15 luglio 2021 16:35

La storia delle invasioni dell’Afghanistan da parte di due superpotenze è piena di similitudini.

Nel 1988, mentre si preparava a lasciare l’Afghanistan, l’Unione Sovietica incrementò gli aiuti economici e militari destinati al governo di Mohammad Najibullah, e questo nonostante Mosca fosse consapevole che le richieste di nuove armi erano illegittime e basate su numeri gonfiati. Michail Gorbačëv e il suo Politburo si sentivano in colpa e volevano ricompensare i loro “amici afgani” (espressione che nei documenti ufficiali dell’epoca indicava Najibullah e i suoi sostenitori) per averli abbandonati alla furia dell’opposizione, addestrata, armata e finanziata dagli Stati Uniti.

Gorbačëv era inoltre consapevole di una quesitone legata alla dignità. “Disse spesso che non potevamo tirarci su i pantaloni e scappare, come avevano fatto gli americani in Vietnam”, ha ricordato nel 2009 il suo consulente per la politica estera Anatolij Černjaev.

I sovietici impiegarono oltre tre anni a lasciare l’Afghanistan dopo aver preso la decisione definitiva. Quando consegnarono la basi e l’equipaggiamento militare, le procedure furono piuttosto elaborate. I nuovi proprietari locali ricevettero caserme immacolate e armi appena testate. Il generale Boris Gromov, a capo del ritiro, ha ricordato nelle sue memorie (The limited contingent) il modo in cui furono lasciati il presidio di Jalalabad e la relativa caserma: “I letti erano in perfetto ordine. Anche i tappetini scendiletto erano nella posizione adeguata. C’erano pantofole sotto gli armadietti. La caserma conteneva tutti gli equipaggiamenti necessari. L’acqua corrente arrivava senza la minima interruzione”.

Oggi gli Stati Uniti partono dall’Afghanistan e vorrebbero completare il ritiro pochi mesi dopo la decisione finale presa dal presidente Joe Biden. Washington sembra più preoccupata dei sovietici dalla possibilità che le sue armi finiscano in mano ai probabili nuovi padroni del paese. I soldati, infatti, stanno distruggendo molti equipaggiamenti, e parte di ciò che gli americani stanno lasciando in Afghanistan è inutilizzabile, per scelta o per caso. Per esempio le automobili e i camion vengono abbandonati senza le relative chiavi. Inoltre gli Stati Uniti non sembrano particolarmente legati all’idea di un addio elaborato, almeno a giudicare dalla partenza notturna e inattesa dalla base aerea di Bagram, dove gli americani si sono limitati a tagliare la corrente elettrica (e di conseguenza la fornitura idrica) prima di andarsene.

I sovietici non hanno ottenuto alcun risultato con la loro guerra afgana, che non fece altro che accelerare la fine della potenza comunista

Ma più le cose sembrano diverse e più restano uguali. Il pulitissimo presidio sovietico di Jalalabad fu saccheggiato poche ore dopo la partenza dei russi. “Tutti gli oggetti di qualche valore – televisori, attrezzature audio, condizionatori, mobili, persino i letti – furono venduti nel mercato cittadino”, scrive Gromov. La stessa scena si è ripetuta a Bagram pochi minuti dopo la partenza degli statunitensi: i saccheggiatori hanno fatto irruzione e si sono portati via tutti gli oggetti di valore che sono riusciti a trovare.

I sovietici erano andati in Afghanistan per favorire un colpo di stato comunista nell’ambito della strategia espansionista della guerra fredda. Gli Stati Uniti, invece, hanno invaso il paese nel tentativo di eliminare Al Qaeda dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, una giustificazione teoricamente più onorevole. L’Unione Sovietica perse 15mila uomini in meno di dieci anni. Gli americani (sommando i dipendenti del Pentagono e quelli delle società militari private) ne hanno persi meno di metà in un lasso di tempo doppio. I sovietici non hanno ottenuto alcun risultato con la loro guerra afgana, e l’impiego di una grande quantità di risorse in un conflitto senza fine non fece altro che accelerare la fine della potenza comunista. Gli americani, dopo aver speso la cifra spaventosa di 2,26mila miliardi di dollari nella guerra, non rischiano il tracollo e sono quantomeno riusciti a spezzare la schiena di Al Qaeda e a uccidere Osama bin Laden, anche se non in Afghanistan.

