluoghi di provincia del paese, sono cadute l’8 agosto. Aibak, la città principale di Samangan, si è arresa il 9. Non sono le più grandi città del paese, ma la loro presa segna un preoccupante cambio di marcia nel conflitto.

Finora le conquiste dei taliban erano state limitate principalmente ai distretti rurali. Secondo governo di Kabul agli insorti mancava la potenza di fuoco o quella numerica per occupare le città. Questo ragionamento si è rivelato ottimista. I combattimenti si stanno spostando nei centri urbani, il che mette in pericolo più vite. Le città più grandi, tra cui Kandahar a sud e Herat a ovest, sono sotto assedio. Lashkar Gah, la capitale della provincia di Helmand, ha rischiato di essere invasa la scorsa settimana.

Non è chiaro se le città verranno riconquistate rapidamente. Kunduz era passata di mano sia nel 2015 sia nel 2016, ma entrambe le volte era stata ripresa pochi giorni dopo. Questa volta le forze armate afgane, combattendo su molti fronti, potrebbero dover concentrare la propria forza aerea e le proprie unità di comando per proteggere le città più importanti.

La caduta delle grandi città non è certo inevitabile, ma l’umore è cupo. La situazione è umiliante per le potenze occidentali le cui forze armate hanno passato anni a cercare di mettere in sicurezza l’Afghanistan. Gli Stati Uniti hanno quasi completato il ritiro delle truppe dopo vent’anni di presenza nel paese. In teoria, i taliban stanno negoziando un accordo con il governo di Kabul, come promesso nello stesso accordo con cui Washington si è impegnata a ritirarsi. In pratica, quell’accordo era una foglia di fico per nascondere il fallimento della missione americana. I taliban sembrano determinati a prendere il potere con la forza.

Le forze governative sono con le spalle al muro. “Supereremo questo. Ne usciremo più forti e più saggi. Risorgeremo come l’araba fenice”, ha detto il vicepresidente Amrullah Saleh il 6 agosto, cercando di esortare la sua nazione a reagire con coraggio. Eppure il morale è basso, mentre la lucida propaganda dei taliban strombazza una serie di vittorie.

La reazione
Molti afgani, tuttavia, hanno risposto con un atteggiamento di sfida. Negli ultimi giorni migliaia di persone si sono radunate nelle strade e sui tetti delle grandi città, tra cui Kabul, per sventolare la bandiera nera, rossa e verde della nazione, scandendo “Dio è grande!”. Le manifestazioni sono cominciate nella città occidentale di Herat, vicino al confine con l’Iran. Quella che era partita come un’idea sui social network è stata ripresa da Ismail Khan, un signore della guerra locale che ha rimesso in attività la sua milizia per difendere la città. Kabul ha seguito l’esempio di Herat la sera seguente. Da allora si sono susseguite manifestazioni simili in molte città.

I canti sono sia una sfida diretta ai taliban sia un’espressione di sostegno alle forze afgane, afferma Saddaf Yarmal, uno studente di vent’ anni che vi ha preso parte. “Dobbiamo sostenere il nostro paese”, aggiunge Mahjabin Siddiqi, uno studente di 23 anni. “Gli americani sono stati qui per vent’anni, ma non abbiamo visto buoni risultati. Ora tocca a noi”, ha detto.

La scelta della frase “Dio è grande!” come slogan è significativa. Non solo lo stesso grido era stata la colonna sonora della resistenza all’occupazione sovietica negli anni ottanta, ma è anche una sfida diretta alavere la pretesa dei taliban di un mandato religioso per governare. A ribelli islamici piace rivendicare un legame diretto con l’insurrezione che ha cacciato i russi, dipingendo la loro lotta come l’ultima battaglia contro un regime non islamico a Kabul.

Un portavoce dei taliban ha quindi reagito con rabbia online all’uso dello slogan, rivendicandone la proprietà anche se la frase compare sulla bandiera dell’Afghanistan. Ha detto che gli insorti hanno condotto la jihad con quelle parole per vent’anni e che ora non dovrebbero essere usate da “infedeli schiavi degli americani”.

La sfida in corso nelle grandi città dell’Afghanistan è diretta non solo ai taliban, ma anche al vicino Pakistan. È lì che vive gran parte della leadership taliban e dove i combattenti a volte hanno trovato rifugio. Con il peggioramento della situazione della sicurezza, è cresciuto il sentimento anti pachistano. “Giorno dopo giorno diventa sempre più chiaro che il Pakistan sta interferendo nelle nostre questioni interne”, afferma Javid Safi, un politico della provincia di Kunar, al confine con il Pakistan.

Sia i comandanti militari afgani sia quelli occidentali in ritirata sostengono che i taliban non sono un colosso inarrestabile. Un paio di vittorie del governo, o anche delle situazioni di stallo, potrebbero cambiare la situazione. Ma gli insorti sono in prima linea. Ed è improbabile che per loro le sei città appena conquistate siano le ultime.

Questo articolo è stato pubblicato dall’Economist.

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