24 maggio 2023 14:08

L’Everest attende in questa stagione un numero record di alpinisti, un migliaio di persone che sperano di raggiungere la più alta cima del mondo, a 8.848,86 metri di altitudine, dopo una salita costosa ma anche pericolosa, in buona parte a causa del cambiamento climatico.

La prima spedizione sull’Everest, chiamato Sagarmatha in Nepal e Chomolungma in Tibet, fu organizzata nel 1921 dai britannici, ma dovettero passare 32 anni e diverse spedizioni prima che il nepalese Tenzing Norgay e il neozelandese Edmund Hillary raggiungessero infine il “tetto del mondo”.

Nel 1923, quando gli chiesero perché volesse così tanto scalare l’Everest, l’alpinista britannico George Mallory ripose: “Perché è lì”.

Un’esperienza ottimale
Settantadue anni dopo, folle di alpinisti si radunano regolarmente e sempre più numerose sui fianchi della mitica montagna. In totale, più di seimila scalatori hanno raggiunto la cima, la maggior parte negli ultimi vent’anni.

“L’Everest è la montagna più alta ed è dall’alto dell’Everest che il vostro messaggio può guadagnare molta attenzione”, afferma l’alpinista Hai Budha Magar, un anziano combattente gurkha amputato di due gambe, che compie le salite per sensibilizzare il pubblico al tema della disabilità.

Il costo dell’ascensione varia dai 45mila ai 200mila dollari (tra 41mila e 182mila euro), in cui sono compresi il permesso delle autorità per gli scalatori stranieri (undicimila dollari), il viaggio, l’assicurazione, gli equipaggiamenti, il materiale e, ovviamente, le preziose guide.

Gli scalatori esperti hanno segnalato crepacci allargati, flussi d’acqua su percorsi prima innevati e formazione più frequente di laghi glaciali

Secondo Pasang Tenje Sherpa dell’agenzia Pioneer adventure, negli ultimi anni i costi sono aumentati, anche a causa delle richieste degli alpinisti che vogliono un’esperienza ottimale: “Oggi c’è una forte concorrenza tra le agenzie per offrire i migliori servizi ai loro clienti”. Al campo di base sono ormai disponibili pasti di qualità o connessioni wi-fi per restare in contatto con i familiari e apparire sui social network, comfort impensabili per i primi scalatori.

La salita dell’Everest, tuttavia, non è meno pericolosa di allora: secondo l’Himalayan database sono morte più di trecento persone dall’inizio della storia della scalata di questa montagna. E nella stagione di quest’anno sono già morte tre guide nepalesi, travolte dal ghiaccio sulla seraccata del Khumbu e precipitate in un crepaccio. Il 1 maggio è deceduto anche lo scalatore statunitense Jonathan Sugarman, di 69 anni che si è sentito male al campo II, a più di cinquemila metri di altitudine.

Anche se nessuno studio approfondito è stato condotto sugli effetti del cambiamento climatico per l’alpinismo sull’Himalaya, alcuni esperti scalatori hanno segnalato l’allargamento dei crepacci, la presenza di rivoli d’acqua su percorsi prima innevati e la formazione sempre più frequente di laghi glaciali.

Uno studio realizzato nel 2019 ha rivelato che i ghiacciai himalayani si stavano sciogliendo due volte più velocemente rispetto al secolo scorso. “A lungo termine, le temperature più calde rendono le montagne instabili e ciò aumenta il rischio (…) di cadute di pietre, cadute di ghiaccio e valanghe”, spiega Lukas Furtenbach dell’agenzia Furtenbach adventures.

Gli esperti sottolineano che il gran numero di scalatori fa aumentare il rischio di incidenti mortali. Almeno quattro degli undici decessi che si sono verificati nel 2019 sono stati attribuiti alle conseguenze del sovraffollamento.

Il Nepal ha già consegnato 466 permessi per la salita dell’Everest in questa stagione e, poiché la maggior parte degli alpinisti deve essere accompagnata da una guida, si può calcolare che più di 900 persone tenteranno di raggiungere la cima.

Le guide nepalesi – di solito di etnia sherpa delle valli vicine – sono la spina dorsale di questa industria multimilionaria, e corrono enormi rischi per trasportare attrezzature e cibo, riparare corde e scale.

Rimasti a lungo in ombra rispetto agli alpinisti stranieri, stanno lentamente ottenendo il giusto riconoscimento del loro ruolo e delle loro abilità di salita, e i riflettori cominciano ad accendersi anche su di loro, dato che i record sulle vette himalayane appartengono tutti alle guide nepalesi. “All’inizio, i nepalesi arrampicavano per sopravvivere, ma le cose stanno cambiando a mano a mano che le nuove generazioni acquisiscono esperienza e istruzione”, ha detto Ang Tshering Sherpa, ex presidente della Nepal mountaineering association.

(Traduzione di Elisa Nesta)

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