Eppure è difficile concentrarsi su queste differenze quando le similitudini sono molto più forti. All’inizio del 1989, secondo Gromov, “l’opposizione” – un termine generico per indicare vari gruppi islamisti composti da signori della guerra che avevano come obiettivo esclusivamente i propri interessi – controllavano “207 distretti su 290”. Il numero di distretti è piuttosto fluido in Afghanistan, e secondo le stime attuali i taliban controllano un terzo dei “421 distretti e centri distrettuali”. Il numero continua a crescere. Questo significa che entrambe le superpotenze si sono consapevolmente lasciate alle spalle governi assediati e una sensazione di tragedia imminente che incombeva sui territori controllati da questi governi. Quando i taliban sono emersi come forza credibile in grado di mettere fine alle lotte interne tra i signori della guerra e hanno conquistato Kabul, nel 1996, impiccarono Najibullah nonostante all’epoca avesse ceduto il potere ormai da tempo. I leader afgani che hanno collaborato con gli Stati Uniti potrebbero andare incontro allo stesso destino se non lasceranno il paese.

In entrambi i casi il Pakistan ha ricoperto un ruolo decisivo nell’ostacolare l’ambizione delle superpotenze di controllare il radicalismo islamista. Come ha scritto spietatamente l’ex agente della Cia Bruce Riedel per il Brookings Institution all’inizio del 2021, “la guerra contro i taliban sarà impossibile da vincere fino a quando il Pakistan offrirà loro rifugio, addestramento, equipaggiamenti e fondi. Non possiamo sconfiggere il Pakistan, uno stato che dispone dell’arma atomica ed è la quinta nazione più popolosa del mondo”.

Nel 1989 il Pakistan violò gli accordi sulla riconciliazione nazionale afgana, creando la base per il ritiro dei sovietici. I ribelli afgani, compresi i combattenti che sarebbero entrati a far parte dei ranghi dei taliban, mantenevano una base in Pakistan e reclutavano gli afgani nei campi profughi locali. Dal paese vicino confluivano anche armi e denaro verso le zone di guerra, con l’aiuto degli Stati Uniti e degli alleati occidentali. Come accade oggi agli americani, all’epoca l’Unione Sovietica si rivelò impreparata ad affrontare militarmente il Pakistan.

In altre parole, a prescindere dai valori, dal tempo dedicato, dal numero di soldati persi e dalla posizione vincente e o perdente all’interno delle battaglie geopolitiche, chi abbandona l’Afghanistan lo fa lasciando dietro di sé scene di saccheggio, un regime debole e troppo dipendente dal sostegno estero (e che difficilmente resisterà a lungo), combattenti locali agguerriti che si sentono ricompensati dopo anni di sofferenze e infine compiaciuti generali pachistani al di là del confine. Un’altra costante è la fiorente industria degli oppiacei, che né i sovietici né né gli americani sono riusciti a debellare.

Queste circostanze durature non sono legate tanto al leggendario carattere indomito degli afgani, quanto al fatto che, fatte salve le differenze tra i sovietici degli anni ottanta e gli statunitensi nei primi due decenni di questo secolo, entrambi gli eserciti sono arrivati in Afghanistan senza la necessaria preparazione e con troppa arroganza e fiducia, per poi scoprire rapidamente che non avrebbero potuto restare nel paese. Americani e sovietici erano certi della superiorità del proprio esercito e dei propri valori. Entrambi notarono che alcuni locali apprezzavano ciò che avevano portato – ognuno la sua versione di un progressismo laico – e si convinsero che quei valori avrebbero preso piede. Ma né gli uni né gli altri sono stati capaci di mantenere a tempo indefinito la propria presenza. Nella nostra epoca non c’è spazio per la colonizzazione, un approccio che Gorbačëv era restio a seguire quando lo è oggi Biden. Alla fine, sia per gli americani sia per i sovietici, il costo umano e finanziario ha superato il desiderio di controllare l’Afghanistan.

Per i taliban, come per i ribelli afgani assortiti degli anni ottanta, l’intera ragione di esistere è proprio quella di restare in Afghanistan per sempre. Nel 2010, come già nel 1989, i combattenti locali sentono di poter lottare per il paese e per il suo stile di vita. I taliban possono essere particolarmente convincenti a questo proposito. D’altronde se hai intenzione di non andartene, qualsiasi cosa accada, puoi resistere più a lungo di qualsiasi superpotenza. L’attaccamento a un luogo e al suo stile di vita sono una costante molto forte che, come dimostra l’esempio dell’Afghanistan, può creare altre costanti.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito su Bloomberg.

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